sabato 20 ottobre 2018

Lunedì a Roma
Un convegno di studi in ricordo di Vittorio Foa a dieci anni dalla morte


Coraggioso cospiratore antifascista di Giustizia e Libertà, condannato dal tribunale speciale e imprigionato sotto il regime, partigiano nelle file del Partito d’Azione, dirigente sindacale socialista della Cgil, coscienza critica della nuova sinistra, padre nobile dello schieramento progressista durante la Seconda Repubblica. Tutto questo è stato Vittorio Foa, nato a Torino nel 1910 e scomparso a Formia (Latina) dieci anni fa, il 20 ottobre 2008.
Per ricordare la sua figura e la sua opera si svolge a Roma dopodomani, lunedì 22, una giornata di studi organizzata dal Senato e dall’Archivio centrale dello Stato. All’incontro, che si terrà dalle 9.30 in poi alla Sala Capitolare presso il Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva, partecipano Marco Bresciani, Giuseppina Calcara, Chiara Colombini, Fabrizio Loreto, Federica Montevecchi, Andrea Ricciardi, Giovanni Scirocco. Il convegno sarà concluso da una tavola rotonda con Iginio Ariemma, Anna Foa, Bettina Foa, Romano Luperini e Pietro Medioli. (k.d’a.)

La Stampa 20.10.18
Fico tesse la rete a sinistra per ritagliarsi un ruolo futuro
di Fabio Martini


Quel che Luigi Di Maio non può dire, perché altrimenti cadrebbe il governo, lo dice ancora una volta il presidente della Camera, che è anche la terza carica dello Stato. Roberto Fico ieri era nella sua Napoli, per un convegno sui 50 anni dell’ospedale evangelico Betania e da lì ha punzecchiato il capo della Lega. Il condono che tanto sta a cuore a Salvini? «Se rimane, mi sembra ovvio che ci sia un problema». Un’alleanza strategica quella tra Cinque Stelle e Lega? «Si agisce all’interno di un filo rosso che è quello del contratto, perché se fossimo stati uguali alla Lega, ci saremmo candidati con loro. Ma noi non siamo uguali alla Lega e non ci candideremo assieme a loro». Salvini sostiene che Fico - come Fini e Bertinotti - fa il presidente della Camera in modo poco istituzionale? Roberto Fico risponde: «Se Salvini vuole parlare con me lo faccia sui contenuti e non dicendo “Fico faccia il presidente della Camera”. Quello che dico io è da istituzione, ma il background appartiene alla nascita e alla costruzione del M5S».
In realtà nelle prossime ore Roberto Fico parteciperà, come militante, al raduno dei Cinque Stelle al Circo Massimo, con un’interpretazione interventista del suo ruolo istituzionale simile a quello di Gianfranco Fini e di Fausto Bertinotti, piuttosto che a quello super partes di Sandro Pertini, Nilde Iotti e Pietro Ingrao. Ma ancora una volta le esternazioni di Fico - per quanto sempre soft e mai urticanti - riaprono la ridda di illazioni su un possibile suo ruolo sullo scacchiere politico, nel futuro diverso da quello attuale.
Capofila dell’ala dei Cinque Stelle che punta ad un clamoroso ribaltone, ad un cambio di maggioranza, che arrivi alla sostituzione della Lega con il Pd? Oppure, in caso di big bang, aggregatore di un’area di sinistra radicale assieme al sindaco di Napoli De Magistris, al sindaco di Riace e magari a Roberto Saviano? Il presidente della Camera è legato da un rapporto di stima e amicizia con Beppe Grillo e con Davide Casaleggio, un legame che fa escludere ai vertici politici dei Cinque Stelle l’ipotesi più clamorosa: che Fico possa alimentare una fronda, vestendo i panni dell’eterodosso: «Non è nella sua natura e nella sua volontà», sussurra uno dei big pentastellati più vicini a Luigi Di Maio.
Quel che Roberto Fico, da 5 mesi oramai, sta coltivando è un’operazione diversa: ritagliarsi un ruolo protagonista come capo riconoscibile e percepibile dell’area di sinistra del Movimento, un ruolo che interpreta senza snaturarsi, visto il suo passato come militante dell’estrema sinistra sociale nella sua Napoli. E nel coprire questo ruolo di capo-area della sinistra replica, sia pure inconsapevolmente, uno schema di gioco tipico della Dc, che copriva un arco politico vastissimo, accogliendo personaggi di sinistra vicini al Pci e altri di destra, vicini ai liberali e ai missini?
Sorride Paolo Cirino Pomicino, uno dei notabili dell’ultima Dc e napoletano come Fico: «Certo, lo schema è proprio quello. Diciamo però che Fico copre lo spazio di sinistra in modo flebile, senza spessore. Noi avevamo Moro e Scelba, il Pci Amendola e Ingrao, qui siamo su un altro livello. E comunque l’unica alternativa a Di Maio in termini di radicalità è Di Battista». Ma intanto è proprio come capo-area che in questi mesi Fico ha incarnato un ruolo che il suo amico Di Maio non poteva coprire: quello dell’anti-Salvini.
I rapporti con Cgil e Msf
Prima dell’estate Fico aveva avviato senza clamori una serie di incontri di «tendenza» (Cgil, Medici senza frontiere, Amnesty) e il tutto era culminato in dichiarazioni controcorrente rispetto alla narrazione salviniana sul fronte migranti: «Chi fa solidarietà ha tutto il supporto dello Stato». Oppure: «Anche nel Mediterraneo vanno supportate le persone e le organizzazioni che aiutano gli altri».
Un’interpretazione «partigiana» che non gli ha impedito di riscuotere simpatia negli ambienti istituzionali. Nelle ore nelle quali Luigi Di Maio aveva sposato la linea dell’impeachment contro il presidente Mattarella, Fico ha svolto un ruolo di mediazione, apprezzato al Quirinale.
Bankitalia e Quirinale
E ha trovato silenziosa simpatia anche in un altro ambiente distantissimo dalla sua cultura: alla Banca d’Italia hanno gradito la sua presenza alle Considerazioni del Governatore. Un apprezzamento che non si traduce in un investimento: ieri sera nel Palazzo nessuno era pronto a giocarsi mezza fiche su un esecutivo Fico con l’appoggio di un Pd a quel punto dilaniato e con Salvini all’opposizione a gridare «traditori».

