giovedì 11 ottobre 2018

l’espresso 7.10.18
Per uscire dal buio
Decalogo

Parole rifondative: di un progetto, un’identità, una speranza di futuro. Nelle prossime settimane si riuniranno in tanti, a sinistra o da quelle parti: si comincia questa domenica con la marcia della pace Perugia-Assisi, cinquant’anni dopo la morte di chi la sognò, Aldo Capitini, scomparso il 17 ottobre 1968. Seguiranno nel Pd la Piazza Grande del nuovo aspirante leader Nicola Zingaretti, a Roma il 14 ottobre; e la Leopolda dell’ex ma sempre incombente Matteo Renzi, una settimana dopo. E le manifestazioni del 13 ottobre in tutta Europa, comprese molte città italiane, «contro il nazionalismo, per un’Europa unita» (www.13-10.org). Si discuterà di nomi, sigle, contenitori, per provare a riempire il vuoto di presenza, il deserto di alternativa visibile. Quello che ancora manca è la battaglia di idee: una sida politica e culturale, popolare e non elitaria. Qualche settimana fa l’Economist ha offerto ai suoi lettori un manifesto per ripensare il liberalismo. L’Espresso, nel solco di questo dibattito italiano e europeo, ha chiesto ad alcune sue firme, diverse per cultura e esperienza, un decalogo di parole-chiave (altre ne seguiranno). Da “Noi e Tu” di Massimo Cacciari a “Tutti” di Francesca Mannocchi, il nostro alfa e omega. Un segno di luce, per uscire dal buio.

Noi e tu
di Massimo Cacciari


Nessun “noi” è autorizzato a parlare a nome del mio “Io”. È questo il detestabile “Noi” cosi volentieri in bocca a leader e pseudo-leader, a detentori di verità o post-verità, ai “veri” rappresentanti del Popolo o della Gente. Si tratta del “Noi” plurale maiestatis, in cui Tutti dovrebbero ritrovarsi e abbracciarsi armoniosamente. A questa figura totalitaria va opposta la comunità degli Io, la ricerca della loro relazione senza confusione, senza che nessuno perda o dimentichi la propria singolarità. Ogni insieme che non si costituisca sulla base di un tale principio è destinato a trasformarsi in un oscuro grumo, manipolabile da qualsiasi pifferaio o burattinaio. Ma dall’Io in quanto tale non si passa per miracolo alla comunità. Soltanto da quell’Io che è capace di chiamare l’altro col Tu, che non vede nell’altro l’avversario, l’ostacolo, lo scandalo, ma il Tu - che si fa prossimo dell’altro per giungere a chiamarlo Tu. E che con questo nome potrà essere a sua volta chiamato. L’Io è veramente tale quando viene chiamato Tu dall’altro. La singolarità del mio Io è tale quando cosi la scopro comparandomi al Tu dell’altro. Altrimenti non sono questo Singolo, unico nel proprio valore, non scambiabile con nessuno, merce o strumento di nessuno, ma soltanto un punto indistinto, un granello di sabbia nella indifferenza del Tutto. Se e soltanto se ognuno riuscisse a “dare del Tu” all’altro e a ritrovare se stesso proprio in questo dare-donare, saremmo autorizzati a usare il Noi. Idea che appare semplice e che forse, invece, è in realtà sovrumana. È l’idea che regge l’intera struttura del Paradiso di Dante: tutti santi nel suo amplissimo abbraccio, tutti insieme beati nell’amore contemplativo del Signore e amici gli uni con gli altri, eppure ognuno si manifesta in un suo luogo, eterno nel suo volto proprio, nel suo nome, nella sua opera, ognuno inconfondibile nella sua preziosissima, inalienabile singolarità. È l’Inferno in terra dove la maledetta lupa dell’invidia, dell’avarizia, della libido di dominare, genera continuamente masse, indifferenza, confusioni, grumi. Ma a differenza che in quello di Dante, nel nostro è forse ancora possibile lottare e sperare in nome del Tu.

Popolo
di Giuseppe Genna


Il popolo è il tutto nel tutto. Definisce una comunità di lingua, di immaginario e di urgenti bisogni. È la parte vivente dello Stato, che senza il popolo appare la macchina celibe di un’anchilosi mortuaria. Il popolo si divide in componenti: c’è una parte contenta, e la chiamiamo borghesia, e c’è una parte che perennemente urla nel disagio e nella povertà, ed è il proletariato. Queste parole appartengono a un vocabolario che troppo presto ci si è permessi di archiviare. Si può sorvolare sull’illibatezza della componente più contenta, poiché il lavoro generale del popolo su se stesso è rendere contenta la parte che ha fame, che sopporta l’indigenza, che è sempre privata di cure e di istruzione. Il diritto alla felicità è il principio animatore del popolo, negarglielo è la pratica del potere. Per questo è temuto il popolo: sembra sognare, ma procede verso enormi e ciclici risvegli. Il potere ritiene che il popolo sia un figlio minore, a cui somministrare un premio di consolazione, con decreti e assistenzialismi ipocriti, per orientarne il sottosviluppo. Dietro quei provvedimenti, chi medita profondamente ravvede la strategia di portare il popolo a contenzione. Il potere reputa che il popolo debba ringraziarlo, il popolo reputa invece di detenere il diritto a esprimere il potere stesso. Di qui, la battaglia di civiltà che chiamiamo progressismo: il sogno del popolo. Il miglioramento in fatto di diritti è la missione che il popolo con segna a se stesso. Quando sembra che sbagli, significa che si è perduta l’appartenenza al popolo e ci si deve riformare. In queste faglie, è imperativo proporre il discorso sui temi epocali e riconquistare la coscienza collettiva, che è il genio del popolo in sé. Serve organizzare intorno al disagio le persone che lamentano le miserie, saperle cogliere e proporre soluzioni collettive. Hanno eroso i diritti? Tocca aggregare il popolo intorno a questo fatto indecente e risolvere i bisogni universali. Se la comunità è abbandonata, diviene viscerale e violenta con sé e con gli altri. Proporre il discorso della democrazia, dell’uguaglianza e della sorellanza, dando seguito concreto a quel discorso, è il compito che popolo affida a se stesso, a tutte e tutti noi, per giungere a vivere la felicità, vincendo l’attrito del mondo.

Classe (lotta di)
di Emiliano Brancaccio


Credo che la sinistra abbia smesso di comprendere il capitalismo da quando si è lanciata in una frettolosa abiura di Marx. Un errore su cui tuttora persevera e che altri invece non commettono. Tra gli estimatori di Marx troviamo oggi, paradossalmente, le testate della grande finanza internazionale: dal Financial Times, secondo cui «Marx è più rilevante che mai», all’Economist, che si avventura a esortare «governanti di tutto il mondo: leggete Marx!». L’interesse dei circoli finanziari per Marx riguarda soprattutto la sua “legge di tendenza” verso la centralizzazione dei capitali. La centralizzazione è l’esito di una incessante lotta tra capitali per la conquista dei mercati, che porta al fallimento dei più deboli o alla loro acquisizione da parte dei più forti, sfocia nella “espropriazione del capitalista da parte del capitalista” e alla ine determina una concentrazione del capitale in sempre meno mani. ‚ il lato cannibalesco del capitalismo, che richiama l’opera bruegeliana “I pesci grandi mangiano i pesci piccoli” e che trova oggi importanti conferme empiriche. Si tratta di una tendenza cruciale, che aiuta ad afferrare i nodi politici di questa fase storica. L’orrido sovranismo non è altro, in fondo, che la reazione dei capitali nazionali in affanno contro una devastante centralizzazione trainata dai capitali più forti e ramificati a livello globale. È pura lotta di classe in senso marxiano ma è tutta interna alla classe capitalista, con il lavoro totalmente zittito. La sinistra non capisce quasi nulla di tutto questo. Per anni si è crogiolata nella pia illusione di un capitalismo ormai pacificato, proiettato verso il sol dell’avvenire della democrazia azionaria. E oggi risulta spiazzata da una lotta tra capitali sempre più feroce, che difonde nel resto della società i semi della barbarie. Una nuova sinistra dovrebbe in primo luogo comprendere che il silenzio a cui è stato ridotto il lavoro ha reso ingovernabile la bestia capitalista. Tra le tante minacce alla civiltà di cui si parla, questa è l’unica tangibile.

