lunedì 1 ottobre 2018

l’espresso 30.9.18
Manifesto di un’ ideologia feroce
Il decreto Salvini nega diritti sanciti dalla Costituzione. E opera discriminazioni fra i cittadini come mai era accaduto nella storia della Repubblica
Di Marco Damilano


Quando il 5 agosto 1938 cominciarono le pubblicazioni del quindicinale La difesa della razza, diretto da Telesio Interlandi, prototipo del giornalista fascista, con la pubblicazione del manifesto firmato da dieci scienziati, l’appoggio della stampa alla politica razziale del Duce fu «più del solito servilmente schifosa», appuntò sul suo diario Emilio Del Bono, uno dei quadrumviri del regime. Il 2 e il 3 settembre furono approvati i primi provvedimenti: il divieto per gli studenti ebrei di frequentare le scuole pubbliche, per i bambini delle scuole elementari l’istituzione di sezioni appositamente dedicate in classi con numero non inferiore di dieci, la revoca della cittadinanza italiana per gli ebrei stranieri che l’avevano ottenuta dopo il 1918. Per arrivare all’ultimo decreto, il 17 novembre, che impediva agli ebrei di lavorare alle dipendenze di enti pubblici. La vergogna più infame della storia del diritto italiano, e anche della cultura e della ricerca scientifica: le leggi razziali approvate dal fascismo ottant’anni fa. Se ripubblichiamo quel manifesto ignobile firmato da luminari di peso in apertura dell’Espresso, e le copertine del giornale di Interlandi nei servizi di prima pagina, è perché di quella storia l’Italia ha perso memoria, al punto che il leader della destra Gianfranco Fini (poi convertitosi alla definizione di «fascismo male assoluto») per anni giocò sulle parole, su «un errore che si era trasformato in orrore», e sulle leggi razziali che in Italia hanno avuto «un’applicazione limitata». Premessa di una grande rimozione nazionale, il campo di concentramento di Fossoli a due passi da Carpi, una distesa di capannoni nel cuore dell’Emilia, oggi restituito alla memoria ma per decenni dimenticato. E di nuovo, sono state a lungo rimosse quelle parole orribili pronunciate da un capo di governo italiano, Benito Mussolini, impegnato in quelle settimane, come scrisse il suo biografo Renzo De Felice, nella svolta totalitaria, che passava anche per la sostituzione del lei con il voi e per l’introduzione del passo romano, «poderosi cazzotti nello stomaco» nel sedicesimo anno del regime, mentre il cedimento di Francia e Inghilterra nei confronti della Germania di Hitler alla conferenza di Monaco anticipava l’inizio del conflitto mondiale dell’anno successivo. Bisogna sempre stare attenti quando si maneggiano paragoni storici. Materiale incandescente, pericoloso. Per di più in tempi di ignoranza e banalità da social, in cui ogni politico avversario può essere trasformato, all’occorrenza, in un nuovo Stalin o in un redivivo Hitler. Di questa banalizzazione, e di una più preoccupante mancanza di categorie nuove per definire i fenomeni inediti del XXI secolo, i primi a beneficiarne sono proprio i leader messi in parallelo con il passato. Per prima cosa perché, ben al riparo all’ombra della superficialità, possono impunemente lasciarsi andare a ogni genere di remake verbale: i sovranismi, i nazionalismi, la difesa del popolo, della nazione, se non della razza, espressi in termini anti-storici. Salvo poi difendersi, in caso di attacco, spiegando che con quel passato ripugnante loro non c’entrano nulla e che semmai sono i loro critici a essere fuori dalla storia. Facciamo un esempio: un giornale per così dire minore, nulla a che fare con Telesio Interlandi, per carità, titola all’indomani della presentazione del decreto sicurezza firmato dal ministro Matteo Salvini: «Passa la stretta sugli immigrati. Salvini: “E adesso tocca ai Rom”». Scivola così, nella rassegna stampa, come un titolo qualsiasi nel mercato delle opinioni. E affermare che si tratta di un’affermazione francamente di stampo fascista, perché si tratta di un sequenza tragicamente già vista nella storia del Novecento, significherebbe esporsi all’accusa di voler criminalizzare