il manifesto 20.10.18
Rigenerare la sinistra, rifondare l’Europa
Congresso pd. Cambiare tutto e farlo in fretta, prima che sia troppo tardi. La risposta a Gianni Cuperlo
di Nicola Zingaretti


Condivido l’approccio proposto sul vostro giornale da Gianni Cuperlo. È proprio del riscatto e della rigenerazione di una sinistra radicalmente alternativa alla destra di Salvini che abbiamo bisogno. Cambiare tutto e farlo in fretta, prima che sia troppo tardi. Farlo appunto nonostante la difficoltà del contesto, e a partire dalla dimensione continentale, dove tra poco si misureranno quelli che l’Europa la vogliono cambiare e democratizzare con quelli che la vogliono distruggere, cavalcando la ferocia nazionalista. Le prossime saranno le prime vere elezioni europee. Sul campo, dobbiamo ritrovare la forza di battere il razzismo e le piccole patrie. Per farlo, dobbiamo scrivere una nuova agenda politica, coniugando crescita e giustizia sociale, modificando nel profondo un modello di sviluppo che ogni giorno consuma il nostro ecosistema, incide sulla qualità delle nostre vite, amplia la frattura tra chi ha e chi non ha, tra città e aree interne. Nessuna scorciatoia serve un’economia giusta, ambientalmente sostenibile, per rimettere in moto l’ascensore sociale e creare opportunità e fiducia.
Loro dicono “prima gli italiani”, aizzando una guerra tra poveri dagli esiti drammatici. Noi diciamo “prima le persone”. E tra le persone, prima quelle che stanno peggio, quelle umiliate e impoverite dalla crisi, quelle lasciate sole dallo Stato. Per fare questo, bisogna ricostruire su nuove basi il Paese. Innanzitutto, operare nei luoghi del disagio con progetti di crescita e di comunità. Serve un modello innovativo di welfare, politiche di integrazione e promozione delle persone. Bisogna quindi investire sul capitale umano, nella cultura e nella conoscenza, che resta il primo e più importante strumento per l’emancipazione sociale delle persone. La sfida per il Paese è quindi prima di tutto nei luoghi della formazione: negli asili, nell’assoluta centralità della scuola e dell’università pubbliche. È qui che possiamo attivare le intelligenze e i saperi utili a far muovere l’Italia, che dovranno trovare sviluppo e opportunità in un territorio connesso in maniera moderna, uniforme ed efficiente con reti materiali e immateriali. Serve una spinta, che ha bisogno di investimenti adeguati, alla rigenerazione del tessuto produttivo, che accompagni le imprese, le partite Iva in una fase di cambiamenti epocali, e favorisca nuovo lavoro e lavoro buono.
Serve un cambio di passo e di paradigma facendo dialogare economia ed ecologia come assi portanti di una idea di società orientata al benessere dei cittadini.
Di questo abbiamo discusso a Piazza Grande insieme a tantissime persone. Di questo vogliamo discutere con chiunque senta l’urgenza del momento e abbia voglia di combattere. Prima ancora di una mozione, c’è bisogno di ritrovare un popolo, con le sue idee, passioni, differenze, e soprattutto con la voglia di rimettersi in cammino. Un popolo plurale, differente, capace di ascolto e di stare insieme.
Mi candido alla guida del Pd con questa ambizione: cambiare tutto rispettando la storia di ognuno. Cambiare le politiche e promuovere una nuova generazione progressista fuori dalle liturgie correntizie e, appunto, di quella “guerra feroce tra eserciti” evocata da Gianni.
Piazza Grande è stata una boccata d’ossigeno. Sono convinto che ne seguiranno altre, a cominciare proprio dall’appuntamento milanese. Vi auguro di svolgere al meglio la vostra discussione. Abbiamo bisogno di tutti per farci trovare pronti. Non solo opposizione, ma anche la credibilità per ricostruire qui ed ora una vera alternativa di Governo, capace di entrare nel cuore degli italiani. Lavoriamoci insieme.
*presidente della Regione Lazio, Partito democratico