Accogliere
di Evelina Santangelo


Oggi più che mai sento quanto avesse ragione la Bachmann quando diceva «Non date ai vostri pensieri un unico fondamento, potrebbe essere pericoloso». Bisogna dare moltissimi fondamenti ai propri pensieri per scardinare pregiudizi, visioni sclerotizzate, superare distanze dettate dall’incomprensione, e accogliere prima di tutto questo mondo in cui viviamo, dove i destini dell’umanità, le lingue e le culture si stanno intrecciando in modo inestricabile, o comunque si ritrovano a vivere una prossimità come mai forse era accaduto prima. Ciò che oggi ci è straniero è prima di tutto questo tempo, che fatichiamo a decifrare, e dunque ad accogliere. È scomodissimo dare più fondamenti al proprio pensiero. Bisogna mettere in discussione certezze su cui si è edificata la propria vita e quella della collettività in cui siamo cresciuti. Per farlo bisogna compiere un gesto difficile: mettersi in ascolto. È stato ascoltando un film realizzato da Itastra (Scuola di Italiano per stranieri dell’università di Palermo: «Io, Souleymane Bah») che ho capito come la lingua possa diventare non solo uno strumento di inclusione, come si dice spesso, ma una forma di salvezza per chi vive tutta la vita da analfabeta (come lo erano milioni di italiani nel dopoguerra, spesso costretti a migrare: «migranti economici», li definiremmo oggi). È la storia di Souleymane Bah, un ragazzo di un villaggio della Guinea Conakry, arrivato nel nostro Paese nel 2016 senza possedere una lingua con cui leggere e scrivere, dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorsa a cercare lavoro ovunque spingendosi sino in Libia. E lì: solo lavoro, fatica, «bastone e fucile», come racconta… finché non è giunto a Itastra e lì ha imparato l’unica lingua che oggi sa leggere e scrivere, o come precisa: una lingua con cui «capire meglio il mondo e me stesso». Ecco, per me «accogliere» ha a che fare con questa urgenza di imparare anche noi una nuova lingua con cui provare a comprendere il mondo e noi stessi, per non rischiare di finire a vivere da stranieri in questo nostro tempo.

Lavoro
di Aboubakar Soumahoro


Prima il lavoro, si dice, d’accordo. Ma prima del lavoro c’è il lavoratore. E, prima ancora, gli esseri umani. Oggi, nei convegni e nelle relazioni prodotte dai centri studi, si parla dei lavoratori come se fossero macchine, corpi senza anime, robot. Lavoratori senza legami sociali, atomizzati. Lavoratori isolati, ognuno per sé, senza una dimensione collettiva, senza relazioni umane in grado di creare solidarietà. Si parla di intelligenza artificiale, ma sono gli esseri umani a finire progressivamente trasformati in automi. Partire dal lavoro significa allora restituire alle persone i loro diritti e la loro dignità, ma anche la possibilità di sentirsi protagonisti di una costruzione sociale. Il lavoro è impoverito, e impoveriscono i lavoratori, oppure è dequalificato, giovani iper-laureati oggi svolgono lavori dequalificati. Nell’era digitale il lavoro ti impedisce di realizzare le tue aspettative e al tempo stesso colonizza il tempo di vita. Vale per tutti i lavoratori, gli operai e i braccianti, i precari, per quelli impegnati nel privato e per quelli che si muovono nella sfera del pubblico, dove anni di privatizzazioni, blocco delle assunzioni, appalti all’esterno di funzioni che appartengono allo Stato hanno creato una situazione di precarietà di vita e non soltanto di condizioni lavorative. Uno Stato che partecipa a fenomeni di sfruttamento e di abbrutimento. Parlare del lavoro, dunque, significa parlare delle persone, nella loro quotidianità, nelle loro spese, nella fatica di portare a termine la giornata, non soltanto dal punto di vista economico. I bisogni vitali delle creature, come diceva Giuseppe Di Vittorio. Creature: è la parola più tipicamente umana, contiene in sé ogni cosa. Noi siamo da questa parte, lo dico anche nell’ottica di un sindacalista contemporaneo che vive in questo tempo e in questa stagione. Siamo dalla parte delle persone, senza disparità di pelle o di genere, dovrebbe essere la normalità, ma oggi sta avvenendo il contrario. Lavoro oggi significa cultura, emancipazione, rispetto, giustizia sociale. Significa battersi per evitare che il lavoro torni a coincidere con lo sfruttamento degli esseri umani, la loro alienazione. Vuol dire ricomporre valori comuni, oggi spezzati. Ricucire.

Differenza
di Michela Murgia

Vorrei che nella Costituzione della nostra Repubblica ci fosse scritto che l’Italia è una nazione fondata sulla differenza. Invece questa è una delle parole che suscitano più timore, perché negli anni è stata usata per trasformarci in fortini assediati da chiunque si presentasse con in mano qualcosa di sorprendente. Per farci temere la differenza le hanno contrapposto un concetto di identità statico e mortifero, un posto mentale dove le cose si fermano e diventano norma al grido di “noi siamo questo”. Chi è differente, chi non si adegua (o non si integra, che è lo stesso), è quindi considerato a-normale e la conseguenza dell’a-normalità è sempre la discriminazione. Il contrario di quella brutta idea di identità non è infatti la differenza: è la disuguaglianza, la gerarchia di valore tra la soggettività normata e quella fuori norma. Così la norma bianca vede anormalità nella pelle nera, la norma benestante teme l’incontro con la povertà, la norma maschile riduce a eccezione il femminile e il cristiano impara a vedere nemico il musulmano. Invocare la differenza spiazza queste carte ed esige la molteplicità, perché per essere differenti occorre essere almeno in due. Fondarsi sulla differenza significa fondarsi sulla necessità della relazione ed è per questo che la ricchezza della differenza (e il suo rispetto) sono i fondamenti della democrazia, che senza dialettica tra le differenze non avrebbe ragione di essere. Chi ha paura della molteplicità e della difefrenza è da guardare con timore democratico, perché esiste solo una persona più temibile di chi non ha alcuna idea del mondo: è quella che ne ha una e basta. Se quella persona arriva al comando, la renderà assoluta per tutti.

Imparare
di Valeria Parrella


Ogni volta che esce fuori la parola cultura, Ciccio se ne viene con questa domanda: «Avete mai sentito “Choices” cantata da Bettie LaVette?». Sostiene Ciccio che nel 2008, ad Afragola, città di 64 mila abitanti dell’abnorme area metropolitana di Napoli, si sia tenuto un concerto di Bettie LaVette. «Ad Afragola?», gli dice a questo punto chiunque conosca la musica soul e Afragola. «Sì, in piazza ad Afragola». Quella sera la piazza di Afragola non era proprio il Blue note, è un rettangolo di periferia perimetrato da una scuola, in un hinterland sconfinato che non saprebbe più indicare il suo centro. Ma l’amministrazione locale organizzava l’Afrarock festival, lì, proprio nella villa comunale. Il backstage era in uno dei locali della scuola a piano terra. Sostiene Ciccio che quella sera nel pubblico c’erano quaranta persone. Lui era seduto accanto a due signore afragolesi che, poiché la serata infocava, erano scese in pantofole e càmice a vedere cosa davano. Tanto era gratis. La signora gli chiese: «Giovanotto? Mo’ escono le ballerine?». Poi però scese il buio e Bettie LaVette cantò. Cantò nella villa comunale di Afragola, cantò per quaranta persone tra cui Ciccio, cantò per Ciccio e cantò per la signora in càmice e pantofole che aspettava le ballerine. «I’ve had choices since the day I was born / here were voices that told me right from wrong / If I only listened, no I wouldn’t be here today / Living and dying with the choises I made». Fu qui che la signora cambiò per sempre. Batteva le mani e piangeva di sollievo. Felice, illuminata, rapita. Sostiene Ciccio che la signora è stata quella che ha urlato più volte bis, in piedi. Che è rimasta per ultima nella piazza di Afragola che si svuotava, sperando di poter incontrare Bettie LaVette. Quando gli facciamo notare che la storia diventa inverosimile sulla canzone, perché la possibilità di scegliere è proprio l’obiettivo delle politiche culturali di un Paese, Ciccio si innervosisce «la signora non capiva un cazzo di inglese, che ci posso fare io se è successo su Choises? Vi ho raccontato una storia di cultura. Una storia di sinistra». E se ne va senza salutarci.

Europa
di Roberto Castaldi


L ’Europa per le persone di sinistra è un orizzonte valoriale di pace e solidarietà, una terra promessa, che alcuni speravano raggiunta già con l’unione monetaria. Ma era un’illusione, che ha provocato sentimenti contraddittori: in alcuni la spinta a riprendere il cammino verso l’unità politica; in altri un senso di tradimento rispetto alla speranza coltivata, che porta a sposare il nazionalismo, facendo inconsapevolmente il gioco della destra. Oggi l’Unione Europea è l’unico livello di governo in cui è possibile provare ad attuare politiche di sinistra per governare la globalizzazione: tassare e contrastare il ruolo dominante delle multinazionali; investire per una crescita sostenibile sul piano sociale e ambientale; costruire un sistema di welfare per il XXI secolo; giocare un ruolo nel mondo e contribuire alla costruzione di un nuovo ordine mondiale più equo e pacifico; garantire la sicurezza dei cittadini rispetto alle side interne ed esterne; stabilizzare e sviluppare l’area di vicinato e governare i lussi migratori senza abbandonare la tutela dei diritti umani. Nessuno Stato membro può farlo. L’Ue va già in questa direzione, ma timidamente. Perché manca di competenze, risorse e poteri essenziali, affidati a istituzioni pienamente democratiche e legittime. Le politiche di sinistra richiedono istituzioni forti e fondi adeguati (il bilancio Ue è lo 0,9% del Pil!). Alle europee la sinistra chieda un mandato per un nuovo Trattato, o meglio Costituzione, con chi ci sta. Per abolire i veti e l’unanimità. Per creare risorse europee: le tasse sulle transazioni finanziarie speculative, sui profitti digitali, sulle emissioni di CO2, riducendo quelle sul lavoro, per investire su crescita, occupazione e transizione ecologica. Per costruire una politica estera, di sicurezza e di difesa unica. Per fare della Commissione un vero governo federale. Un candidato di coalizione alla presidenza della Commissione sarebbe un primo passo verso la riforma dell’Ue.