l’avversario. Come accadde qualche settimana fa, quando una copertina dell’Espresso con il titolo ripreso da Elio Vittorini, “Uomini e no”, fu equivocata al punto di sostenere che la nostra intenzione fosse negare al ministro Salvini l’appartenenza al genere umano. Ambizione eccessiva, in effetti. Salvini è un uomo. E Salvini non è un fascista. Tutti d’accordo su questi due punti, restano i fatti. Il primo provvedimento importante del governo in materia di ordine pubblico, dopo la marea di parole estive, è un decreto in cui i migranti finiscono trattati come un sottocapitolo della questione sicurezza. Non è la prima volta che succede: nel 2008 il centro-destra berlusconiano tornato al governo presentò subito un pacchetto sicurezza, il ministro dell’Interno era un altro leghista, Roberto Maroni. Quel provvedimento introduceva per i sindaci la possibilità di avvalersi delle ronde dei cittadini per sorvegliare il territorio, allontanamenti e espulsioni più facili, e soprattutto il reato di immigrazione clandestina, su cui nel 2010 si è abbattuta la scure della Corte costituzionale, «i parrucconi», così li chiamò l’allora terza fila leghista Matteo Salvini. Una questione che ha diviso in anni più recenti il Movimento 5 Stelle, quando la coppia Beppe Grillo-Gianroberto Casaleggio intervenne per sconfessare un voto parlamentare di M5S: «Se durante le elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità, il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico», scrissero i fondatori, poi sconfessati dal voto degli iscritti alla Rete prima dell’associazione Rousseau. Ma anche un tipo solitamente incline ad attaccare briga come Matteo Renzi quando era presidente del Consiglio rinviò ogni decisione in merito affermando che l’opinione pubblica non era matura. Quel che più conta è che tutti questi interventi su immigrazione e sicurezza sono stati sempre presentati come salvifici, decisivi. E, invece, hanno provocato problemi ancora più complessi di quelli che intendevano risolvere. La novità del decreto Salvini, come l’ha chiamato lo stesso ministro costringendo il premier Giuseppe Conte a una pietosa comparsata di tipo pubblicitario - un’immagine apocalittica, scrive Massimo Cacciari, «in senso etimologico: manifestazione di quanto la competenza culturale e il lavoro intellettuale possano smarrire la propria valenza critica e auto-critica, se fagocitati da micro-cupidità di potere e private ambizioni» - è nel suo essere un inutile, ma devastante manifesto ideologico. Per la prima volta nella storia della Repubblica viene inserito in un atto legislativo che il diritto di asilo garantito dall’articolo 10 della Costituzione può essere affievolito e annullato, che la cittadinanza italiana conquistata da uno straniero può essere revocata, che il diritto di difesa non è uguale per tutti, che la protezione umanitaria viene annullata. Certo, nell’idea salviniana i diritti si spengono e si tolgono per chi si è macchiato di un qualche delitto, o addirittura è sospettato di averlo fatto (in una prima versione bastava la semplice denuncia per far cadere la domanda di asilo). Di questo passo si arriverà alla delazione, come nei tempi più bui. Salvini, la paciosità del male, lo chiama Giuseppe Genna, agisce nel vuoto politico di tutti gli altri, di un Movimento 5 Stelle che affida il suo ruolo sulla legge di Bilancio alle minacce fuori campo di Rocco Casalino e di un’opposizione sfiancata. Si presenta come banale e innocuo, come uno di noi. E invece è il volto di un’ideologia feroce che può assumere tratti pagliacceschi (questo Steve Bannon effigiato come merita da Vittorio Malagutti) o ben più inquietanti. Inquietante è la lettura che Salvini dà del suo stesso decreto: permessi di soggiorno strappati davanti alle telecamere, «se delinqui ti leviamo il foglietto». E allora nessun paragone con il passato è possibile. Ma, come scrive Aboubakar Soumahoro, il decreto Salvini «segna l’inizio di un processo istituzionale di deriva razzista». E non si potrebbe dirlo meglio, ottant’anni dopo.

