lunedì 1 ottobre 2018

l’espresso 30.9.18
Manifesto di un’ ideologia feroce
Il decreto Salvini nega diritti sanciti dalla Costituzione. E opera discriminazioni fra i cittadini come mai era accaduto nella storia della Repubblica
Di Marco Damilano


Quando il 5 agosto 1938 cominciarono le pubblicazioni del quindicinale La difesa della razza, diretto da Telesio Interlandi, prototipo del giornalista fascista, con la pubblicazione del manifesto firmato da dieci scienziati, l’appoggio della stampa alla politica razziale del Duce fu «più del solito servilmente schifosa», appuntò sul suo diario Emilio Del Bono, uno dei quadrumviri del regime. Il 2 e il 3 settembre furono approvati i primi provvedimenti: il divieto per gli studenti ebrei di frequentare le scuole pubbliche, per i bambini delle scuole elementari l’istituzione di sezioni appositamente dedicate in classi con numero non inferiore di dieci, la revoca della cittadinanza italiana per gli ebrei stranieri che l’avevano ottenuta dopo il 1918. Per arrivare all’ultimo decreto, il 17 novembre, che impediva agli ebrei di lavorare alle dipendenze di enti pubblici. La vergogna più infame della storia del diritto italiano, e anche della cultura e della ricerca scientifica: le leggi razziali approvate dal fascismo ottant’anni fa. Se ripubblichiamo quel manifesto ignobile firmato da luminari di peso in apertura dell’Espresso, e le copertine del giornale di Interlandi nei servizi di prima pagina, è perché di quella storia l’Italia ha perso memoria, al punto che il leader della destra Gianfranco Fini (poi convertitosi alla definizione di «fascismo male assoluto») per anni giocò sulle parole, su «un errore che si era trasformato in orrore», e sulle leggi razziali che in Italia hanno avuto «un’applicazione limitata». Premessa di una grande rimozione nazionale, il campo di concentramento di Fossoli a due passi da Carpi, una distesa di capannoni nel cuore dell’Emilia, oggi restituito alla memoria ma per decenni dimenticato. E di nuovo, sono state a lungo rimosse quelle parole orribili pronunciate da un capo di governo italiano, Benito Mussolini, impegnato in quelle settimane, come scrisse il suo biografo Renzo De Felice, nella svolta totalitaria, che passava anche per la sostituzione del lei con il voi e per l’introduzione del passo romano, «poderosi cazzotti nello stomaco» nel sedicesimo anno del regime, mentre il cedimento di Francia e Inghilterra nei confronti della Germania di Hitler alla conferenza di Monaco anticipava l’inizio del conflitto mondiale dell’anno successivo. Bisogna sempre stare attenti quando si maneggiano paragoni storici. Materiale incandescente, pericoloso. Per di più in tempi di ignoranza e banalità da social, in cui ogni politico avversario può essere trasformato, all’occorrenza, in un nuovo Stalin o in un redivivo Hitler. Di questa banalizzazione, e di una più preoccupante mancanza di categorie nuove per definire i fenomeni inediti del XXI secolo, i primi a beneficiarne sono proprio i leader messi in parallelo con il passato. Per prima cosa perché, ben al riparo all’ombra della superficialità, possono impunemente lasciarsi andare a ogni genere di remake verbale: i sovranismi, i nazionalismi, la difesa del popolo, della nazione, se non della razza, espressi in termini anti-storici. Salvo poi difendersi, in caso di attacco, spiegando che con quel passato ripugnante loro non c’entrano nulla e che semmai sono i loro critici a essere fuori dalla storia. Facciamo un esempio: un giornale per così dire minore, nulla a che fare con Telesio Interlandi, per carità, titola all’indomani della presentazione del decreto sicurezza firmato dal ministro Matteo Salvini: «Passa la stretta sugli immigrati. Salvini: “E adesso tocca ai Rom”». Scivola così, nella rassegna stampa, come un titolo qualsiasi nel mercato delle opinioni. E affermare che si tratta di un’affermazione francamente di stampo fascista, perché si tratta di un sequenza tragicamente già vista nella storia del Novecento, significherebbe esporsi all’accusa di voler criminalizzare