Prima l’italiano
di Chiara Valerio

Ho sempre pensato che - anche per la faccenda dell’obbligo - tutti avessimo frequentato le scuole medie inferiori e tutti avessimo studiato l’analisi del periodo. Quando sento parlare molti dei rappresentanti di quel che rimane della sinistra italiana mi accorgo invece che è opportuno rinverdire alcune semplici regole di grammatica. Forse hanno studiato, ma non hanno capito, o più semplicemente hanno dimenticato. I periodi, in italiano, possono essere semplici, complessi e composti. Il periodo semplice è formato solo da una proposizione principale, il periodo complesso da una proposizione principale più le subordinate e il periodo composto da diverse proposizioni principali e dalle subordinate. Alle subordinate sono dunque affidate, in italiano, il tempo, le cause e i modi delle azioni e delle persone che le compiono. Ne consegue che se nel parlare si utilizzano solo periodi semplici - come, per esempio, fa Salvini - si toglie e si nasconde a chi ascolta la possibilità di intendere, comprendere e collegare le cause e gli effetti. Senza subordinate, insomma, non ci sono responsabilità e non c’è nemmeno futuro. Perché quel-che-rimane-della-sinistra-italiana non ricomincia, forte di regole grammaticali apprese alle scuole medie inferiori, a reintrodurre le subordinate nel linguaggio politico, riportando così futuro e responsabilità nel dibattito politico, economico e culturale e riconsegnando il futuro e la responsabilità dei diritti a noi tutti? Perché quel-che-rimane-della-sinistra-italiana non si dedica al periodo complesso invece di seguire il Tweet? La grammatica, come molte altre regole, insegna (o, di certo, ha insegnato a me) due cose. La prima è che, per essere liberi e rispettosi della libertà altrui, le regole vanno introiettate. La seconda, che forse ne è conseguenza, è che solo gli ortodossi fanno la rivoluzione. Il periodo complesso, principale più subordinate, permetterebbe di descrivere un mondo che non è più solo guardie contro ladri, ricchi contro poveri, italiani contro non italiani. Perché la sinistra italiana non si riprende il periodo complesso? Non ci manca la comunicazione, ci manca la creatività.


Tutti
di Francesca Mannocchi


La vita di Tekle è cambiata per sempre in una baracca fatiscente al conine tra il Sudan e la Libia. Scappava dall’Eritrea, insieme a suo marito. Una vita insieme, un figlio di otto anni lasciato indietro in attesa di ricongiungersi con loro, una volta arrivati a destinazione e ottenuto l’asilo politico. In quell’Europa tanto sognata, dove potremo finalmente essere Tutti uguali. In quella casa fatiscente, usata come centro di smistamento, aspettava insieme ai suoi compagni di viaggio, eritrei come lei, che i trafficanti si dessero il cambio. Aspettava quelli che l’avrebbero portata dal conine sudanese alle coste libiche per poi attraversare il Mediterraneo. Invece questa donna di 26 anni in un corpo esile di bambina è stata trascinata con altre donne in una stanza, e i trafficanti le hanno fotografate, così ognuno avrebbe potuto scegliere la sua preferita. «Ho legato i capelli stretti stretti», mi ha detto Tekle, «perché volevo sembrare meno bella. Volevo non essere scelta». Invece Tekle è stata stuprata da tre uomini per una notte intera, mentre suo marito gridava: «Lasciatela stare!». Il mattino dopo lui non c’era più, trascinato via chissà dove, chissà da chi. Fatemi morire qui, ha chiesto Tekle, mentre i suoi compagni di viaggio l’hanno presa per mano, e le hanno detto: «Siamo tutti qui, solo per te. Appoggiati. E piangi. Siamo tutti qui per te». E Tekle si è appoggiata e non ha parlato per settimane, ha stretto la mano ai Tutti che le porgevano la loro. Tutti quelli che come lei mangiavano tozzi di pane secco e bevevano acqua salata in attesa di salire su un gommone. Oggi Tekle vive in un centro di accoglienza alla periferia di Roma. Fatica a ricevere la scheda telefonica mensile per parlare con suo niglio. Suo marito è in una prigione sudanese dalla notte del suo stupro. «Se esce in strada», dice, «capita che i ragazzini mi gridino contro che sono una puttana negra». In una strada d’Europa, di quell’Europa da lei sognata come un’Europa di persone uguali e di diritti e accoglienza per tutti.

l’espresso 7.10.18
Una vergogna chiamata Pillon
Il disegno di legge sull’affido dei figli si accanisce sui più deboli: i bambini e le donne. Riservando privilegi ai benestanti
di Stefania Pellegrini