il manifesto 20.10.18
«Nazionalizzare qui e ora», la manifestazione oggi a Roma
Il corteo. Parte da piazza della Repubblica alle 14, domani l'assemblea di «Potere al popolo»


Nazionalizzazione dei servizi, delle aziende e delle infrastrutture strategiche del paese. Il welfare devastato da anni di esternalizzazioni del personale, deve tornare in mani pubbliche. È questa l’agenda indicata dalla manifestazione «Nazionalizzare qui e ora» che sfilerà dalle 14 di oggi da piazza della Repubblica a piazza San Giovanni in Laterano a Roma. Nella stessa giornata ci saranno anche il meeting dei Cinque Stelle e l’ultima edizione della «Leopolda» di Renzi. «Sarà l’occasione – sostengono i promotori – di far vedere fisicamente che c’è una opposizione sociale e politica che sta crescendo nei conflitti di tutti i giorni». La manifestazione intende rappresentare «quelli che subiscono tutte le conseguenze di scelte – nazionali ed europee – prese sulla loro pelle: lavoratori con qualsiasi tipo di contratto e di qualsiasi etnia, disoccupati, pensionati, studenti, senza casa, migranti».
Quello della nazionalizzazione è una delle questioni sospese del governo Lega-Cinque Stelle. L’ipotesi è spuntata nelle ore successive al tragico crollo del ponte Morandi a Genova, dove hanno perso la vita 43 persone. Due mesi dopo è scomparsa dall’orizzonte politico agitato della politica italiana. «Il governo parla di nazionalizzazioni ma poi non le fa – sostiene Pierpaolo Leonardi (Usb) – E allora entrano in campo i lavoratori per costringere il parlamento a discuterne». «La nazionalizzazione riguarda l’accesso ai servizi pubblici e ai diritti – aggiunge Viola Carofalo (Potere al Popolo) – Dobbiamo contestare duramente il governo per le bufale che ci racconta e per il fatto che le sue proposte di cambiamento restano carta morta. Ci sono state già due manifestazioni a giugno, quella di oggi è solo la prima di un autunno di lotte».
Al corteo hanno aderito, tra gli altri, il sindacato di base Usb, Potere al Popolo, Rifondazione Comunista e partito comunista italiano, la piattaforma Eurostop, l’ex Opg «Je So Pazzo», Clash City Workers, Rete dei Comunisti, Patria e Costituzione, gli studenti della campagna «BastAlternanza».Almeno trenta pullman raggiungeranno la Capitale.
Oggi dalle 10 al centro sociale Intifada in via di Casal Bruciato 15, a Roma si terranno i «tavoli di lavoro» di «Potere al popolo». Domani alle 10 al teatro Verdi in via Bari 18 a Roma si terrà l’assemblea nazionale. Approvato tra le polemiche lo statuto, gli aderenti saranno chiamati a eleggere il coordinamento nazionale e il portavoce.

il manifesto 20.10.18
Gaza, Israele schiera i carri armati
Palestina. 30esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno
La colonna di carri armati israeliani schierata ieri intorno a Gaza
di Michele Giorgio