l’avversario. Come accadde qualche settimana fa, quando una copertina dell’Espresso con il titolo ripreso da Elio Vittorini, “Uomini e no”, fu equivocata al punto di sostenere che la nostra intenzione fosse negare al ministro Salvini l’appartenenza al genere umano. Ambizione eccessiva, in effetti. Salvini è un uomo. E Salvini non è un fascista. Tutti d’accordo su questi due punti, restano i fatti. Il primo provvedimento importante del governo in materia di ordine pubblico, dopo la marea di parole estive, è un decreto in cui i migranti finiscono trattati come un sottocapitolo della questione sicurezza. Non è la prima volta che succede: nel 2008 il centro-destra berlusconiano tornato al governo presentò subito un pacchetto sicurezza, il ministro dell’Interno era un altro leghista, Roberto Maroni. Quel provvedimento introduceva per i sindaci la possibilità di avvalersi delle ronde dei cittadini per sorvegliare il territorio, allontanamenti e espulsioni più facili, e soprattutto il reato di immigrazione clandestina, su cui nel 2010 si è abbattuta la scure della Corte costituzionale, «i parrucconi», così li chiamò l’allora terza fila leghista Matteo Salvini. Una questione che ha diviso in anni più recenti il Movimento 5 Stelle, quando la coppia Beppe Grillo-Gianroberto Casaleggio intervenne per sconfessare un voto parlamentare di M5S: «Se durante le elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità, il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico», scrissero i fondatori, poi sconfessati dal voto degli iscritti alla Rete prima dell’associazione Rousseau. Ma anche un tipo solitamente incline ad attaccare briga come Matteo Renzi quando era presidente del Consiglio rinviò ogni decisione in merito affermando che l’opinione pubblica non era matura. Quel che più conta è che tutti questi interventi su immigrazione e sicurezza sono stati sempre presentati come salvifici, decisivi. E, invece, hanno provocato problemi ancora più complessi di quelli che intendevano risolvere. La novità del decreto Salvini, come l’ha chiamato lo stesso ministro costringendo il premier Giuseppe Conte a una pietosa comparsata di tipo pubblicitario - un’immagine apocalittica, scrive Massimo Cacciari, «in senso etimologico: manifestazione di quanto la competenza culturale e il lavoro intellettuale possano smarrire la propria valenza critica e auto-critica, se fagocitati da micro-cupidità di potere e private ambizioni» - è nel suo essere un inutile, ma devastante manifesto ideologico. Per la prima volta nella storia della Repubblica viene inserito in un atto legislativo che il diritto di asilo garantito dall’articolo 10 della Costituzione può essere affievolito e annullato, che la cittadinanza italiana conquistata da uno straniero può essere revocata, che il diritto di difesa non è uguale per tutti, che la protezione umanitaria viene annullata. Certo, nell’idea salviniana i diritti si spengono e si tolgono per chi si è macchiato di un qualche delitto, o addirittura è sospettato di averlo fatto (in una prima versione bastava la semplice denuncia per far cadere la domanda di asilo). Di questo passo si arriverà alla delazione, come nei tempi più bui. Salvini, la paciosità del male, lo chiama Giuseppe Genna, agisce nel vuoto politico di tutti gli altri, di un Movimento 5 Stelle che affida il suo ruolo sulla legge di Bilancio alle minacce fuori campo di Rocco Casalino e di un’opposizione sfiancata. Si presenta come banale e innocuo, come uno di noi. E invece è il volto di un’ideologia feroce che può assumere tratti pagliacceschi (questo Steve Bannon effigiato come merita da Vittorio Malagutti) o ben più inquietanti. Inquietante è la lettura che Salvini dà del suo stesso decreto: permessi di soggiorno strappati davanti alle telecamere, «se delinqui ti leviamo il foglietto». E allora nessun paragone con il passato è possibile. Ma, come scrive Aboubakar Soumahoro, il decreto Salvini «segna l’inizio di un processo istituzionale di deriva razzista». E non si potrebbe dirlo meglio, ottant’anni dopo.