Risulta piuttosto bizzarro trovare citata nella relazione illustrativa del disegno di legge Pillon una frase di Arturo Carlo Jemolo in cui la famiglia viene definitiva come «un’isola che il diritto può solo lambire», quando tutto il disegno di legge è improntato su di una regolamentazione rigida e standardizzata di uno dei momenti più delicati della vita familiare come quella della ine del rapporto coniugale. I 24 articoli del testo sono un crescendo di imposizioni indirizzate a limitare la libertà decisionale degli ex coniugi rispetto a quanto riguarda la gestione dei propri figli, relegati a una posizione passiva e declassati nella tutela dei loro diritti che il legislatore del 1975 aveva posto al centro della normativa della famiglia definita per appunto puerocentrica. Benché il testo sia stato presentato come un intervento finalizzato a esaltare il concetto della co-genitorialità in una prospettiva paritaria nei tempi e nelle modalità di accudimento dei figli, all’atto pratico si rivela uno strumento eversivo dei principi che hanno guidato il legislatore e in netta contraddizione rispetto a quanto affermato dagli studi più accreditati sul trattamento del conflitto familiare. La gestione della separazione coniugale viene delegata a soggetti terzi senza alcuna valutazione rispetto alla peculiarità che ogni vicenda mostra. Non si riconosce dignità a una delle esperienze più dolorose e traumatiche, in cui ciascuno scopre nell’altro un altro uomo e un’altra donna. Tutto questo provoca un dolore radicale. La separazione è accompagnata da una molteplicità di emozioni che vengono raramente compresi dall’ambiente familiare, dove rischiano di sfociare in rabbia, cattiveria e altri atteggiamenti distruttivi a discapito in primo luogo dei figli. La mediazione imposta dall’alto In questo contesto di forte emotività il ddl Pillon obbliga i genitori di figli minorenni ad attivare un procedimento di mediazione familiare «che li possa aiutare a trovare un accordo nell’interesse dei minori». Il tutto si tradurrebbe nell’imporre a due persone in guerra, nel momento più acceso del conflitto, a riattivare un dialogo per costruire un armonico rapporto. Il testo introduce il tentativo di mediazione come condizione di procedibilità, addebitando il costo del procedimento, a esclusione del primo incontro, totalmente a carico delle parti, per le quali non viene prevista alcuna possibilità di accedere al gratuito patrocinio in caso di difficoltà economiche. Tale previsione è in netto contrasto con quanto sostenuto dagli operatori e studiosi di mediazione che si oppongono a ogni forma di “mediazione coatta”, considerata una contraddizione in termini, data l’assoluta incompatibilità tra obbligo e mediazione. La riattivazione del dialogo mediante l’esperienza mediatoria deve essere il frutto di un processo interiore delle parti. L’imposizione rischia di burocratizzare le relazioni, deresponsabilizzando, passivizzando e patologizzando le parti. Il problema non è tanto il raggiungimento di accordi o provvedimenti che possono anche formalmente maturare, ma l’effettiva esecuzione e la durata nel tempo delle decisioni raggiunte. In assenza di un consenso e di un’ intesa autentica, l’accordo raggiunto rischia di inserirsi in una contrattazione in cui le dinamiche relaziona li potrebbero indurre il coniuge più debole, non necessariamente la moglie, ad accettare condizioni sfavorevoli. Per di più, la Convenzione di Istanbul alla quale l’Italia ha aderito nel 2014, raccomanda di proibire la mediazione in caso di violenza. Eppure, in un momento storico in cui il nostro Paese assiste a una recrudescenza delle violenze in ambito familiare, Pillon si sforza di negare la violenza domestica. Si premura di reprimere e sanzionare i casi di denunce false da parte delle donne, ma minimizza la violenza maschile contro le donne nelle relazioni di intimità. La degrada a “conflittualità”. E la parola violenza compare una sola volta nel testo, indefinita. Uguaglianza solo apparente Non solo nelle statistiche ma anche «nella mia esperienza pluriennale di avvocata a difesa di donne che hanno subito violenza domestica», dice Maria Virgilio, detta Milli, presidente della associazione GIUdIT, Giuriste d’Italia, «sono decisamente minoritari i casi in cui le donne denunciano falsamente. Semmai è il contrario: anche quando le donne che mi chiedono di sostenerle nella separazione assumono - dopo averci molto riflettuto - la decisione di interrompere, con il ricorso al giudice civile, una relazione violenta, anche in quei casi scelgono di non esternare al giudice gli atti di violenza subita. Pur di separarsi e porre ine alla relazione violenta. Di quella sessuale non vogliono parlare. Di quella isica non hanno chiesto la documentazione. Quella psicologica e quella economica fanno fatica a riconoscerla e a nominarla come tale. Eppure l’iniziativa giudiziale delle separazioni è prevalente da parte delle donne. Il disegno di legge Pillon le intimidisce, le tacita, le ostacola, soprattutto nei casi di contesti violenti sia verso la partner sia verso i figli/e». In un crescendo di imposizioni il ddl Pillon prevede una spartizione “salomonica” della vita privata e sociale dei figli minorenni, senza alcun limite di età e quindi anche lattanti, tra i due genitori chiamati a trascorrere almeno 12 giorni al mese con i propri igli, in casa distinte, e a occuparsi direttamente del loro mantenimento. Una previsione che risulta totalmente scardinata dalla quotidianità con la quale si scontreranno tutti i protagonisti della vicenda separativa. In primo luogo i figli. A diferenza dei genitori, subiscono sempre la separazione coniugale senza vederne un beneficio per sé e, molto spesso, senza comprenderne le ragioni. Per quante rassicurazioni si possano fornire, la vita dei figli cambia radicalmente. Per questo il loro diritto a ritrovare un equilibrio ed una serenità interrotta deve prevalere su quello dei genitori, sulle loro paure e sulle loro rivendicazioni. Chiedere a bambini di sommare al trauma della separazione anche la perdita di ogni riferimento, cambiando casa ogni 12 giorni, abitudini alimentari, modalità di accudimento, equivarrebbe a post-porre ogni loro interesse, alle esigenze organizzative dei genitori. E se i genitori vivono in località lontane (basti pesare ai quartieri delle grandi città), o devono cambiare città per motivi lavorativi? Cosa ne sarebbe del prioritario interesse del minore al centro di innumerevoli pronunce della Corte di Cassazione chiamata a definire le modalità di assegnazione della casa coniugale? Le previsioni contenute nel ddl Pillon, tra l’altro, basano la previsione di una co-genitorialità su di una inverosimile uguaglianza tra i coniugi i quali, seppur subiscano entrambi un impoverimento a seguito di un incremento delle spese della gestione quotidiana, hanno diverse opportunità di accesso al mercato del lavoro, in presenza di elevati tassi di disoccupazione femminile e di un radicato gap salariale a danno delle lavoratrici, e quindi delle mamme, spesso costrette ad abbandonare il proprio lavoro per potere accudire i figli. Di fatto nel disegno di legge Pillon vengono introdotti parametri standardizzati in una omologazione dei diversi vissuti separativi. Un’ideologia miserabile e patriarcale L’avvocata Maria Teresa Semeraro, una delle maggiori esperte della materia, ritiene che «le previsioni del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore e della suddivisione delle voci di spesa violino la norma vigente che prevede che figli/e debbano continuare a godere dello stesso tenore di vita goduto durante la convivenza con entrambi i loro genitori. La realistica disparità delle capacità economiche tra i genitori in favore del padre, così come risulta statisticamente nella maggior parte delle famiglie, comporta che secondo il ddl Pillon figli/e di genitori non più conviventi potrebbero essere abbigliati con le migliori griffe, vivere per quindici giorni al mese in una più che confortevole casa e negli altri quindici giorni mangiare “pane e cipolle” e dormire in letti a castello». Il ddl Pillon, dice l’avvocata Semeraro, «fa propria l’ideologia di un piccolo gruppo di miserevoli uomini che non accettano la gestione di una co-genitorialità tra due soggetti titolari di uguali diritti e che credono che per essere buoni padri occorra ripristinare, attraverso il potere economico, la patria potestà e la potestà maritale abolita nel 1975 con la legge di riforma del diritto di famiglia». Solo alcune queste, delle tante criticità di questo disegno di legge che non introduce strumenti di ausilio per la gestione della vicenda separativa, ma la rende una spiaggia per i pochi eletti con disponibilità economiche o un miraggio per i tanti coniugi che si vedranno ingabbiati in relazioni familiari conflittuali se non violente, riducendo l’accudimento dei figli ad una pianificazione di tempi e costi. Un gioco al massacro, in cui tutti perdono e nulla si salva. Come nulla è salvabile del ddl Pillon.
(Professoressa Associata in Sociologia del diritto, Università di Bologna)


l’espresso 7.10.18
Spese militari, i grillini si sono distratti
Di Alessandro Giulioli


Almeno fino a oggi, c’è un assente nel balletto di cifre della legge di bilancio: la questione delle spese militari. Che per i 5 Stelle, quando stavano all’opposizione, era un tema centrale. Lo stesso Beppe Grillo ne aveva fatto una battaglia fondante del suo blog, suggerendo un taglio draconiano («almeno 10 miliardi») per finanziare il reddito di cittadinanza (vedi ad esempio i post del 21 maggio 2012 e del 10 ottobre 2015). Per non dire della lotta contro gli F35. Adesso però la musica sembra cambiata. Salvo colpi di scena, l’acquisto dei caccia prodotti dalla Lockheed è confermato. E la ministra Elisabetta Trenta ha anche annunciato che entro il 2024 l’Italia spenderà per la Difesa il 2 per cento del pil, cioè quasi 40 miliardi all’anno, più di 100 milioni al giorno (attualmente sono 64). Nessun passo avanti - finora - neppure nella trasparenza delle spese militari, da sempre occultate sotto altre voci compresa la cooperazione. Anche questa era una battaglia molto frequente nel blog di Grillo che adesso pare scordata.

l’espresso 7.10.18
Così in cinese si scrive Africa.
Dove Pechino estrae materie prime, compra enormi terre ed esporta milioni di contadini. Puntando a farne il suo cortile
Di Angelo Ricchiello