Con un bilancio di “appena” 115 palestinesi feriti, 77 dei quali colpiti da proiettili, si è chiuso ieri il 30esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno a Gaza. Numeri drammatici ma per fortuna inferiori a quelli che molti si attendevano in una giornata che aveva visto Israele schierare intorno a Gaza decine di carri armati e mezzi blindati e rendere esplicita la sua intenzione di lanciare un’offensiva militare. Lungo le linee di demarcazione si sono ammassati15mila palestinesi per reclamare la fine del blocco israeliano di Gaza. In diversi punti gruppi di giovani hanno cercato di aprire varchi nei reticolati.
Ma la spinta delle proteste è stata inferiore rispetto al venerdì precedente anche per l’invito giunto dai movimenti islamici Hamas e Jihad a protestare pacificamente e senza esporsi agli spari dei militari. In particolare Hamas spinge per portare avanti la trattativa mediata dagli egiziani per una tregua a lungo termine con Israele. Due giorni fa, con un annuncio inedito, un dirigente del movimento islamico ha promesso lo svolgimento di una indagine contro la formazione o cellula armata che a inizio settimana ha lanciato due razzi verso Beersheba e Tel Aviv.
Con un bilancio di “appena” 115 palestinesi feriti, 77 dei quali colpiti da proiettili, si è chiuso ieri il 30esimo venerdì della Grande Marcia del Ritorno a Gaza. Numeri drammatici ma per fortuna inferiori a quelli che molti si attendevano in una giornata che aveva visto Israele schierare intorno a Gaza decine di carri armati e mezzi blindati e rendere esplicita la sua intenzione di lanciare un’offensiva militare. Lungo le linee di demarcazione si sono ammassati15mila palestinesi per reclamare la fine del blocco israeliano di Gaza. In diversi punti gruppi di giovani hanno cercato di aprire varchi nei reticolati.
Ma la spinta delle proteste è stata inferiore rispetto al venerdì precedente anche per l’invito giunto dai movimenti islamici Hamas e Jihad a protestare pacificamente e senza esporsi agli spari dei militari. In particolare Hamas spinge per portare avanti la trattativa mediata dagli egiziani per una tregua a lungo termine con Israele. Due giorni fa, con un annuncio inedito, un dirigente del movimento islamico ha promesso lo svolgimento di una indagine contro la formazione o cellula armata che a inizio settimana ha lanciato due razzi verso Beersheba e Tel Aviv.

La Stampa 20.10.18
Leggi razziali del 1938
Dagli schedari torinesi gli elenchi della vergogna
di Andrea Parodi