l’espresso 30.9.18
C’è una politica che da tempo indica nello straniero il “nemico pubblico”. In comune con il passato c’è l’indifferenza
La deriva razzista diventa legge
di Aboubakar Soumahoro


Il decreto sicurezza approvato lo scorso Consiglio dei Ministri ha deliberato il prolungamento dello scioglimento del Comune di Gioa Tauro, commissariato dal maggio del 2017 per condizionamento della criminalità organizzata. Non ci sono le condizioni per indire nuove elezioni, eppure l’emergenza sono gli immigrati. Così dopo tante parole, provocazioni e selfie è il primo provvedimento formalmente proposto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini in tandem con il ministro Luigi Di Maio. Un decreto che segna l’inizio di un processo istituzionale di deriva razzista. Al di là dell’esame delle singole misure, che altri hanno esaminato prima e meglio di me, è evidente che questo atto mira a creare un “nemico pubblico”, individuato senza mezzi termini nello straniero. E lo fa nascondendosi dietro l’uso ambiguo della parola “sicurezza”. Eppure, tutte e tutti, indipendentemente dal colore della pelle, abbiamo bisogno di sicurezza e di giustizia sociale rispetto al dilagare delle disuguaglianze sociali che affliggono la nostra comunità in termini di disoccupazione ed impoverimento di massa. Chi non ha bisogno di sicurezza? Il problema è che quando tu non sei in grado di garantire sicurezza sociale, quando le tue promesse di un welfare più esteso si dimostrano false, allora sposti l’attenzione contro un nemico. Dalla sicurezza sociale alla pubblica sicurezza. Così il ministro Salvini, ma direi anche l’intero governo, ancora in alto mare per la ricostruzione del Ponte Morandi a Genova, tra tutte le promesse elettorali sceglie quella più demagogica e discriminatoria. Lo fa, ironia della storia, proprio nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali approvate dal fascismo nel 1938. Mi si obietterà che erano un altro contesto storico e giuridico e che la nostra Costituzione, che compie proprio quest’anno 70 anni dalla sua entrata in vigore nel 1948, non consentirebbe mai l’approvazione di provvedimenti di natura discriminatoria e di negazione delle libertà ad una parte della nostra comunità. A chi non crede che ciò sia possibile, lo invito a leggere un provvedimento che, mettendo sinanche in discussione la cittadinanza o il diritto alla difesa in sede giudiziaria, sancisce che di fronte alla legge non siamo tutti uguali. Devo anche osservare che questo provvedimento ha avuto la strada spianata dalle precedenti maggioranze politiche. È il caso del decreto Minniti-Orlando con l’istituzione di sessioni speciali nei tribunali per soli migranti e la trasformazione degli operatori dei Centri d’accoglienza in pubblici ufficiali, giusto per fare alcuni esempi. Anche chi ha preceduto questo governo si è impegnato in campagne di manipolazione della realtà, spesso con ini elettoralistici. A proposito vorrei ricordare le dichiarazioni dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) che «sui migranti ho temuto per la tenuta democratica del paese». Dichiarazioni rese mentre la popolazione continuava a chiedere, è il caso anche oggi con l’attuale Governo Movimento 5 Stelle e Lega, giustizia sociale. Il Dl Sicurezza varato all’unanimità è certo in palese violazione di libertà e tutele sancite dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, e limita di fatto la libertà e l’uguaglianza delle persone distinguendole in base alla provenienza geografica. Trasforma parte della popolazione in “categoria speciale” nonché capro espiatorio di una crisi economica che stiamo subendo e vivendo tutti, nessuno escluso, drammaticamente. Ma il Governo del Premier Giuseppe Conte rischia anche seriamente di mettere in discussione una memoria che dovrebbe essere collettiva e salvaguardata. Perché se oggi non vogliamo limitarci a celebrazioni vuote e prive di senso, dobbiamo segnalare l’indifferenza come legame tra le politiche razziali del 1938 che hanno spogliato e deprivato dei loro diritti i cittadini ebrei con quelle che oggi questo governo mette in campo per rifugiati, richiedenti asilo e migranti. La società sta smarrendo i valori fondamentali, stiamo tornando sudditi invece di cittadini e esseri umani. E queste politiche non hanno nulla a che vedere con la sicurezza, anzi funzionano come elementi di distrazione. Non dimentichiamo, per esempio, che l’Italia con un buco da 36 miliardi risulta il primo paese europeo per evasione iscale. O che sono più di 7 milioni le persone che vivono in condizione di disagio economico in Italia. Mentre le persone costrette a sopravvivere nella povertà assoluta sono 5 milioni. Ricordiamo quanto accaduto in passato. Dobbiamo vivere il nostro presente senza però trasformare questa necessità, parafrasando Primo Levi, in una guerra di falsiicazione e negazione contro la memoria. Senza la salvaguardia della memoria è difficile proiettarsi in un futuro migliore.

