Repubblica 12.10.18
La manovra economica
Tasse, il taglio che non c’è
di Marco Ruffolo
Una
volta sacrificata la vera flat tax, l’aliquota unica per tutti che
costituiva il piatto forte delle richieste leghiste, l’asse portante
della manovra economica del governo è radicalmente cambiato: si è
spostato dalle promesse di detassazione a un grande piano di spese
correnti, dovute sia al reddito di cittadinanza sia all’anticipo
dell’età di pensionamento. È stato riposto in un cassetto un sogno che
neppure Ronald Reagan riuscì ad introdurre negli Stati Uniti: la tassa
piatta, un grande aiuto ai redditi dei ceti medio-alti. Troppo costosa.
Ma
dalla manovra del governo italiano manca anche un altro tassello
fiscale: il forte taglio delle tasse chiesto a gran voce dalle imprese,
soprattutto al Nord. Infatti, se è vero che da una parte si allarga la
tassazione forfettaria per gli autonomi (15% fino a 65 mila euro di
ricavi) e si riduce l’Ires sugli utili reinvestiti, dall’altra si
cancellano due importanti agevolazioni fiscali: l’Ace (Aiuto alla
crescita economica) che favoriva la patrimonializzazione delle imprese, e
l’Iri, imposta sul reddito imprenditoriale, che dal 2019 avrebbe
consentito alle partite Iva di detassare il reddito di impresa. Ebbene,
il saldo tra il dare e l’avere di tutte queste misure è negativo per 4,7
miliardi il prossimo anno e per 2 miliardi a regime.
Insomma,
sembra che la politica economica del governo abbia cancellato o quanto
meno rinviato la parola d’ordine più cara ai leghisti: detassare. Appena
quattro mesi fa, Matteo Salvini giustificava così la flat tax: «Se uno
fattura di più e paga di più, è chiaro che reinveste di più, assume un
operaio in più, acquista una macchina in più». Oggi quei tempi di
esaltazione del liberismo fiscale sembrano lontanissimi. Il nucleo
centrale della manovra è il corposo piano assistenziale contro la
povertà voluto dai Cinquestelle e rivolto per oltre la metà al
Mezzogiorno, con la coloratura paternalistica del divieto di fare "spese
immorali".
Eppure, rischia di non essere pienamente aderente alla
realtà una lettura tutta orientata a rappresentare la contrapposizione
tra un Sud fortemente aiutato e un Nord del tutto insoddisfatto nelle
sue richieste economiche, anche se una certa insofferenza emerge con
chiarezza in diversi ambienti industriali del Settentrione. In realtà,
la Lega ha ottenuto qualcosa di fondamentale: il primo smantellamento
della legge Fornero, che consentirà a 400-450 mila lavoratori "anziani",
concentrati in prevalenza proprio nelle regioni settentrionali, di
andare in pensione cinque anni prima, sia pure a certe condizioni.
In
altre parole, la strategia di Salvini, una volta messa da parte la
voglia di sgravi fiscali, è stata dirottata verso un tipo di spesa
pubblica destinata non al mondo produttivo ma al contrario a quello
improduttivo, ossia all’aumento dei pensionati attraverso l’uscita
anticipata, anche se a farne le spese saranno i conti previdenziali
nazionali e se mancheranno le risorse per rendere appena sufficienti le
future pensioni degli attuali giovani precari. L’interesse della Lega
per quota 100, con la possibilità di lasciare il lavoro a 62 anni di età
e 38 di contributi, invece che a 67 anni, è evidente se si considera la
distribuzione territoriale dei " baby boomers" che andranno prima in
pensione: lavoratori con carriere lunghe e continue, residenti per la
maggior parte in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna. E sempre
in quelle regioni, la Lega punta sulla staffetta generazionale in grado
di far subentrare i giovani ai pensionandi. C’è poi da considerare che
lo stesso reddito di cittadinanza, come ha detto Di Maio, sarà destinato
per un buon 47% al Centro-Nord.
Insomma, il compromesso
pentaleghista, oltre a cementarsi nella battaglia contro le regole Ue,
nella diffidenza verso l’euro stesso, nel sovranismo che porta sia Di
Maio che Salvini a invitare gli italiani a comprare titoli pubblici,
sembra trovare proprio nel nuovo Stato " pagatore" un ulteriore terreno
comune. Tuttavia, diversamente da quello leghista, " l’assistenzialismo"
dei Cinquestelle (reddito di cittadinanza subito, lavoro dopo, quando
funzioneranno i centri per l’impiego) si lega a una vera e propria
ideologia sociale: quella dell’egualitarismo, della crociata anti-
meritocratica, della diffidenza nei confronti della ricchezza
individuale. Si comprende così l’insistenza con cui Di Maio si è
battuto, anche con toni sprezzanti, per il taglio delle cosiddette "
pensioni d’oro", quelle oltre i 4.500 euro netti al mese, taglio che
tuttavia, dopo le obiezioni leghiste, non sarà più permanente, come era
nelle sue intenzioni, ma durerà solo tre anni e non entrerà in un
decreto. La giustificazione morale dei grillini è chiara: quelle
pensioni non sono commisurate ai contributi versati, essendo calcolate
con il metodo retributivo.
In realtà, la decurtazione prevista non
sarà affatto basata sul ricalcolo dei contributi, ma si configurerà
come un taglio secco, imposto a quelli che Di Maio ha chiamato più di
una volta " nababbi". La stessa filosofia che tende a bacchettare chi ha
una pensione elevata, mette nel mirino anche le cosiddette "lobby
finanziarie" che i Cinquestelle identificano nelle banche e nelle
assicurazioni. E così si comprende l’aggravio fiscale imposto loro, tra
minori deducibilità nel primo caso e acconti di imposta nel secondo.
La
diffidenza grillina che prende di mira "nababbi" e " lobbisti" non
sembra invece scattare nei confronti degli evasori, premiati con il via
libera al condono fiscale, sia pure in forma ridotta rispetto alle
intenzioni leghiste, e con molti imbarazzi della base che potrebbero
pesare nella prossima discussione parlamentare.