giovedì 18 ottobre 2018

Repubblica 12.10.18
La manovra economica
Tasse, il taglio che non c’è
di Marco Ruffolo


Una volta sacrificata la vera flat tax, l’aliquota unica per tutti che costituiva il piatto forte delle richieste leghiste, l’asse portante della manovra economica del governo è radicalmente cambiato: si è spostato dalle promesse di detassazione a un grande piano di spese correnti, dovute sia al reddito di cittadinanza sia all’anticipo dell’età di pensionamento. È stato riposto in un cassetto un sogno che neppure Ronald Reagan riuscì ad introdurre negli Stati Uniti: la tassa piatta, un grande aiuto ai redditi dei ceti medio-alti. Troppo costosa.
Ma dalla manovra del governo italiano manca anche un altro tassello fiscale: il forte taglio delle tasse chiesto a gran voce dalle imprese, soprattutto al Nord. Infatti, se è vero che da una parte si allarga la tassazione forfettaria per gli autonomi (15% fino a 65 mila euro di ricavi) e si riduce l’Ires sugli utili reinvestiti, dall’altra si cancellano due importanti agevolazioni fiscali: l’Ace (Aiuto alla crescita economica) che favoriva la patrimonializzazione delle imprese, e l’Iri, imposta sul reddito imprenditoriale, che dal 2019 avrebbe consentito alle partite Iva di detassare il reddito di impresa. Ebbene, il saldo tra il dare e l’avere di tutte queste misure è negativo per 4,7 miliardi il prossimo anno e per 2 miliardi a regime.
Insomma, sembra che la politica economica del governo abbia cancellato o quanto meno rinviato la parola d’ordine più cara ai leghisti: detassare. Appena quattro mesi fa, Matteo Salvini giustificava così la flat tax: «Se uno fattura di più e paga di più, è chiaro che reinveste di più, assume un operaio in più, acquista una macchina in più». Oggi quei tempi di esaltazione del liberismo fiscale sembrano lontanissimi. Il nucleo centrale della manovra è il corposo piano assistenziale contro la povertà voluto dai Cinquestelle e rivolto per oltre la metà al Mezzogiorno, con la coloratura paternalistica del divieto di fare "spese immorali".
Eppure, rischia di non essere pienamente aderente alla realtà una lettura tutta orientata a rappresentare la contrapposizione tra un Sud fortemente aiutato e un Nord del tutto insoddisfatto nelle sue richieste economiche, anche se una certa insofferenza emerge con chiarezza in diversi ambienti industriali del Settentrione. In realtà, la Lega ha ottenuto qualcosa di fondamentale: il primo smantellamento della legge Fornero, che consentirà a 400-450 mila lavoratori "anziani", concentrati in prevalenza proprio nelle regioni settentrionali, di andare in pensione cinque anni prima, sia pure a certe condizioni.
In altre parole, la strategia di Salvini, una volta messa da parte la voglia di sgravi fiscali, è stata dirottata verso un tipo di spesa pubblica destinata non al mondo produttivo ma al contrario a quello improduttivo, ossia all’aumento dei pensionati attraverso l’uscita anticipata, anche se a farne le spese saranno i conti previdenziali nazionali e se mancheranno le risorse per rendere appena sufficienti le future pensioni degli attuali giovani precari. L’interesse della Lega per quota 100, con la possibilità di lasciare il lavoro a 62 anni di età e 38 di contributi, invece che a 67 anni, è evidente se si considera la distribuzione territoriale dei " baby boomers" che andranno prima in pensione: lavoratori con carriere lunghe e continue, residenti per la maggior parte in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna. E sempre in quelle regioni, la Lega punta sulla staffetta generazionale in grado di far subentrare i giovani ai pensionandi. C’è poi da considerare che lo stesso reddito di cittadinanza, come ha detto Di Maio, sarà destinato per un buon 47% al Centro-Nord.
Insomma, il compromesso pentaleghista, oltre a cementarsi nella battaglia contro le regole Ue, nella diffidenza verso l’euro stesso, nel sovranismo che porta sia Di Maio che Salvini a invitare gli italiani a comprare titoli pubblici, sembra trovare proprio nel nuovo Stato " pagatore" un ulteriore terreno comune. Tuttavia, diversamente da quello leghista, " l’assistenzialismo" dei Cinquestelle (reddito di cittadinanza subito, lavoro dopo, quando funzioneranno i centri per l’impiego) si lega a una vera e propria ideologia sociale: quella dell’egualitarismo, della crociata anti- meritocratica, della diffidenza nei confronti della ricchezza individuale. Si comprende così l’insistenza con cui Di Maio si è battuto, anche con toni sprezzanti, per il taglio delle cosiddette " pensioni d’oro", quelle oltre i 4.500 euro netti al mese, taglio che tuttavia, dopo le obiezioni leghiste, non sarà più permanente, come era nelle sue intenzioni, ma durerà solo tre anni e non entrerà in un decreto. La giustificazione morale dei grillini è chiara: quelle pensioni non sono commisurate ai contributi versati, essendo calcolate con il metodo retributivo.
In realtà, la decurtazione prevista non sarà affatto basata sul ricalcolo dei contributi, ma si configurerà come un taglio secco, imposto a quelli che Di Maio ha chiamato più di una volta " nababbi". La stessa filosofia che tende a bacchettare chi ha una pensione elevata, mette nel mirino anche le cosiddette "lobby finanziarie" che i Cinquestelle identificano nelle banche e nelle assicurazioni. E così si comprende l’aggravio fiscale imposto loro, tra minori deducibilità nel primo caso e acconti di imposta nel secondo.
La diffidenza grillina che prende di mira "nababbi" e " lobbisti" non sembra invece scattare nei confronti degli evasori, premiati con il via libera al condono fiscale, sia pure in forma ridotta rispetto alle intenzioni leghiste, e con molti imbarazzi della base che potrebbero pesare nella prossima discussione parlamentare.