l’espresso 30.9.18
Per batterli serve una “nuova Europa”
Di Gianni Cuperlo
Ha
ragione Cacciari. Se il prossimo voto per l’Europa dirà su quale rotta
piega la storia, il campo democratico ha una sola strada: cambiare per
unirsi. Deve farlo nel segno di una discontinuità con molto di ciò che è
venuto prima. Tradotto? Presentiamoci agli italiani con una lista
civica nazionale. Battezziamola “Nuova Europa” e avanziamo questa
proposta alla famiglia socialista e della sinistra, quella animata da
nuove e vecchie formazioni. Userei quella formula così, senza aggiunte
di fogliame, piante o stelline stilizzate. Alla base mettiamo i simboli
di partiti, movimenti, disposti all’impresa. E richiamiamo le parole
destinate a distinguere la novità. Parole aggredite oggi più che mai:
democrazia e uguaglianza. Poi, anzi prima, costruiamo attorno al
progetto liste inclusive di personalità solide per principi difesi e
lotte vissute. Andiamo a cercare chi condivide due sentimenti. L’allarme
per il ritorno di un nazionalismo violento pronto a intaccare verità
scolpite della democrazia liberale; e il bisogno di rendere all’ideale
europeo l’anima sociale che lustri di rigorismo hanno mortificato.
Prevengo la critica, forse gli insulti, anche della mia parte: «Ma come?
Sacrifichiamo il simbolo del Pd proprio quando si devono riacciuffare i
voti persi?». Rispondo che non è una rinuncia. All’opposto, la prova di
aver compreso dove siamo, in quale punto della storia. Sarebbe la
scelta illuminata di adeguare l’offerta al merito. Perché a fine maggio
non si eleggeranno deputati e senatori. Si sceglierà la squadra che nei
prossimi anni dovrà ancorare l’Italia alla civiltà che ci ha visti
nascere restituendo risorse e speranze a chi la grande crisi ha lasciato
al palo. Quando il perimetro della competizione si fa continente, col
peso che le urne avranno, saggezza chiede di porre il nostro simbolo al
servizio di un piano largo, della scossa in grado di scuotere l’albero
raccogliendo buoni frutti. A sinistra in primo luogo e verso il centro,
ammesso che la categoria conservi spazio. Fare questo passo è la
premessa, l’offerta appunto. Che poi deve incrociare il merito. E
allora, detta per come va detta, se questo fronte largo dovesse mettersi
a difesa dell’Europa che c’è e che c’è stata il lusso nazionalista ci
travolgerebbe. Certo, non tocca a noi ammazzare l’Europa, tanto meno la
moneta. Se siamo vivi - l’Italia intendo - è merito anche di processi
maturati lì. Per primo la salvaguardia del nostro debito a opera del
piano della Bce, peraltro destinato a ridursi sino a estinguersi.
Insomma l’avversario da battere non è a Francoforte, ma una visione
storica e strategie se parliamo di economia, investimenti, modello
sociale, che hanno sradicato il ceto medio, creato sacche orrende di
povertà e risuscitato fantasmi destinati a trovare a destra nuovi
“paladini del popolo”. Un’Europa che per il sussulto di vita mostrato
sulle sanzioni all’Ungheria paga tutto intero il prezzo della sua
débâcle morale in materia di accoglienza e migranti. Ma anche per tutto
questo chi si illude che l’onda sovranista sia giunta al suo apice e da
qui vada in fretta a spiaggiarsi non ha capito. Non ha colto la novità
nel profilo di quella destra. Che non è il duplicato ingrandito delle
spinte liberiste degli anni Novanta e Zero. È un’altra cosa che rompe
col mainstream adottato anche dai riformisti nell’ultimo quarto di
secolo: valori progressisti sul fianco della democrazia e ricette
liberiste sul fronte sociale, con la sinistra spesso ridotta a smussare
di quelle strategie gli angoli più spigolosi. Flessibilità stressata,
vite insicure, abbassamento di tutele e diritti svenduti come privilegi
di un tempo sepolto: l’elenco è lungo, soprattutto risaputo. No, questa è
una destra che ribalta lo schema. Pare suggerire riforme volte a sanare
parte di quelle ferite sociali - dalla Fornero al reddito di
cittadinanza - ma combinando l’annuncio con valori reazionari sul
terreno della democrazia e delle libertà. Se non si coglie questo cambio
di rotta non si capiscono i nuovi “imperatori”, da Trump a Putin
passando per Orbán e finendo in Turchia. È un diverso concetto del
potere a essersi spinto innanzi, e con esso la limitazione - in Ungheria
è già soppressione - di anticorpi indispensabili: libertà di stampa e
opinione, indipendenza dei magistrati. Sono forme neppure subdole, ma
rivendicate, di stravolgimento di quegli ordinamenti costituzionali che
per gli ultimi settant’anni di storia dell’Occidente hanno sorretto il
patto democratico, le sue istituzioni e il relativo impianto sociale. Di
questo stiamo parlando. Non delle correnti del Pd o delle simpatiche
battute che deliziano platee di militanti orfani di una stagione inumata
sotto il macigno della peggiore sconfitta della nostra vita. Ciascuno
per la sua parte abbiamo l’umiltà di vederlo? E di collocare la nostra
proposta all’altezza della prova oggi sulle spalle a un paio di
generazioni: preservare la democrazia così da consegnarla a chi verrà
dopo di noi? Questo è il compito. Questa la traversata. Da fare sapendo
che la nave, la nostra, così com’è imbarca parecchia acqua e rischia di
non farci galleggiare. Meglio salpare attrezzati di equipaggi e lotta
più folti e motivati. Senza modelli da adottare, per l’amor del cielo.
Le regole del resto non prevedono liste transnazionali o cartelli
improvvisati. I Popolari puntano a tenere assieme diavolo e acquasanta:
il premier di Budapest e la cancelliera tedesca con la benedizione di un
falco bavarese. Sul fronte nostro bisognerà che quell’alleanza per una
Nuova Europa dopo il voto e nel nuovo Parlamento si apra all’asse con
Macron e le forze europeiste per tentare una maggioranza a sostegno
della Commissione e di chi la guiderà. Insomma una strategia proiettata
ad allargare il fronte di una resistenza all’autoritarismo e a un’Europa
deturpata nei suoi principi fondamentali. Il che vuol dire scrivere
un’altra agenda politica e sociale. Una strategia di investimenti
pubblici, una vera unione iscale, ripensare l’architettura del welfare.
Proviamoci, almeno.