l’espresso 30.9.18
Per batterli serve una “nuova Europa”
Di Gianni Cuperlo


Ha ragione Cacciari. Se il prossimo voto per l’Europa dirà su quale rotta piega la storia, il campo democratico ha una sola strada: cambiare per unirsi. Deve farlo nel segno di una discontinuità con molto di ciò che è venuto prima. Tradotto? Presentiamoci agli italiani con una lista civica nazionale. Battezziamola “Nuova Europa” e avanziamo questa proposta alla famiglia socialista e della sinistra, quella animata da nuove e vecchie formazioni. Userei quella formula così, senza aggiunte di fogliame, piante o stelline stilizzate. Alla base mettiamo i simboli di partiti, movimenti, disposti all’impresa. E richiamiamo le parole destinate a distinguere la novità. Parole aggredite oggi più che mai: democrazia e uguaglianza. Poi, anzi prima, costruiamo attorno al progetto liste inclusive di personalità solide per principi difesi e lotte vissute. Andiamo a cercare chi condivide due sentimenti. L’allarme per il ritorno di un nazionalismo violento pronto a intaccare verità scolpite della democrazia liberale; e il bisogno di rendere all’ideale europeo l’anima sociale che lustri di rigorismo hanno mortificato. Prevengo la critica, forse gli insulti, anche della mia parte: «Ma come? Sacrifichiamo il simbolo del Pd proprio quando si devono riacciuffare i voti persi?». Rispondo che non è una rinuncia. All’opposto, la prova di aver compreso dove siamo, in quale punto della storia. Sarebbe la scelta illuminata di adeguare l’offerta al merito. Perché a fine maggio non si eleggeranno deputati e senatori. Si sceglierà la squadra che nei prossimi anni dovrà ancorare l’Italia alla civiltà che ci ha visti nascere restituendo risorse e speranze a chi la grande crisi ha lasciato al palo. Quando il perimetro della competizione si fa continente, col peso che le urne avranno, saggezza chiede di porre il nostro simbolo al servizio di un piano largo, della scossa in grado di scuotere l’albero raccogliendo buoni frutti. A sinistra in primo luogo e verso il centro, ammesso che la categoria conservi spazio. Fare questo passo è la premessa, l’offerta appunto. Che poi deve incrociare il merito. E allora, detta per come va detta, se questo fronte largo dovesse mettersi a difesa dell’Europa che c’è e che c’è stata il lusso nazionalista ci travolgerebbe. Certo, non tocca a noi ammazzare l’Europa, tanto meno la moneta. Se siamo vivi - l’Italia intendo - è merito anche di processi maturati lì. Per primo la salvaguardia del nostro debito a opera del piano della Bce, peraltro destinato a ridursi sino a estinguersi. Insomma l’avversario da battere non è a Francoforte, ma una visione storica e strategie se parliamo di economia, investimenti, modello sociale, che hanno sradicato il ceto medio, creato sacche orrende di povertà e risuscitato fantasmi destinati a trovare a destra nuovi “paladini del popolo”. Un’Europa che per il sussulto di vita mostrato sulle sanzioni all’Ungheria paga tutto intero il prezzo della sua débâcle morale in materia di accoglienza e migranti. Ma anche per tutto questo chi si illude che l’onda sovranista sia giunta al suo apice e da qui vada in fretta a spiaggiarsi non ha capito. Non ha colto la novità nel profilo di quella destra. Che non è il duplicato ingrandito delle spinte liberiste degli anni Novanta e Zero. È un’altra cosa che rompe col mainstream adottato anche dai riformisti nell’ultimo quarto di secolo: valori progressisti sul fianco della democrazia e ricette liberiste sul fronte sociale, con la sinistra spesso ridotta a smussare di quelle strategie gli angoli più spigolosi. Flessibilità stressata, vite insicure, abbassamento di tutele e diritti svenduti come privilegi di un tempo sepolto: l’elenco è lungo, soprattutto risaputo. No, questa è una destra che ribalta lo schema. Pare suggerire riforme volte a sanare parte di quelle ferite sociali - dalla Fornero al reddito di cittadinanza - ma combinando l’annuncio con valori reazionari sul terreno della democrazia e delle libertà. Se non si coglie questo cambio di rotta non si capiscono i nuovi “imperatori”, da Trump a Putin passando per Orbán e finendo in Turchia. È un diverso concetto del potere a essersi spinto innanzi, e con esso la limitazione - in Ungheria è già soppressione - di anticorpi indispensabili: libertà di stampa e opinione, indipendenza dei magistrati. Sono forme neppure subdole, ma rivendicate, di stravolgimento di quegli ordinamenti costituzionali che per gli ultimi settant’anni di storia dell’Occidente hanno sorretto il patto democratico, le sue istituzioni e il relativo impianto sociale. Di questo stiamo parlando. Non delle correnti del Pd o delle simpatiche battute che deliziano platee di militanti orfani di una stagione inumata sotto il macigno della peggiore sconfitta della nostra vita. Ciascuno per la sua parte abbiamo l’umiltà di vederlo? E di collocare la nostra proposta all’altezza della prova oggi sulle spalle a un paio di generazioni: preservare la democrazia così da consegnarla a chi verrà dopo di noi? Questo è il compito. Questa la traversata. Da fare sapendo che la nave, la nostra, così com’è imbarca parecchia acqua e rischia di non farci galleggiare. Meglio salpare attrezzati di equipaggi e lotta più folti e motivati. Senza modelli da adottare, per l’amor del cielo. Le regole del resto non prevedono liste transnazionali o cartelli improvvisati. I Popolari puntano a tenere assieme diavolo e acquasanta: il premier di Budapest e la cancelliera tedesca con la benedizione di un falco bavarese. Sul fronte nostro bisognerà che quell’alleanza per una Nuova Europa dopo il voto e nel nuovo Parlamento si apra all’asse con Macron e le forze europeiste per tentare una maggioranza a sostegno della Commissione e di chi la guiderà. Insomma una strategia proiettata ad allargare il fronte di una resistenza all’autoritarismo e a un’Europa deturpata nei suoi principi fondamentali. Il che vuol dire scrivere un’altra agenda politica e sociale. Una strategia di investimenti pubblici, una vera unione iscale, ripensare l’architettura del welfare. Proviamoci, almeno.

