l’espresso 30.9.18
Manifesto di un’ ideologia feroce
Il
decreto Salvini nega diritti sanciti dalla Costituzione. E opera
discriminazioni fra i cittadini come mai era accaduto nella storia della
Repubblica
Di Marco Damilano
Quando il 5 agosto
1938 cominciarono le pubblicazioni del quindicinale La difesa della
razza, diretto da Telesio Interlandi, prototipo del giornalista
fascista, con la pubblicazione del manifesto firmato da dieci
scienziati, l’appoggio della stampa alla politica razziale del Duce fu
«più del solito servilmente schifosa», appuntò sul suo diario Emilio Del
Bono, uno dei quadrumviri del regime. Il 2 e il 3 settembre furono
approvati i primi provvedimenti: il divieto per gli studenti ebrei di
frequentare le scuole pubbliche, per i bambini delle scuole elementari
l’istituzione di sezioni appositamente dedicate in classi con numero non
inferiore di dieci, la revoca della cittadinanza italiana per gli ebrei
stranieri che l’avevano ottenuta dopo il 1918. Per arrivare all’ultimo
decreto, il 17 novembre, che impediva agli ebrei di lavorare alle
dipendenze di enti pubblici. La vergogna più infame della storia del
diritto italiano, e anche della cultura e della ricerca scientifica: le
leggi razziali approvate dal fascismo ottant’anni fa. Se ripubblichiamo
quel manifesto ignobile firmato da luminari di peso in apertura
dell’Espresso, e le copertine del giornale di Interlandi nei servizi di
prima pagina, è perché di quella storia l’Italia ha perso memoria, al
punto che il leader della destra Gianfranco Fini (poi convertitosi alla
definizione di «fascismo male assoluto») per anni giocò sulle parole, su
«un errore che si era trasformato in orrore», e sulle leggi razziali
che in Italia hanno avuto «un’applicazione limitata». Premessa di una
grande rimozione nazionale, il campo di concentramento di Fossoli a due
passi da Carpi, una distesa di capannoni nel cuore dell’Emilia, oggi
restituito alla memoria ma per decenni dimenticato. E di nuovo, sono
state a lungo rimosse quelle parole orribili pronunciate da un capo di
governo italiano, Benito Mussolini, impegnato in quelle settimane, come
scrisse il suo biografo Renzo De Felice, nella svolta totalitaria, che
passava anche per la sostituzione del lei con il voi e per
l’introduzione del passo romano, «poderosi cazzotti nello stomaco» nel
sedicesimo anno del regime, mentre il cedimento di Francia e Inghilterra
nei confronti della Germania di Hitler alla conferenza di Monaco
anticipava l’inizio del conflitto mondiale dell’anno successivo. Bisogna
sempre stare attenti quando si maneggiano paragoni storici. Materiale
incandescente, pericoloso. Per di più in tempi di ignoranza e banalità
da social, in cui ogni politico avversario può essere trasformato,
all’occorrenza, in un nuovo Stalin o in un redivivo Hitler. Di questa
banalizzazione, e di una più preoccupante mancanza di categorie nuove
per definire i fenomeni inediti del XXI secolo, i primi a beneficiarne
sono proprio i leader messi in parallelo con il passato. Per prima cosa
perché, ben al riparo all’ombra della superficialità, possono
impunemente lasciarsi andare a ogni genere di remake verbale: i
sovranismi, i nazionalismi, la difesa del popolo, della nazione, se non
della razza, espressi in termini anti-storici. Salvo poi difendersi, in
caso di attacco, spiegando che con quel passato ripugnante loro non
c’entrano nulla e che semmai sono i loro critici a essere fuori dalla
storia. Facciamo un esempio: un giornale per così dire minore, nulla a
che fare con Telesio Interlandi, per carità, titola all’indomani della
presentazione del decreto sicurezza firmato dal ministro Matteo Salvini:
«Passa la stretta sugli immigrati. Salvini: “E adesso tocca ai Rom”».
