Repubblica 12.10.18
Le mosse dei pm
Intimidazioni e documenti falsi l’inchiesta spaventa i vertici dell’Arma
di Carlo Bonini
ROMA
C’è un ramo dell’inchiesta del pm Giovanni Musarò sull’omicidio di
Stefano Cucchi che cammina veloce e promette di non fermarsi. Due
distinti fascicoli per falso ideologico (già quattro i carabinieri
indagati) e soppressione di documento pubblico. Che interpellano
direttamente l’Arma e le sue gerarchie. E che intendono dare risposta a
quella che, dopo la confessione di Francesco Tedesco, diventa ora la
domanda chiave di questa vicenda. Chi ha sequestrato la verità per nove
lunghissimi anni? Chi ne aveva e ne ha ancora paura?
È un fatto che
la mattina del 9 luglio scorso, quando Francesco Tedesco si risolve
finalmente a sedersi di fronte al pm Musarò per scrivere la parola
definitiva sulla notte del 15 ottobre 2009, venga raggiunto da insistite
telefonate. Il Comandante del Nucleo carabinieri di Brindisi vuole che,
immediatamente, si presenti in caserma dove deve essergli notificato il
procedimento disciplinare “di stato” (quello che comporta la
destituzione). È una mossa giustificata, formalmente, dalla circostanza
che Tedesco, tre mesi prima, si è visto confermare dalla Cassazione una
sentenza di prescrizione del reato di abuso di autorità consumato su
Cucchi (uno di quelli che gli erano stati contestati nel processo
principale per omicidio e che era stato appunto dichiarato prescritto in
udienza preliminare). È una mossa inusuale, perché prassi e logica
vogliono che i procedimenti disciplinari non vengano avviati prima che
l’accertamento della verità in sede processuale sia concluso (e il
processo Cucchi è ancora in corso). È sorprendente, soprattutto, per la
coincidenza con un interrogatorio di cui, sulla carta, in teoria nessuno
deve sapere. Insomma, è una mossa che ha il sapore dell’intimidazione. A
maggior ragione perché si ripete in settembre, in coincidenza con il
secondo interrogatorio di fronte a Musarò, quando a Tedesco viene
comunicato che la sua istanza di sospensione del procedimento
disciplinare è stata rigettata.
Perché tanta improvvisa solerzia?
Ha ragione l’avvocato di Tedesco, Eugenio Pini, a rimanere stupito.
Al
punto da coltivare la speranza che l’Arma ora possa riconsiderare la
posizione del suo carabiniere. Valutare «il coraggio» e la «lealtà del
suo gesto», congelando tanta severità. E tuttavia, è evidente che l’Arma
e il suo Comando Generale stiano passando ore molto, ma molto
complicate. E che quella mossa ne sia la spia.
Sono infatti solo e
soltanto dei carabinieri — e si tratterà ora di stabilirne l’identità,
il numero, la posizione nella scala gerarchica — i falsi che dovevano
far deragliare la ricerca della verità. Almeno sette. Furono falsificati
il verbale di arresto e perquisizione di Cucchi. Fu falsificato il
registro del fotosegnalamento della caserma Casilina dove Stefano era
stato pestato. Furono falsificate le due annotazioni della caserma di
Tor Sapienza dove Stefano era stato trasferito per trascorrere la notte
in attesa del processo per direttissima (vennero taciuti gli evidenti
segni del pestaggio appena subito). Furono falsificati non solo il
registro che custodiva la nota di servizio con cui, il 22 ottobre 2009,
giorno della morte di Stefano, Tedesco aveva informato per iscritto la
propria scala gerarchica di quanto accaduto davvero, ma anche e
soprattutto la sequenza informatica dei protocolli interni all’Arma che,
a posteriori, avrebbe potuto consentire di risalire non solo
all’esistenza di quella “nota”, ma anche di accertarne la sparizione.
Sette
falsi macrospici. Che rendono difficile credere siano stati cucinati in
solitudine da un maresciallo (Roberto Mandolini, comandante all’epoca
dei fatti della caserma Appia) e quattro appuntati. E che lasciano
immaginare complicità altre, e più alte in grado. Giuliana Tedesco,
sorella del carabiniere che oggi confessa, ha raccontato a verbale: «Nel
gennaio del 2016, incontrai nello studio dell’avvocato di mio fratello,
il maresciallo Mandolini insieme ai carabinieri Raffaele D’Alessandro e
Alessio Di Bernardo». D’Alessandro e Tedesco hanno una violenta lite,
perché il primo pretende che il secondo «continui a raccontare cazzate».
«A France’ — dice — ti ricordi che Cucchi durante la perquisizione
continuò a dare testate e calci contro l’armadio?».
Tedesco dà in escandescenze.
Ricorda
ora la sorella: «Intervenne il maresciallo Roberto Mandolini, che si
rivolse in modo paternalistico verso mio fratello dicendogli di stare
tranquillo, perché tutto si sarebbe risolto» .
Già, “tutto si sarebbe
risolto”. Che era poi l’aria che aveva respirato anche il maresciallo
Emilio Buccieri (all’epoca dei fatti vicecomandante della stazione
Appia) quando, nel novembre 2009, era stato convocato a una riunione
negli uffici del Comando provinciale di Roma. Racconta ai pm: «Il
comandante provinciale, all’epoca il colonnello Tommasone, ci
sensibilizzò sulla gestione del personale, perché in quel periodo c’era
stata non solo la vicenda Cucchi ma anche quella Marrazzo. L’Arma era
esposta mediaticamente e in nostra difesa intervenne l’allora ministro
La Russa». Già, la verità avrebbe avuto un prezzo molto alto in
quell’ottobre 2009. Dunque, chi decise che non potesse essere pagato?