l’espresso 30.9.18
Le parole del presente/5 IDENTITÀ
Dissento dunque sono
colloquio con Ágnes Heller
di Wlodek Goldkorn

La libertà di giudizio costa molto cara. Persino accuse di tradimento. Ma è l’unica forza in grado di opporsi al Male. Così dice la grande filosofa

Quando, nel corso di un pubblico dibattito, sentì l’affermazione per cui non bisognava parlare dell’identità ma di appartenenze, perché l’identità era una parola che richiamava le ideologie degli anni Trenta, Ágnes Heller reagì con una certa brutalità e disse: «Le identità esistono invece, noi non siamo esseri astratti, siamo il nostro passato, la nostra memoria». Per proseguire quel dialogo e per capire qual è la natura e le caratteristiche della parola identità appunto, sempre più spesso pronunciata da politici e intellettuali in questo nostro Occidente dove si innalzano i muri e costruiscono campagne di odio, proprio in nome dell’identità, siamo andati a Budapest a trovare la 89enne filosofa, una volta icona della sinistra ribelle, oggi saggia liberale. Heller vive in un piccolo appartamento in un edificio nuovo sulla riva del Danubio. La prima cosa che si nota, entrando, sono le grandi finestre che danno la luce, e l’apertura verso un balcone che dà sul fiume e da cui, lei orgogliosa, mostra all’ospite il panorama della città. Coincidenze? Forse, ma fatto sta che una grande filosofa devota dei Lumi e della Ragione, ecco, una persona così ha scelto di vivere in un appartamento che rispecchia il suo pensiero e approccio al mondo. Ci sediamo a un tavolo e Heller comincia:
«Se lei è venuto per chiedermi qual è la mia identità, le rispondo: ne ho diverse, sono ungherese, ebrea, donna, filosofa e potrei continuare. Ma se mi chiedesse quale tra queste identità sia la più importante, risponderei: dipende dalla circostanza, da quello che sto facendo e da qual è il compito che mi sono data. Oggi, per me è di primaria importanza la mia identità ungherese; e questo a causa del primo ministro Viktor Orbán. Sono convinta che il suo regime sia estremamente pericoloso per l’Ungheria e per l’Europa».
Sta dicendo che l’importanza dell’identità è determinata dal grado di insofferenza nei confronti degli avversari. Ma quali sono le ragioni per le quali il discorso sull’identità è diventato cruciale in politica, in Europa?
«Per via del nazionalismo etnico, un fenomeno che è causa e al contempo conseguenza del peccato originale del nostro continente: ossia la Prima guerra mondiale. La Grande guerra a sua volta ha generato i regimi totalitari; figli del nazionalismo etnico. Ecco perché si tratta del fenomeno identitario più pericoloso in assoluto».
Tuttavia fino a pochi anni fa, forse fino alla crisi scatenata dal fallimento di Lehman Bros, non molte persone consideravano il loro essere italiano o francese la dimensione più importante della loro identità.
«Non è vero. Guardi i giochi olimpici. La gente tifa per la propria nazione. Forse la questione dell’identità nazionale non era interessante per gli intellettuali, ma in tal caso hanno sbagliato. E sa perché? Perché un intellettuale è legato all’idioma in cui crea e comunica. La lingua nazionale è l’identità del poeta e dello scrittore. E allora la questione è come definisci la tua identità nazionale e non se questa identità esiste».
Dal dopo Auschwitz abbiamo però vissuto nell’idea che il nazionalismo, e quindi il considerare l’identità nazionale come la più importante delle nostre identità, fosse la via maestra verso il razzismo e gli orrori. Può esserci un’identità nazionale non pericolosa?
«I francesi l’hanno creata; è l’idea che la Nazione coincide con la Repubblica, non con l’etnia». Comunque il populismo avanza.
«Cosa vuol dire populismo? È una parola che viene usata perché abbiamo l’illusione di vivere ancora in una società divisa in classi. E invece la nostra è una società di massa. La gente non vota a seconda dell’interesse di classe, ma per convinzione ideologica. Tutti i partiti politici sono oggi populisti, perché tutti si rivolgono a tutto il popolo, costruendo narrazioni. E queste narrazioni sono ideologie, benevole o malevole. Ci sono narrazioni fondate su verità e narrazioni il cui fondamento è la menzogna. Ma comunque nessuno è in grado di vincere le elezioni sulla base del programma economico come accadeva invece una cinquantina di anni fa. Per parafrasare Spinoza: così come una passione può essere vinta da un’altra passione, la narrazione può essere vinta da un’altra narrazione. E io, francamente, non so per quale motivo il nazionalismo etnico venga chiamato populismo».