Iniziarono dai bambini, elencandoli. Le date riportate sui documenti sono crudeli testimoni di un tempismo studiato a tavolino. Pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni, giusto in tempo per impedirgli l’accesso alle classi con i loro compagni ariani.
Cominciò così a Torino, dai più deboli, nell’agosto 1938, la compilazione delle «liste di prescrizione ebraiche». Fino al 1942 i dipendenti del Comune di Torino trascrissero a mano, aggiornandoli di continuo, tre grandi volumi con la copertina color amaranto. All’interno erano elencati nomi, indirizzi, dati personali. Dei bambini, ma soprattutto degli adulti. Sul frontespizio era riportato un titolo generico: «Rubrica Denunce appartenenza razza ebraica e discriminazioni». Di fatto era il crudo elenco con il quale il Comune divise i torinesi tra «noi» e «loro». Si trattava di 4.500 profili biografici su 700.000 abitanti, pari allo 0,65% della popolazione torinese.
Da lunedì - e per la prima volta - l’Archivio Storico della Città di Torino esporrà al pubblico, in una toccante mostra curata da Maura Baima, Luciana Manzo e Fulvio Peirone, la documentazione originale delle leggi razziali del 1938. Lo fa nell’ottantesimo anniversario dell’emanazione del provvedimento fascista ma, soprattutto, perché sono scaduti i termini di legge temporali per la loro diffusione pubblica. Il loro valore storico è importante soprattutto perché la documentazione storica della Comunità ebraica torinese non è completa. È andata perduta con il bombardamento della Seconda guerra mondiale del 20 novembre 1942, che danneggiò anche la sinagoga.
Le liste che arrivarono dalle singole scuole torinesi di ogni ordine e grado sono quelle che colpiscono di più. Vennero vergate a mano, con la calligrafia precisa di maestri e insegnanti. Compilarono obbedendo, escludendo i loro allievi dalla possibilità di istruirsi. Le liste giunsero alla «Divisione stato civile e statistica» del Comune di Torino. Contenevano l’elenco degli studenti che avevano richiesto di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. Perché agnostici, perché valdesi, perché ebrei. Su quest’ultima informazione, una volta arrivata agli uffici comunali, scattava l’inserimento nella lista più terribile: quella dei volumi color amaranto.
Questi tre libroni, aperti e consultati per tutti gli anni della guerra dai gerarchi fascisti per procedere al loro allontanamento dalla vita civile, nonché fonte preziosissima dal 1943 per poterli catturare, sono adagiati in una vetrina e proposti al pubblico. Li ha sistemati qui Luciana Manzo, dedicando per mesi, con grande attenzione e cura, le ricerche nell’allestimento di una sezione che urla la più grande vergogna della storia d’Italia post unitaria. I tre volumi non si possono sfogliare, ma si possono leggere.
In questi «elenchi della vergogna» ci sono alcuni dei cognomi più famosi e influenti della Torino dell’epoca, nonché torinesi illustri: lo scrittore Primo Levi, la scienziata e premio Nobel Rita Levi Montalcini, il chirurgo fondatore dell’ospedale Cto Simone Teich Alasia, l’avvocato Bruno Segre, che proprio l’altro giorno, dall’alto dei suoi cento anni appena compiuti, l’ha sfogliato con emozione ritrovando il suo nome.
Un terribile grafico disegnato a mano con i colori nero e rosa illustra con pragmatica crudezza una metodologia per determinare il grado di purezza ebraica. Che è pari al 100% per gli appartenenti a famiglie ebraiche che risiedevano a Torino già nel 1845. Dal 17 novembre del 1938 quella lista divenne formalmente una prescrizione. Anche nel lavoro. Un documento datato 24 febbraio 1939 riportava le aziende torinesi che venivano depennate dall’elenco dei fornitori della civica amministrazione. Tra queste compariva la Ceat, fabbrica di cavi elettrici di proprietà dell’ebreo Virginio Tedeschi, il nonno di Valeria e Carla Bruni Tedeschi.