È un colonialismo soft. Ricco di promesse: investimenti, progresso, benessere. Accompagnato da un’immigrazione costante: ingegneri, tecnici, operai specializzati, agronomi.... Ma anche surplus demograico di contadini poveri rimasti ai margini del grande balzo, che Pechino vuole trasferire in massa nella nuova terra promessa. Il numero di immigrati cinesi in Africa superava il milione di unità già nel 2016; ma si tratta di una cifra probabilmente sottostimata, e comunque sette volte aumentata rispetto alle 160 mila unità del 1996. È un lusso migratorio imponente che dal 2012 è continuato senza sosta e che allarma i paesi occidentali abituati a dettare legge sul continente nero. L’accesso a risorse naturali e agricole, il trasferimento di surplus manifatturiero in nuovi mercati, lo spostamento di manodopera a bassa scolarizzazione, le alleanze militari e le vendite di armi sono solo alcune delle ragioni di un fenomeno che appare inarrestabile se si pensa agli efetti deleteri causati dal sovrappopolamento, dall’inquinamento, dalle diseguaglianze sociali e dalle limitazioni alla libertà da cui scappano ogni anno migliaia di cittadini cinesi. Una recente ricerca di una società di consulenza svizzera condotta su 353 dirigenti di varie nazionalità sulle ragioni dell’espansione cinese in Africa evidenzia, senza sorprese, che l’accesso alle risorse naturali è la causa principale delle scelte cinesi sul continente africano Foto: J. Larkin - Panos / Luz (78 per cento), seguita dall’entrata in nuovi mercati per trasferire l’enorme surplus di manufatti a basso costo (15 per cento). L’ultima delle motivazioni è il trasferimento di centinaia di milioni di contadini senza lavoro che battono alle porte delle metropoli cinesi per partecipare alla grande crescita in cui è coinvolto il paese da decenni, ragione sottovalutata che cela invece i grandi rischi che corre il potere di Pechino. Gli investimenti cinesi in Africa non sembrano arrestarsi. Nel dicembre 2015 il presidente Xi Jinping prometteva agli stati africani 60 miliardi di dollari in prestiti e aiuti, ossia nuove opportunità di emigrazione per i cinesi. Nel 2011 il Parlamento cinese discuteva una proposta di trasferimento di 100 milioni di cinesi in Africa. Nello stesso periodo, secondo alcune fonti, funzionari di Pechino elaboravano un piano per inviare nel continente africano 300 milioni di persone per risolvere gli enormi problemi di sovrappopolamento e inquinamento del paese e allo stesso tempo per trasformare l’Africa in una neo-colonia del XXI secolo. I primi immigrati cinesi storicamente documentati arrivano in Sudafrica con la Compagnia olandese delle Indie Orientali verso la ine del ’600. Un manipolo di detenuti e schiavi giunge in quelle colonie nella prima metà XIX secolo seguito da un piccolo numero di lavoratori e artigiani. Prima una rapida crescita. Poi, negli ultimi tre anni, l’esplosione. Questo l’andamento dell’espansione economica cinese nel mondo. L’Africa è il terzo Paese di destinazione degli investimenti di Pechino dopo Asia e Europa. E, a stare ai dati del Brookings Institute, nel mondo è la Nigeria, il serbatoio petrolifero africano, il Paese che riceve il maggior numero di risorse cinesi: cinque di quei 60 miliardi che la Cina si impegnò a investire in diverse forme nel 2015 e che ha rinnovato quest’anno per altri tre anni. Ma con l’aumento dei progetti infrastrutturali sono schizzati in alto anche i debiti contratti dagli africani verso la Cina, legandone indissolubilmente l’avvenire. Se il debito keniota è aumentato di dieci volte in cinque anni quello dell’Angola è addirittura per oltre il 50 per cento in mano cinese. Un modello di sviluppo economico e di espansione globale talmente consolidato che è ormai noto sotto il nome di “trappola del debito”. E mentre gli stessi Stati Uniti hanno consegnato il venti percento del loro debito estero nelle mani di Pechino (1.180 miliardi di dollari) prima che Donald Trump optasse per una drastica politica di riequilibrio degli interscambi a costo di scatenare una guerra mondiale del commercio, nella trappola del debito è già scivolata una buona parte degli oltre 80 Paesi che partecipano alla Bri, l’iniziativa “Belt and Road”. Questo piano cinese di investimenti infrastrutturali lanciato nel 2016 mira a connettere isicamente ed economicamente una serie di Paesi che si trovano lungo un duplice asse terrestre e marittimo che da Pechino di Federica Bianchi Così si sono comprati il futuro Zambia, un capo cinese controlla due suoi dipendenti Le moderne migrazioni cinesi in Africa fondano le loro radici nella politica internazionale di Mao Zedong degli anni Cinquanta con uno scopo puramente politico, ossia promuovere la solidarietà anticoloniale e postcoloniale con i paesi africani di recente indipendenza. Ma Mao è storia e le odierne tendenze migratorie cinesi verso l’Africa sono legate alla liberalizzazione dell’emigrazione nel 1985 mirano alla ricerca del proitto e non più alla difusione di valori di “fratellanza e solidarietà”. Si tratta perlopiù di migranti provenienti dalla provincia dello Zhejiang - gli stessi che popolano via Paolo Sarpi a Milano, l’Esquilino a Roma e il distretto tessile di Prato - piccoli imprenditori e commercianti che in Africa stabiliscono attività nel commercio al dettaglio di beni prodotti in Cina con pochi capitali e con buoni collegamenti con produttori in Cina grazie ai quali riescono ad aprire centinaia di piccoli negozi, identici l’uno all’altro, dove si vendono manufatti a basso costo, dall’abbigliamento ai piccoli elettrodomestici, dai giocattoli alle biciclette, che in alcuni casi si trasformano in grossi centri all’ingrosso come a Johannesburg e Yaoundé.
La crescita delle comunità commerciali cinesi in Africa crea una domanda di lavoro che richiede e incoraggia altra migrazione dalla Cina, molta della quale entra illegalmente in territorio africano approittando della corruzione e dell’ineicacia delle agenzie responsabili del controllo delle frontiere e delle immigrazioni, motivi che lasciano pensare che quel milione di cinesi in Africa sia una cifra largamente sottostimata. L’atteggiamento delle popolazioni locali è spesso sospettoso, negativo, nei confronti dei cinesi, deiniti come “predatori” e “neocolonialisti” . A complicare la questione, è l’isolamento e la natura chiusa delle comunità e degli immigrati cinesi rispetto alle popolazioni ospitanti che portano la popolazione locale a credere che si tratti di schiavi o prigionieri trasferiti dalla Cina oppure di agenti del Partito comunista cinese. Anche i rapporti diplomatici tra gli stati africani e il governo cinese svolgono un ruolo importante, poiché mentre i rapporti bilaterali possono essere buoni, gli stretti legami con un particolare governo possono essere visti negativamente dall’opposizione politica e da una parte dei suoi cittadini. È il caso dello Zimbabwe, dove Pechino si è sempre schierata per l’ex dittatore Mugabe nonostante le sanzioni internazionali per l’espropriazione violenta e senza indennizzi di buona parte delle tenute degli agricoltori bianchi. È il caso del Sudan dove la Cina minaccia di veto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per bloccare l’adozione di sanzioni politiche per fermare una guerra civile che dura da 40 anni e che porta il paese nella più grave crisi umanitaria del pianeta. O della Guinea, dove il feroce dittatore Camara lancia una campagna di stupri e massacri contro cui le Nazioni Unite chiedono un’azione mentre il China International Fund irma un accordo di 7 miliardi di dollari con il dittatore. Eppure, la Cina non si occupa solo di dittatori e despoti africani. Il dragone è capace di dialogare anche con economie democratiche e in condizioni economiche relativamente buone come il Botswana, il Sudafrica e Mauritius, per cui è evidente che non sussiste una questione morale o politica inché ci sono prospettive di proitto e tornaconto. Gli sviluppi demograici dei paesi africani e della Cina si muovono in direzioni opposte. L’Africa è un continente giovane con metà della popolazione sotto i 20 anni che entra gradualmente nella forza lavoro. La fertilità è elevata e la mortalità infantile è diminuita grazie alla difusione di migliori servizi sanitari e all’istruzione che oggi raggiungono vasti strati della popolazione. La tendenza demograica della Cina risulta oggi molto diversa: solo il 20 per cento della popolazione cinese ha meno di 19 anni. Il calo delle nascite è attribuibile alle note ragioni che hanno innescato lo stesso processo nei paesi industrializzali: l’istruzione, il controllo delle nascite e l’urbanizzazione. Da anni la Cina gode di una fonte inesauribile di manodopera in tanto che i salari si mantengono bassi per l’enorme disponibilità di contadini e lavoratori a basso costo delle aree rurali, ma l’inversione di tendenza è palese e mette in crisi le stesse aziende. Le imprese cinesi, infatti, sono prossime al giro di boa della competitività e iniziano a perdere terreno nei confronti di altre economie emergenti, così come accaduto nel passato ad altre econo mie asiatiche come il Giappone. Oltre all’invecchiamento della popolazione e la minore disponibilità di forza lavoro a basso costo, i fattori che spingono le aziende cinesi a migrare verso lidi migliori sono tanti e diversi: dal 2001 il costo della manodopera nelle imprese manifatturiere è aumentato del 12 per cento annuo, un incremento letteralmente vertiginoso, il costo dell’elettricità subisce un andamento analogo nel periodo 2004-2014 crescendo del 66 per cento, come pure il gas naturale che raddoppia al 138 per cento. Ai fattori puramente economici se ne aggiunge uno di primaria importanza, sebbene poco considerato, ovvero la nascita di una giovane classe imprenditrice che comprende le dinamiche internazionali e sa guidare un’impresa. Le ragioni della migrazione cinese in Africa non sono necessariamente coordinate da un unico regista, seppure autoritario e dirigista. È lecito supporre che migliaia di cittadini cinesi scappino dal proprio paese per sfuggire agli effetti
deleteri causati dal sovrappopolamento, dall’inquinamento, dalle diseguaglianze sociali e dalle limitazioni alla libertà, fenomeno migratorio che non deve dispiacere il governo di Pechino che si ritrova così meno bocche da sfamare, meno famiglie da strappare dalla povertà, meno rischi di rivolte, e inine un’economia più sostenibile e più patrocinabile. La necessità delle aziende cinesi di delocalizzare i propri impianti produttivi a causa degli aumenti dei costi di produzione prossimi ai livelli medi dei paesi industrializzati può trovare soddisfazione in Africa, purché le istituzioni africane riescano a creare condizioni appropriate per trasformare i due miliardi di africani attesi nel 2050 nel più grande mercato del pianeta e, parallelamente, a incentivare le imprese cinesi in Africa a frenare il lusso migratorio dalla Cina e a impiegare le competenze locali per sradicare dal continente la povertà. La Cina svolge un ruolo ragguardevole nel percorso di sviluppo dei paesi africani e non c’è dubbio che la sua inluenza sul continente continui a crescere parallelamente all’aumento dei flussi commerciali e degli aiuti economici imponendo a migranti di stabilirsi permanentemente sul continente. Nessuno può escludere che l’invasione cinese dell’Europa possa realizzarsi dalle coste dell’Africa mediterranea e non più dalla già dissestata “nuova Via della seta”.