Una volta lei disse che la nostra identità è la nostra memoria. Ma si potrebbe obiettare che la memoria è la storia che raccontiamo a noi stessi e ad altri; quindi in parte immaginazione e invenzione. Noi ci ricordiamo quello che vogliamo a seconda del momento e della situazione e di come vogliamo rappresentarci.
«Il modo in cui lei rappresenta la sua memoria ad altri non è il suo passato; ma è invece la narrazione del suo passato. Lei prende tracce di memoria, scampoli di ricordi e li mette insieme creando dei nessi. Ma quella storia non è precisamente la memoria; è appunto solo una storia».
Però un politico può raccontare come vuole la memoria ungherese, italiana, polacca, senza mentire né inventare, ma dando una sua versione, funzionale alla sua ideologia, al suo discorso del potere e quindi manipolata, non condivisa da tutta la nazione.
«In tal caso parliamo di memoria culturale o collettiva, non più individuale. La memoria culturale è testo. Un testo può essere composto in una maniera differente, a seconda delle circostanze. Ovviamente, la natura della memoria nazionale dipende dal testo che si sceglie. Ed è questo che fanno i politici. Del resto sono stati i politici a inventare le feste nazionali; la prima, il 14 luglio francese. Il testo delle feste nazionali è differente da quello delle feste religiose. Nelle feste religiose si ripetono le stesse cose da duemila anni, scritte nei libri sacri. Nelle feste nazionali è il politico che parla di cose successe qualche decennio fa; e quasi sempre a sostegno della propria versione della storia. Un esempio: quello che il governo di Budapest oggi racconta del nostro 1956 (la Rivoluzione soppressa
«Non sbagliava. Però, una cosa la devo dire: la memoria degli sconfitti è importante per chi tra gli sconfitti è vivo. Degli antichi popoli, delle antiche tribù, scomparsi sappiamo poco o niente. Nell’assenza della vita, la memoria si estingue. Resta come tradizione».
Lei come filosofa parla spesso della libertà. L’identità ha a che fare con la libertà? Noi scegliamo la nostra identità, o no?
«La scegliamo, ma fino a un certo punto. Possiamo “ri-scegliere” quello che siamo. Io “ri-scelgo” di essere ebrea e donna. In altre parole: io ho deciso di essere donna ed ebrea. E questa è l’espressione della mia volontà. Ma ci sono altre identità che non scegliamo e in cui siamo nati». Facciamo un provvisorio riassunto. L’identità è sempre stata importante, è plurale, parzialmente la possiamo scegliere, se diventa un discorso etnico è estremamente pericolosa maneggiata dai politici. E tuttavia, nella letteratura, nell’ambito della moda (un linguaggio universale che parla del futuro), tra i giovani va forte una figura che in tedesco si chiama “Doppelgänger”, il doppio; l’ambivalente. Facciamo due esempi: se guarda come sono vestiti i ragazzi nelle nostre metropoli, ha l’impressione che siano androgini, abbiano una doppia identità sessuale. E poi, il successo di un romanzo come “Giuda” di Amos Oz, dove il tradimento è presentato come una necessità e un’ipotesi di azione da persone oneste e perbene.
«Quella del tradimento è una storia vecchia. Già nella Bibbia Geremia è accusato di essere un traditore (a causa della sua visione geopolitica, ndr). E se parliamo del libro di Oz, è pur sempre fiction».
Sarà fiction, ma c’è un personaggio che ricorda un intellettuale israeliano vero, contrario alla nascita dello Stato.
«Se nel 1947 eri contro la nascita dello Stato ebraico, eri un traditore».
E allora, la stessa domanda riformulata: nel mondo in cui i nazionalisti ci dicono che si può avere una sola identità e che quella identità esclude l’Altro, dobbiamo avere il coraggio di essere traditori?
«Dipende. Dobbiamo averlo, quando è giusto passare per traditori».
Willy Brandt e Marlene Dietrich tradirono, si schierarono con gli alleati contro la loro patria, la Germania.
«Avevano ragione. Come avevano ragione i deputati ungheresi a Strasburgo che hanno votato a favore delle sanzioni contro l’Ungheria di Orbán. La vera domanda però è un’altra: un giudice per farsi accreditare come buon ungherese deve tradire la propria professione?».
Professoressa Heller, quando diventiamo anziani, spesso proviamo bisogno di tornare ai nostri luoghi d’infanzia, per esempio a Budapest; di indagare sui nostri nonni, specie quando non li abbiamo conosciuti (condizione comune per gli ebrei della generazione nata subito dopo la Catastrofe). Perché questo bisogno di tornare alle radici?