La mostra «Torino sotto attacco. Dalle leggi razziali alla Liberazione» rimarrà aperta dal 22 ottobre al 26 aprile 2019 all’Archivio Storico della Città di Torino (via Barbaroux, 32) con ingresso gratuito, dal lunedì al venerdì con orario 8,30-16,30. Sono previste aperture straordinarie il sabato con cadenza mensile. Per info: 011.011.318.11. www.comune.torino.it/archiviostorico/

Repubblica 20.10.18
Miriam Sylla
"Siamo andate oltre la paura c’è una musica che ci guida"
Adesso voglio ballare».


Accenna qualche passo di una danza. Il trucco le è restato sulle palpebre, nonostante tutto: gli urli, le corse, i 23 punti.
Siamo uomini o siamo ballerini, si chiedeva una canzone una decina di anni fa. Al tempo Miriam Fatime Sylla era solo una bambina nata a Palermo, i genitori ivoriani erano arrivati in cerca di un’esistenza nuova e intanto stavano crescendo una, forse, futura campionessa del mondo. Se Egonu è la classe infinita, Sylla è la musica che suona dentro la squadra, l’emozione che si vede, i suoi punti sono il segno della fatica fatta per arrivare, della molta vita nei suoi 23 anni. Ed è come se l’Italia si reggesse sulla sua frenesia, sulla sua assoluta mancanza di mezze misure.
Cosa vuol dire giocare un tie-break sapendo di non poter sbagliare di un centimetro?
«Non si può descrivere la tensione di quei momenti, quando ti concentri su te stessa, sui tuoi sogni e contemporaneamente devi pensare a come non far cadere quel benedetto pallone, tenerlo vivo, darlo alle compagne e mettersi in linea col palleggiatore per attaccare. La paura è tanta, sì. Non è stata dura, ma molto di più. E in giornate come questa ti salvi se hai qualcosa di molto grande dentro».
Loro non vi mollavano: avete pensato mai "ora la perdiamo"?
«In molti momenti, ma poi al punto successivo ti metti lì e aspetti, è un rito di purificazione, arriva il pallone e ricomincia tutto ogni volta, devi spingerlo verso la palleggiatrice e schiacciarlo e non faresti nessun’altra cosa al mondo in quel momento».
Sente di essere lei l’energia vitale della squadra? Tutti la cercano dopo un punto, i suoi urli sono la scala Mercalli dell’umore della squadra.
«Urlo per dire "ci siamo ancora", è un modo per farmi sentire anche dall’altra parte della rete, a volte urlo anche parolacce e forse si vede, ma noi siamo un circuito, ci alimentiamo a vicenda, abbiamo un cuore grandissimo».
Ci pensa a quanti italiani avranno gridato con voi?
«Io il tie-break non me lo ricordo, ho un vuoto ora, e sono passati dieci minuti, davvero non ricordo neppure di averlo giocato, di esserci stata in campo. Ricordo i miei bagher, sì, e la paura di sbagliarli».
Come sta adesso?
«Ho dolore in ogni singolo muscolo del corpo, ma è la testa a farti correre, non i muscoli. Con la Serbia si ricomincia per l’ennesima volta, e stavolta è l’ultima».
Che finale sarà con la Serbia?
«Abbiamo dei conti in sospeso da prima delle Olimpiadi di Rio, è un’altra battaglia e ci teniamo ad affrontare loro, soprattutto loro.
Partiamo alla pari ma noi abbiamo una voglia enorme. In questi cinque mesi abbiamo pianto, abbiamo lavorato e ci siamo fatte del male per arrivare dove siamo adesso».
Eppure sembrate spensierate, divertite. E state per finire nella storia dello sport italiano.
«Ci piace ballare, seguire una musica che abbiamo dentro, siamo molto istintive. Gli italiani si staranno innamorando del nostro modo di stare in campo, e me li immagino stremati e affondati nel divano, dopo l’ultimo punto di Paola. Vi abbiamo fatto soffrire, ma è stato così bello. La rivedremo forse cento volte questa partita e ci chiederemo "ma eravamo davvero noi, in quel campo"? Adesso è meglio finirla qui, se no dopo la finale di che parleremo?». – c.c.