Il treno del Dragone corre in Kenya
di Ffrancesca Caruso


I n Swahili «chemchem» vuol dire «appare e scompare». E il lago Chemchem un anno c’è e un anno non c’è. Dipende dalle piogge. È in pieno bush, a venti chilometri da Malindi, la città costiera del Kenya che ino a qualche anno fa era una delle mete preferite di turisti e pensionati italiani. Vicino al lago c’è un villaggio dove in trent’anni non è cambiato quasi nulla nonostante siano arrivati cellulari, «Father Rolando», un missionario cattolico del Guatemala, e i cinesi. Che in Africa vuol dire strade asfaltate, ferrovie e porti. E infatti anche qui, al lago Chemchem, Cina vuol dire velocità. Due anni fa, la strada principale che collega il lago a Malindi è stata asfaltata. «God bless Pechino», verrebbe da dire ogni volta che si percorre: ora per fare quindici chilometri ci vogliono nove minuti, prima ce ne volevano anche quaranta. E per andare da un villaggio all’altro i locali salgono su un bodaboda, una delle migliaia di motociclette importate insieme a cibo, cemento e stuzzicadenti. Ma a parte la velocità, l’arrivo del dragone non ha minimamente migliorato la vita dei kenioti. Anzi, per alcuni è anche peggiorata. Al Chemchem, per esempio, le case sono ancora di fango e paglia. I bambini hanno i vestiti strappati e non hanno scarpe. Le donne vanno a prendere l’acqua ai pozzi e di notte il villaggio è illuminato dalla luna, dalle stelle e da qualche lampada a petrolio. «Ma il prezzo del cherosene è diventato talmente alto che non riusciamo quasi più a comprarlo», racconta Steven, un uomo di cinquant’anni con sette igli, una moglie e uno stipendio da cuoco di cinquanta euro al mese. È uno dei più ricchi del villaggio, «ma oggi non riesco quasi più a comprare i beni di prima necessità. Zucchero, farina, carne. I prezzi sono saliti alle stelle e noi così non ce la facciamo. Il governo ci deve tutelare». Ma il governo di Uhuru Kenyatta invece fa orecchie da mercante e continua a irmare accordi milionari con Pechino per la realizzazione di progetti infrastrutturali faraonici che spesso perdono la loro utilità in corso d’opera mentre il debito pubblico keniano non fa che crescere. Le ultime cifre fanno paura: il debito pubblico è arrivato a 50 miliardi di dollari, quasi pari al prodotto interno lordo del Paese. E ormai quando in Kenya si parla di debito non si può non parlare di Cina. È il terzo Paese africano più indebitato con il Paese asiatico: nel 2017, secondo un documento del ministero del Tesoro consegnato al Business Daily, il 72 percento del debito bilaterale del Paese era nelle mani di Pechino. Un’enormità se si pensa che nel 2016, questo debito corrispondeva al 57 per cento. «È una sciagura. Finiremo come lo Sri Lanka che a un certo punto ha dovuto cedere i suoi porti», dice allarmato l’analista keniota Kizito Mokua mentre spiega che a causa del debito quest’anno l’Iva sui prodotti petroliferi – e su tutto ciò che ne consegue, come il cibo – è aumentata dell’8 percento. I primi cinesi sono arrivati in Kenya quindici anni fa con il Presidente Kibaki ma il vero promotore delle relazioni con Pechino è stato Kenyatta. Nel 2013, appena eletto Presidente, è andato a Pechino dove ha ottenuto il primo prestito: 5 miliardi di dollari per progetti energetici e infrastrutturali come la ferrovia che collegava il porto di Mombasa, uno dei più grandi dell’Africa Occidentale a Malaba, cittadina keniota al conine con l’Uganda. Negli anni questi investimenti sono triplicati e, per certi versi hanno anche modernizzato il Paese. Le stazioni della nuova ferrovia che collega Nairobi con Mombasa, la Standard Guage Railway, sembrano stazioni del canton Ticino: gabbiotti immacolati bianco avorio con tetti di tegole rosse o blu. E il viaggio dura 4 ore rispetto alle dieci ore di una volta. «Solo che tutto questo durerà poco, perché i lavori di compattamento del terreno sono stati fatti malissimo. In un paio d’anni le rotaie inizieranno ad alzarsi e il treno dovrà rallentare», spiega Nick Russell, un ingegnere keniota che ha lavorato sei anni nel settore delle infrastrutture. «Il problema della Cina è che quando viene in Africa si comporta all’africana: corrompono politici e impiegati. E il risultato di questo lo si vede anche nella qualità di quello che costruiscono». Se c’è chi dice che il Kenya sta diventando una specie di piccola colonia cinese, è anche vero che i cinesi sono pochissimi. Il numero esatto non si conosce: si passa dai 1500 dell’uicio di statistiche keniano ai 10mila dei giornali. Ma che siano 1500 o 10000, su una popolazione di 50 milioni di abitanti, si tratta sempre di cifre irrisorie. E infatti in Kenya, più che vederla, la presenza della Cina la percepisci. A Nairobi ti capita di percorrere una strada e di notare un grattacielo che non avevi mai visto: poi guardi l’insegna di costruzioni e vedi che è cinese. Quando, per fare un altro esempio, ti metti in coda per rinnovare la patente di guida, ti accorgi che sulla scrivania dell’impiegato ci sono molte patenti cinesi, ma in ila non c’è nemmeno un cinese. Mandano qualche intermediario. E infatti qui, a diferenza di New York o Londra, China Town non esiste. Gli unici cinesi che vedi sono in aeroporto o sul ciglio della
strada con tanto di cappellino a cono di paglia e tuta da lavoro, mentre seguono i lavori. A Nairobi, lo vedi anche al casinò la domenica pomeriggio ma per il resto, i cittadini del celeste impero vanno nei loro supermercati e nei loro ristoranti. Insomma loro non si mescolano, come vuole la tradizione, e i keniani non li amano. E per rendere l’integrazione ancor più diicile i giornali fanno la loro parte: ogni settimana pubblicano uno scandalo che li rende agli occhi dei locali corrotti e spietati. Uno degli ultimi scandali è scoppiato quando i giornali hanno pubblicato un video dove si vede un ingegnere cinese che dice al suo operaio locale che è una «scimmia, come tutti i tuoi concittadini e Kenyatta» e che è in Kenya «solo per fare soldi». Tanto che ormai alcuni keniani, come l’analista Kizito Mokua, arriva a rimpiangere la presenza degli europei. Che di danni però non ne hanno




Così si sono comprati il futuro
di Federica Bianchi


Prima una rapida crescita. Poi, negli ultimi tre anni, l’esplosione. Questo l’andamento dell’espansione economica cinese nel mondo. L’Africa è il terzo Paese di destinazione degli investimenti di Pechino dopo Asia e Europa. E, a stare ai dati del Brookings Institute, nel mondo è la Nigeria, il serbatoio petrolifero africano, il Paese che riceve il maggior numero di risorse cinesi: cinque di quei 60 miliardi che la Cina si impegnò a investire in diverse forme nel 2015 e che ha rinnovato quest’anno per altri tre anni. Ma con l’aumento dei progetti infrastrutturali sono schizzati in alto anche i debiti contratti dagli africani verso la Cina, legandone indissolubilmente l’avvenire. Se il debito keniota è aumentato di dieci volte in cinque anni quello dell’Angola è addirittura per oltre il 50 per cento in mano cinese. Un modello di sviluppo economico e di espansione globale talmente consolidato che è ormai noto sotto il nome di “trappola del debito”. E mentre gli stessi Stati Uniti hanno consegnato il venti percento del loro debito estero nelle mani di Pechino (1.180 miliardi di dollari) prima che Donald Trump optasse per una drastica politica di riequilibrio degli interscambi a costo di scatenare una guerra mondiale del commercio, nella trappola del debito è già scivolata una buona parte degli oltre 80 Paesi che partecipano alla Bri, l’iniziativa “Belt and Road”. Questo piano cinese di investimenti infrastrutturali lanciato nel 2016 mira a connettere fisicamente ed economicamente una serie di Paesi che si trovano lungo un duplice asse terrestre e marittimo che da Pechino porta in Europa passando per l’Asia centrale, l’Africa occidentale, la Grecia, ino ad arrivare a Venezia. L’obiettivo dichiarato dallo stesso presidente Xi Jinping - in una celebre vignetta del sudafricano Zapiro, ritratto mentre spinge un carrello della spesa con dentro il continente africano sotto la dicitura “Takeaway cinese” - è un nuovo modello di governo economico globale che lentamente sostituisca il crescente isolazionismo americano. I cinesi detengono oggi quote proprietarie nei due terzi dei 50 principali porti commerciali mondiali; le banche di Pechino hanno finanziato più centrali elettriche di qualsiasi altro Paese e le sue società di telecomunicazioni stanno costruendo una fitta “strada digitale della seta” composta da una rete di satelliti connessi a una ragnatela di cavi ottici terrestri. Sono già otto i Paesi del network Bri che hanno un problema di insostenibilità del debito: oltre allo stato di Gibuti, il cui debito è passato dal 50 all’85 per cento in due anni, il Kirghizistan, il Tagikistan, il Laos, le Maldive, la Mongolia, il Montenegro e il Pakistan. Recentemente però non tutti i progetti stanno andando nella direzione auspicata da Pechino. Con il cambio di governo nei regimi democratici molti investimenti faraonici considerati inutili e dannosi cominciano ad essere cancellati. Pioniera è stata la Malesia che ha rinunciato pubblicamente a quei 20 miliardi cinesi siglati dal primo ministro precedente, cacciato nelle urne. Ora ci sta provando il nuovo governo pakistano di Imran Khan. Anche l’Europa, target privilegiato dello shopping aziendale cinese, ha deciso, seppur in ritardo, di muoversi, allarmata dalla “piattaforma di cooperazione 16+1”, lanciata da Pechino a luglio in Bulgaria. Si tratta di un piano di cooperazione economica tra 16 paesi dell’Europa orientale - i 9 dell’Unione, i 5 dei Balcani più Macedonia e Albania - che rischia di spaccare in due l’Europa lungo la sua faglia più debole. L’Alto rappresentante Federica Mogherini ha risposto il mese scorso con una contro iniziativa che offre investimenti, stavolta economicamente sostenibili e non dannosi all’ambiente, a un Continente, quello asiatico, bisogno di 1300 miliardi in infrastrutture all’anno. Resta da vedere se si tratta di una timida mossa difensiva o l’inizio di un vero contrattacco.