«Io non ne ho bisogno e non sono tornata a Budapest per cercare le mie radici. Ma posso parlare dei miei amici e conoscenti. È moda. Specie si si fa parte di un ambiente cosmopolita. Le racconto una storia: tanti anni fa a Roma a Campo de’ Fiori ho chiesto al proprietario del ristorante come andare da un’altra parte della città. Mi rispose: “Non so, non ho mai lasciato questo quartiere”. Poi, sull’aereo per l’Australia una donna mi raccontava di avere un appartamento a Sydney, uno a Hong Kong, un altro a New York. Le ho chiesto dove stava di casa. Mi ha risposto: “La casa è dove sta il gatto”».
Può un immigrato sentirsi a casa in Italia, senza saper l’italiano, senza saper leggere Dante e quindi senza avere una certa conoscenza della tradizione e della cultura cristiana?
«Sinceramente non lo so. Negli Stati nazione l’integrazione significa assimilazione. È quanto è stato chiesto agli ebrei negli Stati etnici, ad esempio in Ungheria. Ma a New York integrazione non significa assimilazione; sei cittadino e basta. Questa è la regola in tutto il mondo nuovo. Ho vissuto in Australia. Dopo tre anni sono diventata cittadina e considerata filosofa australiana. Punto». Proviamo a parlare di capitalismo e identità e memoria. Il capitale ha memoria?
«Non esiste il capitale, come entità fisica. Marx ha definito il capitale come un rapporto sociale. Un rapporto sociale non può avere memoria».
Ma allora perché con la globalizzazione l’identità nazionale si è rafforzata? In apparenza è un paradosso.
«Farei alcuni distinguo. Intanto, ci sono fenomeni che non possono essere globalizzati. Quello che invece sicuramente si può globalizzare è la cultura. Se lei va alla Biennale di Venezia, vedrà opere di vari Paesi che non si differenziano l’una dall’altra; se va in Cina, la lirica è la Traviata o il Ring wagneriano. Ma se prendiamo in considerazione personaggi come Orbán, Erdogan, Putin, allora parliamo del proitto, della redistribuzione degli utili, in un modo opposto a quello socialdemocratico. Chi serve il tiranno può avere successo e soldi, chi non lo serve è escluso».
Sta dicendo che l’ideologia identitaria è solo una maschera del potere?
«No. Ma perché una simile ideologia vinca occorre che ci sia bisogno di identità e nostalgia per un capo che indichi la strada, dica cosa fare: la sindrome della paura della libertà».
Resta inevasa la domanda sul perché abbiamo bisogno di identità.
«Perché è molto difficile essere umani. Il mondo in cui gli umani crescono è pericoloso, strano, o nel migliore dei casi, difficile. Per combattere la solitudine l’essere umano deve definire se stesso». Era più più facile essere umani in una società di classi, dove era chiaro chi era il subalterno?
«Era più facile finché esistevano le comunità. Si nasceva, si viveva, si moriva nello stesso luogo. E tutti sapevano a quale luogo e quale classe appartenevano».
Sarebbe di rito una domanda sul futuro della sinistra. Ma invece cito Zygmunt Bauman, che un giorno mi disse: dal momento che non ci sono più modi di vita e quindi identità di classe operaia, è difficile definire la sinistra.
«La divisione tra destra e sinistra appartiene al passato. Esisteva dalla metà dell’Ottocento e fino alla fine del Novecento. Oggi in Europa la linea di divisione passa tra i federalisti e il nazionalismo etnico. La vittoria dei nazionalismi etnici signiicherebbe la fine dell’Europa. Non è retorica. Non abbiamo più la forza economica né la nostra cultura è particolarmente interessante. Ci resta solo la democrazia liberale. Se rinunciamo a questa, abbiamo chiuso».
Domanda supplementare. Cos’è il Male?
«Sono in totale disaccordo con Hannah Arendt: il Male non è banale né è la mancanza di riflessione. E del resto neanche lei lo poteva pensare seriamente, lo ha detto perché era incapace di tradire il pensiero di Heidegger. Io ho la mia concezione del Male e del Male radicale. In breve, e per citare Thomas Mann, tutti noi violiamo i dieci comandamenti, desideriamo la donna altrui, a volte rubiamo, nell’immaginazione uccidiamo. Ma il Male radicale si ha quando qualcuno dice: devi rubare, devi uccidere, devi far soffrire l’altro. E perché quel Male si manifesti, occorrono certe condizioni sociali e politiche».
E la cosa più importante nella sua vita?
«Dipende dal momento. Ma il momento più bello fu quando vidi il carro armato sovietico entrare nel ghetto dove ero rinchiusa. Quel carro armato significava vita».
Gli stessi carri nel 1956 portarono morte e oppressione.
«La liberazione non sempre significa libertà. Le ho detto che è difficile essere umani».


