Repubblica 19.10.18
La danza dei folli sul burrone
di Claudio Tito
Uno
spettacolo deprimente. Mentre il governo della settima economia del
mondo si rivela incapace di scrivere correttamente persino la
fondamentale legge di Bilancio e i decreti ad essa collegati, intorno al
fortino sempre più asserragliato di Palazzo Chigi tutto inizia a
crollare. E a nessuno di questa maggioranza giallo- verde viene in mente
che il burrone verso il quale si sta dirigendo l’Italia lo stanno
scavando loro e non la "perfida" Unione europea.
Ecco il
pericoloso paradosso sul quale sta sconsideratamente danzando questa
coalizione. L’azzardo è finito, ma non se ne rendono conto. La
Commissione europea boccia la manovra, e loro pensano al complotto. I
mercati bastonano il nostro debito pubblico e loro puntano l’indice
contro la speculazione. Come se nel recinto ristretto dei confini
italiani, il voto del 4 marzo possa rendere immune questo esecutivo da
qualsiasi critica. Anche di chi deve decidere dove investire i propri
soldi. Soprattutto non avvertono quello che in ogni fase e ambito della
amministrazione pubblica dovrebbe essere prioritario e irrinunciabile:
il senso del limite. E invece l’unica vera linea di demarcazione che
viene colta è quella dell’interesse di partito, della demagogia
elettorale, dell’interesse individuale. La differenza tra raccolta e
esercizio del consenso è del tutto assente. Litigano inventandosi così
manine e manone senza capire che questo è semplicemente il risultato
dell’arroganza dell’ignoranza.
Lo scontro in corso tra Lega e M5S,
però, sta smascherando la finzione su cui è stato edificato il
complesso grillo-leghista. Un accordo di convenienza, costruito sulla
somma delle singole opportunità che si è trasformato rapidamente in
patto di potere. Quando gli interessi non sono più conciliabili, il
famigerato contratto presenta allora il conto e manifesta le sue
incongruenze.
La lite tra Di Maio e Salvini è proprio l’essenza
dell’inganno organizzato dai giallo- verdi. Anzi, un doppio inganno: una
truffa perpetrata contro gli elettori fino al 4 marzo scorso e contro
tutti gli italiani dopo il voto. In campagna elettorale hanno promesso
l’impossibile. Basti guardare la retromarcia del Movimento 5 Stelle
sull’Ilva, sul Tap e in parte anche sulla Tav. Una volta al governo,
invece, continuano a far credere che questa manovra economica sia
realizzabile senza controindicazioni. Non spiegano che l’aumento del
debito ricadrà solo sui cittadini, che lo spread in crescita colpirà in
primo luogo le famiglie, che la riforma delle pensioni penalizzerà il
futuro previdenziale di chi oggi è giovane, che quando chiedono alle
aziende pubbliche di aumentare gli investimenti, la maggior parte di
questi investimenti verranno pagati dagli italiani attraverso le
tariffe.
Lo stato di incoscienza in cui versa l’esecutivo, del
resto, si identifica nei comportamenti e nelle parole pronunciate dal
presidente del consiglio. Conte nei suoi incontri internazionali – la
prova è stata il Consiglio europeo di ieri a Bruxelles – offre la
perenne impressione di non intuire nemmeno la vera posta in palio.
Sembra semmai alimentarsi di quello strano frutto autarchico coltivato
alternativamente da Salvini e da Di Maio. Eppure lo strapiombo è lì
davanti al Paese. Dovrebbe essere in primo luogo lui a percepire il
pericolo e invece – teleguidato dai due soci in gara a chi è più
populista e demagogico – si tuffa roboticamente nel mare
dell’avventurismo. Il leader leghista dice «il governo va avanti» e lui
va avanti. Il capo grillino spiega lo spread con la campagna elettorale
per le prossime europee, e lui si lancia in un ruggito afono contro la
cancelliera Merkel o contro Juncker. Ignorando del tutto i fatti: la
curva del nostro debito pubblico o il rischio di assistere ad un’altra
crisi di liquidità nelle banche come nel 2011.
C’è dunque una
questione che nessuno in questa maggioranza prende in considerazione: si
chiama capacità di governo. Ne sono deficitari soprattutto i
pentastellati, anche nel confronto con i leghisti. La denuncia che Di
Maio vuole presentare contro chi ha modificato il decreto fiscale, è di
fatto un’autodenuncia. La capacità di governo si sostanzia pure nella
perizia con cui si discutono e si trattano i provvedimenti. Le "manine"
sono un alibi per nascondere le inefficienze di un personale politico
improvvisato. L’arroganza dell’ignoranza si sostanzia in questi momenti.
Il populismo, quando viene traslato dalla campagna elettorale alla
gestione della macchina statale, non può che mimetizzarsi dietro le
presunte macchinazioni altrui. I politici così si trasformano da classe
dirigente in classe compiacente. Per conservare i voti non hanno altra
scelta che compiacere gli elettori anziché guidarli. E per raggiungere
l’obiettivo hanno bisogno consapevolmente di distruggere chi sa di più e
inconsciamente di disarticolare lo Stato.
La politica, però, in
questo modo smarrisce la sua funzione: non è più la professione delle
professioni. E il governo non è più l’esercizio responsabile di quelle
professioni. Eppure, chi si ritrova - per caso o per destino - nella
struttura dell’esecutivo non può limitarsi a navigare su internet per
informarsi o captare i sentimenti del Paese. Non può ridursi a
organizzare qualche troll (i profili provocatori e falsi) su Twitter per
dimostrare di essere all’altezza del compito ricevuto. La competenza
dovrebbe essere un prerequisito. Senza di esso, in un mondo globalizzato
e sempre più concorrenziale, una classe di governo rischia di provocare
il danno più grave: sottrarre il destino del Paese al controllo e alla
volontà dei suoi cittadini, e di consegnarlo al di fuori dei confini
nazionali. Un contrappasso per i sovranisti nostrani. Un’onta per la
loro ideologia nazionalista, una rovina per tutti gli altri.