l’espresso 7.10.18
Nuovo capitalismo cercasi
Automazione. Welfare. Job sharing. Un grande sociologo riflette su quel che resta della teoria economica, dell’idea di progresso. E del lavoro
colloquio con Richard Sennett
di Wlodek Goldkorn


Qual è il futuro del capitalismo? Come cambia la natura del lavoro e quindi l’idea che abbiamo di noi stessi? E il progresso ha un avvenire o fa parte delle categorie obsolete del passato? Sono temi che in questa conversazione affronta Richard Sennett. Sennett è uno dei pensatori più originali e più influenti oggi nel mondo. Sociologo, autore di saggi fondamentali (il più recente: “Costruire e abitare. Etica per la città”; indispensabile: “L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale”; bellissimo: “Lo straniero. Due saggi sull’esilio”), a settantacinque anni continua a insegnare e a spostarsi tra Londra e New York. L’occasione del colloquio è la sua partecipazione al ciclo delle conferenze della Fondazione Feltrinelli, “Stagione Capitale”.
Nei decenni dominati dal pensiero e da politiche socialdemocratiche abbiamo creduto che il capitalismo fosse legato al progresso, al benessere, alle regole condivise anche tra gli avversari. Oggi, il benessere viene meno, idem il progresso e le regole non sono condivise. Cosa è successo al capitalismo?
«Sono questioni diverse. Alcune riguardano la redistribuzione del reddito. Ma a me interessa il tema strutturale: l’automazione e le sue conseguenze sulla forza lavoro. Parto da una constatazione elementare: la sostituzione dell’uomo con le macchine, una volta, era un processo parziale. E sa perché? Perché spesso il lavoro umano costava meno dell’acquisto di una macchina. Oggi, costruire una macchina che funziona a base di un algoritmo costa meno che impiegare un uomo o una donna. Abbiamo a che fare con macchine che non sono più replicanti delle nostre funzioni ma sono molto più potenti della nostra mente. È un cambiamento radicale che non riguarda più solo il lavoro manuale, ma pure quello dei colletti bianchi. La loro percentuale scenderà del venti per cento. Ci sono politici che parlano della minaccia che gli immigrati rappresentano per chi ha un lavoro, ma quella presunta minaccia è poco o niente rispetto alla minaccia costituita dalle “macchine immigrate” ».
Sta dicendo che la classe media non ha futuro?
«Ci sarà un futuro, ma differente. Niente più carriera intesa come lavoro stabile a tempo pieno. La sfida è quindi ridefinire il lavoro e la borghesia. La borghesia era un elemento di stabilità, ma non è più così. I miei studenti, una volta laureati, non hanno davanti una carriera e non l’avrebbero avuta neanche in un’ipotetica società socialista e non più capitalista. Certo, non possiamo abolire le macchine. Ma dobbiamo ripensare tutto, introdurre quello che io chiamo “job sharing”, la condivisione dei posti di lavoro; ridefinire il welfare in modo che la gente abbia reddito e diritti sociali anche quando non lavora; riflettere su un concetto come introito base. I soldi per farlo ci sono, perfino in Italia».
Il reddito di cittadinanza, come vogliono i Cinque stelle?
«È un’idea non nuova e che trae le sue origini nel pensiero di Rudi Supek (sociologo jugoslavo, legato a Praxis, una rivista e un gruppo di studiosi marxisti eterodossi negli anni Sessanta e Settanta, ndr). Però non lo si può introdurre aumentando il debito pubblico. Si tratta invece di riconfigurare il capitalismo e il suo sistema di lavoro. Comunque è interessante il modello delle piccole-medie aziende in Italia del Nord: ditte familiari, dove i posti di lavoro sono in pratica condivisi, così come viene erogato un reddito nei periodi in cui non c’è lavoro. Il problema è che non si sa come applicare un simile modello alle grandi aziende, alle multinazionali.
Ecco perché dico che dobbiamo ripensare tutto alla luce dell’automazione».
Resta un fatto, oggi con un numero limitato di click sul computer si può guadagnare in una giornata più denaro di quanto accumulavano tre generazioni di capitalisti come li descriveva Max Weber. Questo significa però che esiste solo il presente, che tutto è istantaneo. L’astrazione, il computer e la Borsa hanno pure abolito il tempo degli umani?
«È vero che la finanza è un’astrazione, si occupa solo del presente, dell’istantaneo e non possiamo farci niente. Ma la finanza non è economia reale. E neanche loro, gli uomini e le donne della finanza, possono farci molto. Mettiamo che lei ha guadagnato decine di miliardi in pochi giorni. Poi che ci fa, con quei soldi? Quel denaro sta in banca e basta».
Può generare altro denaro.
«Appunto. Si cerca di convincere la gente che le transazioni finanziarie siano la stessa cosa dell’economia reale. C’è una specie di egemonia esercitata dai banchieri, loro davvero vivono solo nel presente, nell’istantaneo. Ma l’economia reale significa azione, per cui il tempo non è stato abolito».
A proposito dell’avvenire, parlava prima dei giovani...
«Sottoposti al regime di flessibilità, la loro esperienza è quella di un’oppressione seriale e che si rinnova ogni trimestre, quando sono costretti a cambiare lavoro. Così, la loro visione di se stessi ne subisce danno; il lavoro non significa più crescita personale. Ecco perché negli States e in Gran Bretagna i giovani si orientano sempre di più verso la sinistra radicale».
Però aumentano anche razzismo e xenofobia e si è perso il senso del pudore, nel linguaggio.
«Non sono le vittime del capitalismo a diventare razziste. Storicamente il proletariato ha sempre resistito ai razzisti e xenofobi. Sono razziste invece molte persone che non hanno avuto alcuna esperienza, alcun incontro con l’Altro, con lo straniero. Sono loro a pronunciare le frasi xenofobe. Guardi Donald Trump. Si diceva che la sua base erano i perdenti. Ma non è vero. I lavoratori resistono a Trump. Chi lo appoggia sono invece coloro che vivono di fantasie. Ma anche in Germania e in Europa è così. Per esempio, l’islamofobia non nasce dal fatto che il mio vicino di casa era un terrorista musulmano ma perché non ho mai visto un musulmano».
Lei è esperto delle città, da 35 anni consulente dell’Onu in materia. Le metropoli, le città erano luoghi di flâneur, come le raccontavano Baudelaire o Benjamin, spazi di incontri imprevisti, di passeggiate senza scopo, di stupore e creatività. Oggi, sono invece costituite di spazi ben delimitati, ognuno dedicato ad attività specifiche e separate. E le misure antiterrorismo rendono tutto più controllato e segregato.
«È così. Ma io nel mio libro (“Costruire e abitare. Etica per la città”) mi chiedo come creare ambienti complessi attraverso interventi urbanistici e architettonici. In questo può esserci d’aiuto l’automazione. Le racconto una cosa. Spesso vado a Milano alla Bicocca, all’Università. È un ambiente sterile, senza vita. Ecco, questa è una delle cose che non dobbiamo fare più. Dobbiamo cercare soluzioni pratiche perché la gente si abitui che in un solo luogo possano svolgersi molte funzioni differenti, cambiare i modi di vita delle persone, costruendo spazi concreti. Mi rendo conto che la mia è solo una risposta a metà, ma una mezza risposta è spesso meglio di un’intera risposta». Una intera risposta porta al totalitarismo. Una volta la bellezza delle città d’Italia non erano solo e non tanto i musei e le chiese, ma il tessuto urbano; gli artigiani, le botteghe, i piccoli negozi. Non ci sono più. E allora che fare?
«Non si può far risorgere gli artigiani di una volta. Ma si può aiutare a creare un nuovo tipo di artigianato. Conosco gli artigiani del vetro nel Veneto. È gente che ha un tale know how che potrebbe creare ricchezza non solo vendendo gli oggetti ai turisti, ma su una scala molto più ampia. Quella gente va sostenuta. Dobbiamo capire che l’artigianato non è più quello tradizionale, ma è un lavoro che sta cambiando natura. C’è artigianato legato alle tecnologie avveniristiche. Ma per strani motivi persiste l’idea sbagliatissima, di stampo romantico, per cui bellezza vuol dire tradizione, mentre modernità uguale funzionalità ».
Conclusione?
«Dobbiamo stare nel presente pensando al futuro. La sinistra non può sprecare il suo tempo a parlare del passato e questo riguarda anche il tema dei migranti discusso ancora in termini del Novecento. Aggiungo, non mi aspetto niente dai politici. È la società civile, la sfera pubblica di cui parlava Hannah Arendt, la mia speranza».



l’espresso 7.10.18
Disegno, penso, resisto
La libertà che non c’è. La censura più attenta che mai. L’amore per il suo Paese, l’Egitto. La più famosa vignettista araba si racconta
colloquio con Dooa el-Adl
di Gigi Riva