Repubblica 20.10.18
In Messico è florida l’industria feroce dei sequestri. C’è un avvocato che sa come trattare con i rapitori. Nome in codice Javier, svela le tattiche dei clan e le risposte efficaci
di Tobias Kaufer


Messico vengono rapite ogni giorno sei persone. Per non essere in balia di sequestratori spesso brutali, le famiglie che possono permetterselo si affidano a un operatore speciale, che conosce tutte le strategie dei rapitori. «La decisione sulla sopravvivenza di una vittima è presa nei primi 30 minuti di un rapimento», dice Javier. «Se un ostaggio si comporta in modo nervoso, se stressa i rapitori, c’è il pericolo che ai sequestratori saltino i nervi. Nessun contatto visivo...».
L’uomo, che non vuole rivelare il suo nome, ha il suo ufficio a Città del Messico, non lontano dall’Angelo dell’Indipendenza e dal centro commerciale Reforma 222, nelle vicinanze di uno dei grandi centri finanziari della capitale messicana. Javier ha risolto con successo due dozzine di casi di rapimento. Ufficialmente, è avvocato e consigliere per la sicurezza, Javier descrive la sua attività come « servizio e consulenza in caso di rapimento». È un mediatore tra la malavita e quelli che temono per la vita dei loro familiari. Javier ha circa 45 anni, una voce tranquillizzante e parla un perfetto inglese. Preferisce l’anonimato perché quello che fa è illegale: l’interlocutore a cui rivolgersi sarebbe la polizia. Ma la fiducia nelle forze di sicurezza è scossa, non pochi funzionari hanno stretti contatti con la criminalità organizzata.
In base a un’indagine dell’Università autonoma nazionale del Messico ( Unam), dal fenomeno dei sequestri sono molto colpiti la capitale, lo Stato federale di Guerrero e Acapulco, la metropoli delle vacanze, con lo stato federale di Baja California. Per l’Unam, a ogni rapimento denunciato alle autorità corrispondono cinque sequestri non segnalati. L’organizzazione non governativa
tra dicembre 2012 e marzo 2016 ha contato 10.898 rapimenti, ma la cifra ufficiosa si aggira sui 100.000.
Gli esperti distinguono quattro categorie. Nel 92% dei casi si tratta di soldi, le motivazioni politiche o personali sono rare. Con il "rapimento express" i criminali con i loro ostaggi si recano agli sportelli bancomat per prelevare la somma massima in contanti. I " rapimenti di massa" consistono nel prendere in ostaggio gruppi di persone, ad esempio negli spostamenti interurbani in autobus. Spesso si va a caso, le famiglie delle vittime non sono abbienti, ma è comunque possibile spremere qualche migliaia di euro. Raro è il "sequestro virtuale": alla famiglia di una persona in viaggio viene raccontato che è avvenuto un rapimento. In questo caso i criminali fanno ricerche sui social e tentano, ad esempio, di prendere contatto con i familiari di una vittima durante un suo lungo viaggio in aereo, per spingerli al pagamento rapido. Poi ci sono i casi nei quali si è specializzato Javier: il rapimento di un individuo per estorcere un riscatto ad almeno cinque cifre. Per le statistiche Unam, il 70% dei casi si conclude con il pagamento di un riscatto. Ciò dimostra quanto grande sia il mercato per coloro che si mettono a disposizione per far sì che la consegna del denaro e la liberazione avvengano senza intoppi. Javier considera realistiche le cifre dell’università. « Si tratta di garantire ai rapitori la certezza di ricevere i soldi e di non essere scoperti » . Anche il sequestratore non vuole problemi e la polizia è percepita da entrambe le parti come fattore di disturbo: «I familiari temono che la comparsa della polizia metta in pericolo la vita dell’ostaggio, per i rapitori il rischio di essere scoperti cresce».
Le cifre dell’Unam confermano le sue esperienze. In appena il 6% dei casi i familiari si affidano solo alla polizia e si rifiutano di pagare il riscatto. L’industria messicana dei sequestri si è da tempo specializzata. Per quasi tutti i compiti dispone di « forze specializzate». Ci sono quelli che identificano le vittime in base all’entità del riscatto e al livello di rischio. Poi ci sono quelli che rapiscono la vittima. E infine c’è quello che conduce le trattative. Le istruzioni o le prove che il rapito è vivo sono fornite via WhatsApp con cellulari prepagati, le cui sim anonime sono distrutte dopo la prima comunicazione. «Nel caso di sequestri particolarmente brutali può avvenire che siano spediti video o foto nelle quali le vittime femminili subiscono abusi sessuali o le vittime maschili sono picchiate», dice Javier. La banda " Los Nequis" era nota per inviare alle famiglie le punte delle dita dei sequestrati. E il più celebre sequestratore, l’ex poliziotto Daniel Arzimendi, che dopo l’arresto nel 1998 confessò 18 sequestri, era soprannominato
Mozzaorecchie: come prova inviava le orecchie. L’impatto con la sofferenza del proprio figlio, della propria figlia o dei propri genitori è il momento nel quale i familiari crollano. Nelle loro teste si figurano scene terrificanti su tutto quello che potrebbe succedere. I sequestratori sfruttano questo effetto per spingere il più in alto possibile la richiesta di riscatto.
Perciò è importante che le trattative siano gestite da una persona che, pur tenendo presenti gli interessi dell’ostaggio, chiarisca ai sequestratori che c’è un limite da non oltrepassare, dice Javier. Il punto critico di un rapimento è il pagamento del riscatto. I criminali vogliono sparire il più presto possibile con il bottino. In quel momento l’ostaggio perde il suo valore. Anche per questo gli interventi di Javier sono molto richiesti. Con lui sia i rapitori sia le famiglie sanno che il denaro sarà consegnato con sicurezza. Quasi sempre l’ostaggio viene poi liberato: « Se questo non accade, ho commesso un errore ». In caso di «lavoro svolto con successo » , il messicano riceve per le sue prestazioni una somma commisurata al riscatto. Javier non rivela l’entità di questa percentuale e non accetta il rimprovero di incoraggiare con il suo lavoro la criminalità organizzata: «I sequestri ci sarebbero anche senza di noi. Però con noi le vittime riescono quasi sempre a
donna alla marcia per il IV anniversario della scomparsa di 43 aspiranti insegnanti il 26 settembre scorso

Repubblica 20.10.18
Ma la misoginia è nella Bibbia o nell’occhio di chi la legge? La risposta di venti teologhe
di Andrés Allemand