Con “Identità”, la quinta delle “parole del presente” scelte da Wlodek Goldkorn per mettere a fuoco i cambiamenti epocali in corso, si conclude una serie di incontri con figure di primo piano del mondo della cultura. Il ciclo di interviste è iniziato a maggio con il termine “libertà”, definito insieme con il grande intellettuale polacco Adam Michnik. A seguire è stata la volta dello scrittore spagnolo Javier Cercas, alla ricerca del senso dell’“onestà”. Donatella Di Cesare ha riflettuto sull’idea di “straniero”. Il sociologo Ilvo Diamanti ha ragionato intorno alla parola “populismo”. A chiusura, Ágnes Heller, molto amata dai lettori italiani. I suoi saggi più recenti sono editi da Castelvecchi (“Una teoria della storia”, “Il potere della vergogna”, Foto: M. Toniolo - Agf “Il lungo cammino delle donne”) e Mimesis (“Un’etica della personalità”). dall’invasione sovietica, ndr) non ha niente a che fare con l’esperienza del 1956 come me la ricordo io». Resta il fatto che le memorie e le identità degli sconfitti (come i rivoluzionari ungheresi o, un esempio più radicale, il mondo yiddish scomparso durante la Shoah) sono tuttora importanti. Perché lo sono? Per quale motivo ne siamo devoti? O sbagliava Walter Benjamin, quando diceva che nella memoria degli sconfitti si possono leggere elementi del futuro?




ALCUNI SETTIMANALI

l’espresso 30.9.18
Manifesto di un’ ideologia feroce
Il decreto Salvini nega diritti sanciti dalla Costituzione. E opera discriminazioni fra i cittadini come mai era accaduto nella storia della Repubblica
Di Marco Damilano

l’espresso 30.9.18
C’è una politica che da tempo indica nello straniero il “nemico pubblico”. In comune con il passato c’è l’indifferenza
La deriva razzista diventa legge
di Aboubakar Soumahoro

l’espresso 30.9.18
Per batterli serve una “nuova Europa”
Di Gianni Cuperlo

l’espresso 30.9.18
Le parole del presente/5 IDENTITÀ
Dissento dunque sono
colloquio con Ágnes Heller
di Wlodek Goldkorn
La libertà di giudizio costa molto cara. Persino accuse di tradimento. Ma è l’unica forza in grado di opporsi al Male. Così dice la grande filosofa