lunedì 1 ottobre 2018

l’espresso 30.9.18
Per batterli serve una “nuova Europa”
Di Gianni Cuperlo


Ha ragione Cacciari. Se il prossimo voto per l’Europa dirà su quale rotta piega la storia, il campo democratico ha una sola strada: cambiare per unirsi. Deve farlo nel segno di una discontinuità con molto di ciò che è venuto prima. Tradotto? Presentiamoci agli italiani con una lista civica nazionale. Battezziamola “Nuova Europa” e avanziamo questa proposta alla famiglia socialista e della sinistra, quella animata da nuove e vecchie formazioni. Userei quella formula così, senza aggiunte di fogliame, piante o stelline stilizzate. Alla base mettiamo i simboli di partiti, movimenti, disposti all’impresa. E richiamiamo le parole destinate a distinguere la novità. Parole aggredite oggi più che mai: democrazia e uguaglianza. Poi, anzi prima, costruiamo attorno al progetto liste inclusive di personalità solide per principi difesi e lotte vissute. Andiamo a cercare chi condivide due sentimenti. L’allarme per il ritorno di un nazionalismo violento pronto a intaccare verità scolpite della democrazia liberale; e il bisogno di rendere all’ideale europeo l’anima sociale che lustri di rigorismo hanno mortificato. Prevengo la critica, forse gli insulti, anche della mia parte: «Ma come? Sacrifichiamo il simbolo del Pd proprio quando si devono riacciuffare i voti persi?». Rispondo che non è una rinuncia. All’opposto, la prova di aver compreso dove siamo, in quale punto della storia. Sarebbe la scelta illuminata di adeguare l’offerta al merito. Perché a fine maggio non si eleggeranno deputati e senatori. Si sceglierà la squadra che nei prossimi anni dovrà ancorare l’Italia alla civiltà che ci ha visti nascere restituendo risorse e speranze a chi la grande crisi ha lasciato al palo. Quando il perimetro della competizione si fa continente, col peso che le urne avranno, saggezza chiede di porre il nostro simbolo al servizio di un piano largo, della scossa in grado di scuotere l’albero raccogliendo buoni frutti. A sinistra in primo luogo e verso il centro, ammesso che la categoria conservi spazio. Fare questo passo è la premessa, l’offerta appunto. Che poi deve incrociare il merito. E allora, detta per come va detta, se questo fronte largo dovesse mettersi a difesa dell’Europa che c’è e che c’è stata il lusso nazionalista ci travolgerebbe. Certo, non tocca a noi ammazzare l’Europa, tanto meno la moneta. Se siamo vivi - l’Italia intendo - è merito anche di processi maturati lì. Per primo la salvaguardia del nostro debito a opera del piano della Bce, peraltro destinato a ridursi sino a estinguersi. Insomma l’avversario da battere non è a Francoforte, ma una visione storica e strategie se parliamo di economia, investimenti, modello sociale, che hanno sradicato il ceto medio, creato sacche orrende di povertà e risuscitato fantasmi destinati a trovare a destra nuovi “paladini del popolo”. Un’Europa che per il sussulto di vita mostrato sulle sanzioni all’Ungheria paga tutto intero il prezzo della sua débâcle morale in materia di accoglienza e migranti. Ma anche per tutto questo chi si illude che l’onda sovranista sia giunta al suo apice e da qui vada in fretta a spiaggiarsi non ha capito. Non ha colto la novità nel profilo di quella destra. Che non è il duplicato ingrandito delle spinte liberiste degli anni Novanta e Zero. È un’altra cosa che rompe col mainstream adottato anche dai riformisti nell’ultimo quarto di secolo: valori progressisti sul fianco della democrazia e ricette liberiste sul fronte sociale, con la sinistra spesso ridotta a smussare di quelle strategie gli angoli più spigolosi. Flessibilità stressata, vite insicure, abbassamento di tutele e diritti svenduti come privilegi di un tempo sepolto: l’elenco è lungo, soprattutto risaputo. No, questa è una destra che ribalta lo schema. Pare suggerire riforme volte a sanare parte di quelle ferite sociali - dalla Fornero al reddito di cittadinanza - ma combinando l’annuncio con valori reazionari sul terreno della democrazia e delle libertà. Se non si coglie questo cambio di rotta non si capiscono i nuovi “imperatori”, da Trump a Putin passando per Orbán e finendo in Turchia. È un diverso concetto del potere a essersi spinto innanzi, e con esso la limitazione - in Ungheria è già soppressione - di anticorpi indispensabili: libertà di stampa e opinione, indipendenza dei magistrati. Sono forme neppure subdole, ma rivendicate, di stravolgimento di quegli ordinamenti costituzionali che per gli ultimi settant’anni di storia dell’Occidente hanno sorretto il patto democratico, le sue istituzioni e il relativo impianto sociale. Di questo stiamo parlando. Non delle correnti del Pd o delle simpatiche battute che deliziano platee di militanti orfani di una stagione inumata sotto il macigno della peggiore sconfitta della nostra vita. Ciascuno per la sua parte abbiamo l’umiltà di vederlo? E di collocare la nostra proposta all’altezza della prova oggi sulle spalle a un paio di generazioni: preservare la democrazia così da consegnarla a chi verrà dopo di noi? Questo è il compito. Questa la traversata. Da fare sapendo che la nave, la nostra, così com’è imbarca parecchia acqua e rischia di non farci galleggiare. Meglio salpare attrezzati di equipaggi e lotta più folti e motivati. Senza modelli da adottare, per l’amor del cielo. Le regole del resto non prevedono liste transnazionali o cartelli improvvisati. I Popolari puntano a tenere assieme diavolo e acquasanta: il premier di Budapest e la cancelliera tedesca con la benedizione di un falco bavarese. Sul fronte nostro bisognerà che quell’alleanza per una Nuova Europa dopo il voto e nel nuovo Parlamento si apra all’asse con Macron e le forze europeiste per tentare una maggioranza a sostegno della Commissione e di chi la guiderà. Insomma una strategia proiettata ad allargare il fronte di una resistenza all’autoritarismo e a un’Europa deturpata nei suoi principi fondamentali. Il che vuol dire scrivere un’altra agenda politica e sociale. Una strategia di investimenti pubblici, una vera unione iscale, ripensare l’architettura del welfare. Proviamoci, almeno.