Anna Bissanti L a Bibbia è tutt’altro che femminista. Ma la misoginia che le si attribuisce più he altro è di coloro che hanno interpretato le scritture perpetuando stereotipi patriarcali », dice Pierrette Daviau. Professoressa in pensione della cattolicissima Università Saint- Paul di Ottawa, con due teologhe della Facoltà protestante, la professoressa Elisabeth Parmentier e la dottoranda Lauriane Savoy, ha presentato (a Ginevra) Una bibbia di donne ( Labor et Fides), la straordinaria opera collettiva che hanno illustrato al pubblico in una conferenza dal titolo eloquente: " Né sante né sottomesse".
Una " bibbia" di donne? Sì, ma non per sostituire la Bibbia, bensì per svelare le figure femminili ignote, individuare le traduzioni distorte e le interpretazioni tendenziose, senza timore di affrontare i brani più controversi. Si tratta del lavoro critico di una ventina di teologhe francofoni di Svizzera, Francia, Québec e Benin che, in un certo senso, fa da contraltare alla Woman’s Bible pubblicata negli Stati Uniti – nel 1898! – da Elizabeth Cady Stanton e da venti donne ribellatesi a secoli di lettura patriarcale dei testi sacri.
A che cosa assomiglia questa nuova ribellione? Ecco sei esempi, lettura corroborante in un periodo nel quale le lobby religiose danno il loro appoggio a politici che usano espressioni misogine, come Donald Trump negli Stati Uniti d’America o Jair Bolsonaro in Brasile.
LA FEMMINILITÀ DI DIO
Padre, Figlio, Signore, Creatore, Onnipotente… Per abitudine si utilizzano vocaboli maschili per parlare di Dio.
Quando ci ha mostrato la femminilità? Sapete che lo Spirito creatore in ebraico è femminile? E che la Saggezza divina, molto presente, è sempre incarnata da donne? Sapete che Dio è paragonato a una madre che mette al mondo ( la Creazione) o a una levatrice? Sottolineare questi aspetti non è un progetto moderno: « Alcune donne, nel corso del tempo, hanno pregato Dio al femminile», scrivono le teologhe.
EVA E LA SUA METÀ
Adamo, il "fangoso", l’essere uscito dall’argilla, è il primo umano. Dio pensa che l’essere umano non debba essere solo. Stacca una costola e crea Eva. Nasce così il duo uomo- donna. Questa è una delle possibili interpretazioni della Genesi. Perché si è preferito dirci che Dio creò prima l’uomo, e poi gli staccò una costola per fare una donna? E perché, subito dopo, si è accusata quest’ultima di aver tentato l’uomo con il frutto proibito? Le teologhe se lo sono chiesto. Il testo mostra il serpente che tenta Eva, che cade nella trappola. Quanto alla punizione che ne consegue (partorire nel dolore, essere assoggettata all’uomo), è un male legato alla trasgressione, ma non era il progetto di Dio – notano –, la cui creazione presenta una relazione equilibrata.
LE PROFETESSE
Alcuni brani biblici intimano alle donne di tacere. Ma ci sono anche alcune profetesse, messaggere di Dio. Nell’Antico Testamento, Debora (che è anche giudice) ordina l’invio al fronte di 10mila soldati. Olda, invece, è consultata prima che il re Giosia proibisca i culti non ebraici e concentri a Gerusalemme l’autorità religiosa. Altre profetesse sono Maria o Noadia. Sono meno rispetto ai profeti, ma non meno considerate.
MARIA DI MAGDALA
Alcuni l’hanno confusa, a torto, con la donna peccatrice. Altri hanno visto in lei l’amante di Gesù, anche se nulla lo attesta. Maria di Magdala ( o Maria Maddalena) era una delle tante discepole che seguivano Gesù, in rottura con le convenzioni sociali. Porta il nome della sua città, non del padre, del fratello o del marito, e di conseguenza è una donna indipendente. Molto presente nei Vangeli, assiste alla crocifissione ( gli uomini se ne vanno, lasciando Gesù in agonia). Nei testi biblici, è a lei che appare per prima Cristo risorto, ed è lei a essere mandata ad annunciare la buona novella ai discepoli. In sintesi, la sua è una figura centrale.
INDOMITE
Resta la Lettera agli Efesini, che ordina: « Donne, siate sottomesse ai vostri mariti!». È difficile vedervi un manifesto femminista. Premesso ciò, le teologhe ricordano il contesto: l’apostolo Paolo consiglia ai cristiani che devono far fronte all’ostilità popolare nella città greca di Efeso ( oggi in Turchia) di adattarsi alla legge dell’Impero romano che assoggetta le donne agli uomini. «‘Subordinata’ è una traduzione più precisa di ‘ sottomessa’ » , dicono. Poi fanno notare che il versetto precedente invita le coppie a rendere grazie a Dio « subordinandovi gli uni agli altri nel rispetto di Cristo » . Si tratta di reciprocità. Infine, più avanti si afferma che « il marito è capo della donna, come Cristo lo è della Chiesa » . Le teologhe non lo smentiscono, ma ricordano che Gesù si mise sempre al servizio del prossimo. Se lo si intende in questo modo, l’uomo dovrebbe mettersi al servizio di sua moglie! Quel versetto non giustifica certo una sottomissione. n