Scivola così, nella rassegna stampa, come un titolo qualsiasi nel
mercato delle opinioni. E affermare che si tratta di un’affermazione
francamente di stampo fascista, perché si tratta di un sequenza
tragicamente già vista nella storia del Novecento, significherebbe
esporsi all’accusa di voler criminalizzare l’avversario. Come accadde
qualche settimana fa, quando una copertina dell’Espresso con il titolo
ripreso da Elio Vittorini, “Uomini e no”, fu equivocata al punto di
sostenere che la nostra intenzione fosse negare al ministro Salvini
l’appartenenza al genere umano. Ambizione eccessiva, in effetti. Salvini
è un uomo. E Salvini non è un fascista. Tutti d’accordo su questi due
punti, restano i fatti. Il primo provvedimento importante del governo in
materia di ordine pubblico, dopo la marea di parole estive, è un
decreto in cui i migranti finiscono trattati come un sottocapitolo della
questione sicurezza. Non è la prima volta che succede: nel 2008 il
centro-destra berlusconiano tornato al governo presentò subito un
pacchetto sicurezza, il ministro dell’Interno era un altro leghista,
Roberto Maroni. Quel provvedimento introduceva per i sindaci la
possibilità di avvalersi delle ronde dei cittadini per sorvegliare il
territorio, allontanamenti e espulsioni più facili, e soprattutto il
reato di immigrazione clandestina, su cui nel 2010 si è abbattuta la
scure della Corte costituzionale, «i parrucconi», così li chiamò
l’allora terza fila leghista Matteo Salvini. Una questione che ha diviso
in anni più recenti il Movimento 5 Stelle, quando la coppia Beppe
Grillo-Gianroberto Casaleggio intervenne per sconfessare un voto
parlamentare di M5S: «Se durante le elezioni politiche avessimo proposto
l’abolizione del reato di clandestinità, il M5S avrebbe ottenuto
percentuali da prefisso telefonico», scrissero i fondatori, poi
sconfessati dal voto degli iscritti alla Rete prima dell’associazione
Rousseau. Ma anche un tipo solitamente incline ad attaccare briga come
Matteo Renzi quando era presidente del Consiglio rinviò ogni decisione
in merito affermando che l’opinione pubblica non era matura. Quel che
più conta è che tutti questi interventi su immigrazione e sicurezza sono
stati sempre presentati come salvifici, decisivi. E, invece, hanno
provocato problemi ancora più complessi di quelli che intendevano
risolvere. La novità del decreto Salvini, come l’ha chiamato lo stesso
ministro costringendo il premier Giuseppe Conte a una pietosa comparsata
di tipo pubblicitario - un’immagine apocalittica, scrive Massimo
Cacciari, «in senso etimologico: manifestazione di quanto la competenza
culturale e il lavoro intellettuale possano smarrire la propria valenza
critica e auto-critica, se fagocitati da micro-cupidità di potere e
private ambizioni» - è nel suo essere un inutile, ma devastante
manifesto ideologico. Per la prima volta nella storia della Repubblica
viene inserito in un atto legislativo che il diritto di asilo garantito
dall’articolo 10 della Costituzione può essere affievolito e annullato,
che la cittadinanza italiana conquistata da uno straniero può essere
revocata, che il diritto di difesa non è uguale per tutti, che la
protezione umanitaria viene annullata. Certo, nell’idea salviniana i
diritti si spengono e si tolgono per chi si è macchiato di un qualche
delitto, o addirittura è sospettato di averlo fatto (in una prima
versione bastava la semplice denuncia per far cadere la domanda di
asilo). Di questo passo si arriverà alla delazione, come nei tempi più
bui. Salvini, la paciosità del male, lo chiama Giuseppe Genna, agisce
nel vuoto politico di tutti gli altri, di un Movimento 5 Stelle che
affida il suo ruolo sulla legge di Bilancio alle minacce fuori campo di
Rocco Casalino e di un’opposizione sfiancata. Si presenta come banale e
innocuo, come uno di noi. E invece è il volto di un’ideologia feroce che
può assumere tratti pagliacceschi (questo Steve Bannon effigiato come
merita da Vittorio Malagutti) o ben più inquietanti. Inquietante è la
lettura che Salvini dà del suo stesso decreto: permessi di soggiorno
strappati davanti alle telecamere, «se delinqui ti leviamo il
foglietto». E allora nessun paragone con il passato è possibile. Ma,
come scrive Aboubakar Soumahoro, il decreto Salvini «segna l’inizio di
un processo istituzionale di deriva razzista». E non si potrebbe dirlo
meglio, ottant’anni dopo.