Ora in Egitto c’è più censura che al tempo di Hosni Mubarak»... Dooa el-Adl, 39 anni, un leggero velo bianco sui capelli, gli occhi carbone mobilissimi, la parlata sicura di chi ha imparato a convivere con la paura, non arretra, non si lascia intimidire. Certo, lo vedremo, deve cedere a qualche compromesso. La più famosa vignettista del Cairo è passata dall’Italia di recente perché ospite del Festival letterario “Lectorinfabula” di Conversano (Bari). Una toccata e fuga, con il desiderio di tornare presto a casa, perché è là la sua battaglia. Non avrebbe difficoltà a continuarla all’estero, visti i riconoscimenti che piovono nel suo curriculum, compreso quello della Bbc che l’ha inserita nel 2016 tra le cento donne più influenti del mondo. In patria è stata sì premiata come “best cartoonist” nel 2009 e nel 2013 dai giornalisti suoi colleghi, ma è stata anche trascinata nei tribunali da un potere “disturbato” dalle sue tavole pubblicate sul giornale “Al Masry al-Youm”. Nel 2013 fu accusata di blasfemia su denuncia di Khaled el Masry, segretario generale del Fronte salafita. Aveva ritratto un angelo andato ad informare Adamo ed Eva che sarebbero potuti restare nel paradiso terrestre se alle elezioni avessero votato per il candidato “giusto”.
«Volevo semplicemente criticare i politici che usano la religione per dominare e influenzare il popolo». Nello stesso anno il procuratore generale Talaat Abdallah l’aveva incriminata per un motivo simile, i sui ripetuti attacchi agli islamisti e alla loro invasione di campo nella sfera pubblica. Il colpo di stato mi litare del generale Abdel Fattah al-Sisi, la rimozione del presidente dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi e la conseguente amnistia fecero cadere le imputazioni. Non le pressioni sulla stampa, nel frattempo, come abbiamo visto, addirittura aumentate. Fino a quel paragone lapidario per cui oggi è peggio di sempre. Dooa al-Adl e lei, in questa situazione, come riesce a difendersi nel suo lavoro?
«Come posso. I media sono controllati dal governo o addirittura sono stati acquistati dal governo. Si può leggere e sentire una voce sola, quella del potere. Io per fare satira ho bisogno di informazioni su quello che succede. E non ne ho perché non ci sono». Quando le reperisce, magari sulla stampa internazionale, è costretta talvolta ad autocensurarsi?
«Purtroppo accade soprattutto se c’è di mezzo il presidente, che non si può disegnare, o i suoi decreti nel campo dell’economia, settore delicato perché tocca il portafoglio delle persone. E allora bisogna armarsi di pazienza».
In che senso?
«Aspettare, annusare l’aria, capire leggendo i media del regime quando la tensione si è alleggerita e dunque si può osare. Non c’è una mappa chiara, non ci sono confini certi, ogni giorno si cerca di interpretare quale sia la linea rossa».
Con Mohammed Morsi, però, il potere la minacciò direttamente.
«Morsi per fortuna è durato poco. Se fosse rimasto per molto probabilmente le cose sarebbero precipitate. Per questo sostengo che, per la mia esperienza personale, ora è peggio di sempre. In deinitiva la domanda da porsi è: peggio il fascismo militare o quello religioso?».
Risponda lei.
«Sono entrambi orrendi. Ma quello religioso è più spaventoso. Anche perché alcuni tabù del fascismo religioso hanno prodotto effetti nefasti come la carneficina di Charlie-Hebdo o la persecuzione dei vignettisti che hanno ritratto Maometto. L’argomento religioso parla alla parte emotiva delle persone, prevale sulla logica, dunque è una minaccia più grande perché imprevedibile».
Lei disegnerebbe mai Maometto?
«Sono musulmana, so chi è Maometto. Non ho nessun bisogno di disegnarlo, il rapporto tra me e lui è spirituale. Ma se qualcuno lo vuole ritrarre deve essere assolutamente libero di farlo. Non ci possono essere limiti».
Lei sembra rimpiangere i tempi passati, l’epoca del Faraone Hosni Mubarak. È anche il segno di come la primavera araba del 2011, la rivoluzione, sia stata poi nei fatti tradita.
«Con Mubarak non c’era la libertà assoluta, ma c’era un certo grado di libertà. Durante la rivoluzione abbiamo assaporato la libertà quasi assoluta, è stato magnifico, liberatorio. Per questo passare alla strozzatura, al soffocamento successivo, è stato ed è difficile. Quando si è assaporato il meglio è più complicato tornare indietro».
Non ha mai avuto la tentazione di emigrare, scegliere l’estero perché la sua matita non debba subire bavagli?
«Preferisco morire in Egitto che vivere come immigrata illegale in Europa».
Ma lei non lo sarebbe, la accoglierebbero come rifugiata e avrebbe già un lavoro.
«No. L’Egitto ha bisogno di me, di tutti i suoi figli. Amo il mio Paese, ha una storia lunga che può tornare ad essere una bella storia se tutti ci impegniamo. Non sarà così per sempre. E poi non voglio lasciare la famiglia, la casa. Altrove potrei magari essere libera ma sarei comunque prigioniera della memoria di un altro posto, cioè del mio Egitto. Spero di non dovermi mai trovare nella condizione di dovermene andare».
Lei ha sostenuto che la satira è obbligata ad essere più onesta della parola scritta. Dunque ha più responsabilità perché è più immediata. Ce ne spiega il motivo?
«Quando si fa letteratura c’è, per forza, molto dell’esperienza personale dell’autore. La satira invece usa per sua natura lo spazio pubblico. Per questo chiede più responsabilità ed attenzione».
E aiuta a cambiare le cose?
«La satira aiuta a cambiare le cose, a favorire il progresso. Ma da sola non basta. Io comunque ho smesso di pensare ai risultati di quello che faccio. Mi sveglio al mattino e cerco, ogni giorno, di disegnare con la stessa passione e lo stesso impegno di sempre». Il fatto di essere donna la espone a ritorsioni maggiori rispetto ai suoi colleghi maschi?
«No. Lavoro con altri cartoonist. E tutti dobbiamo affrontare i medesimi pericoli, non c’è differenza tra di noi».
Ma nella società araba la donna non ha gli stessi diritti degli uomini.
«Lei pensa che sia così solo da noi? Seguo le notizie e vedo che in tutti i luoghi le donne hanno dei problemi. Da voi ci sono i femminicidi, le violenze. La situazione della donna è complicata ovunque, talvolta per motivi simili, talvolta diversi».
Lei ha fatto alcune vignette su Giulio Regeni, il ragazzo italiano massacrato, si sospetta, dal regime. Ma non si è arrivati a una verità giudiziaria. Se ne occuperà ancora?
«Se e quando ci saranno sviluppi certamente. Non è ancora chiaro cosa sia successo. È uno di quei casi in cui mancano reali informazioni ed è impossibile attribuire colpe precise». Tuttavia basta fare un giro in Internet per trovare indizi, prove sufficienti a definire un quadro.
«Se mi baso sulla Rete, su quanto si scrive fuori dall’Egitto, mi accusano immediatamente di intelligenza col nemico, di collaborazionismo con gli stranieri...».
Lei si occupa di Palestina, anche di questioni globali come Usa-Nord Corea. E molto della crisi economica. La crisi è oggi un problema maggiore del fondamentalismo religioso nel suo Paese. «Naturalmente no. In questo momento tuttavia per noi vignettisti è più pericoloso parlare di crisi economica che di integralismo religioso. Se attacchiamo i fondamentalisti, il governo è contento».


ALCUNI SETTIMANALI

7.10.18
Per uscire dal buio
Decalogo

Noi e tu
di Massimo Cacciari

Popolo
di Giuseppe Genna

Classe (lotta di)
di Emiliano Brancaccio

Accogliere
di Evelina Santangelo

Lavoro
di Aboubakar Soumahoro

Differenza
di Michela Murgia

Imparare
di Valeria Parrella
Europa
di Roberto Castaldi

Prima l’italiano
di Chiara Valerio

Tutti
di Francesca Mannocchi

l’espresso 7.10.18
Una vergogna chiamata Pillon
Il disegno di legge sull’affido dei figli si accanisce sui più deboli: i bambini e le donne. Riservando privilegi ai benestanti
di Stefania Pellegrini

l’espresso 7.10.18
Spese militari, i grillini si sono distratti
Di Alessandro Giulioli

l’espresso 7.10.18 (foto allegata)
Così in cinese si scrive Africa.
Dove Pechino estrae materie prime, compra enormi terre ed esporta milioni di contadini. Puntando a farne il suo cortile
Di Angelo Ricchiello

Il treno del Dragone corre in Kenya
di Ffrancesca Caruso

Così si sono comprati il futuro
di Federica Bianchi

l’espresso 7.10.18
Nuovo capitalismo cercasi
Automazione. Welfare. Job sharing. Un grande sociologo riflette su quel che resta della teoria economica, dell’idea di progresso. E del lavoro
colloquio con Richard Sennett
di Wlodek Goldkorn

l’espresso 7.10.18
Disegno, penso, resisto
La libertà che non c’è. La censura più attenta che mai. L’amore per il suo Paese, l’Egitto. La più famosa vignettista araba si racconta
colloquio con Dooa el-Adl
di Gigi Riva