La Stampa TuttoLibri 13.10.18
Aspettando le avanguardie la creatività si tinge di occulto
A
Palazzo Roverella una mostra ripercorre la fascinazione per
l’esoterismo che ha coinvolto l’Europa a cavallo tra l’800 romantico e
la modernità del ’900
di Marco Vallora
Questa su
Arte e Magia è la classica mostra, che se ti capitasse di vedere al
Musée d’Orsay o in qualche rara istituzione belga, saccenza ti
suggerirebbe di maledire: «Ma possibile che mostre così, noi, in Italia,
ce le dobbiamo sognare?!». E invece no, basta prendersi il treno per
Rovigo, ed ecco la buona sorpresa. Che poi non è così integrale, perché
da tempo Palazzo Roverella ci ha abituato a mostre di tutto rilievo,
grazie anche allo scrupoloso e dotto studioso Francesco Parisi e
preziosi cataloghi Silvana. Che per fortuna, portandoci via dall’ormai
uggioso e setacciato terreno dell’Impressionismo, grazie a sondaggi
preziosi negli ambiti delle Secessioni nazionali e di quel fertile
periodo simbolista, tra Ottocento post-romantico e Novecento
pre-avanguardie, promette e mantiene, non poche e poco sospettate
golosità espressive. Certo, l’ambito del cerchio magico ed artistico,
intorno a quella singolarissima figura del nobile Péladan, che si
ribattezza Sâr come un satrapo assiro, e fonda la scuola mistica (e
cattolica) dei Rosacroce (coinvolge anche l’eccentrico Satie, che gli
compone una marcetta personale) è già stata toccato da una recente
mostra alla Fondazione Guggenheim. Ma qui il campo, che pure lo sfiora
(visto che molti degli artisti presenti si rifanno al suo precetto:
«Osare, volere, sapere, tacere») è molto amplificato. Infatti uno dei
temi nevralgici della mostra è proprio quello dell’iniziazione, del
silenzio programmatico, per non svelare arcani appresi in segreti
consessi. E potremmo infatti partire proprio dalla sculturina in grès,
La pleureuse, del poco frequentato Charles Gréber (in stile Minne) che
rappresenta una sorta di panneggiata figura, senza volto, incappucciata,
quasi una colonna piangente. Col velo che pare una cascata di dolore, e
sforma ogni possibile fisionomia.
Il grès è un materiale
invetriato, che moltiplica trasparenze e lascia sospettare una materia
mobile, spiritica, sotto la madreperlacea superficie riflettente.
«Sotto»: il gusto che andiamo a incontrare è proprio questo, ambiguo,
anfibio. Diviso, schizofrenicamente, tra un bisogno intrinseco di
silenzio arcano e confessionalmente enigmatico, omertà idealizzata, e
simultaneamente l’esigenza di ostendere questi messaggi segreti ed
iniziatici, inconfessabili (ma qui tutto si fa «in»: indicibile,
invisibile, inspiegabile, e mettiamoci pure l’in-conscio). Omaggiato da
gestualità che tornano, quasi ricorrenti (nei più diversi paesi toccati,
e sono molti, Cecoslovacchia compresa). Ma modulati da una fantasia
araldica e grafica, che è prodigiosa (splendida sezione curata da
Emanuele Bardazzi). Il segno confessionale del dito avanti alla bocca,
che richiama il celebre gesto del Dio Horus, che proibisce confidenze ai
non-iniziati. E che passa dal belga Khnopff (con quelle figure
sfibbrate in un pulviscolo di luce) al nostro toscano Kienerk, allievo
macchiaiolo di Cecioni (che colpevole s’abbevera alla cultura
esoterica). Da Carlos Schwabe, il grafico titolato del Sâr Péladan a
Pierre-Félix Fix-Masson, uno dei classici aristocratici con nome
multiplo, che tradisce il suo lignaggio, per meritarsi altri titoli
virtuali: babilonesi od egizi. Perché in quegli anni, in cui
l’archeologia in crescita scientifica, ha liberato la Sfinge di Giza,
dalla polvere del deserto che la nascondeva agli sguardi, tutto
riverbera quest’aura recondita. E la scienza positivista dei Raggi X,
cerca di rincorrere simili fenomeni medianici (telecinesi, «piante
mesmeriche», apporti), introdotte dalle «cattive scienze». Una nuova
egittomania, nutrita soprattutto di mistica sapienziale orientale
(Eliphas Lévy e la riscoperta di Ermete Trimegisto, ma c’è anche il mago
Crowley).
L’idea (e l’ideale) di un’arte dell’invisibile, che
cova sotto la pelle della realtà (in odio con il realismo alla Zola). La
scoperta di mondi «altri», rispetto al gusto classico e al dogma della
riproduzione fedele. Qui, in questo universo incarnato dalle teorie di
Schuré (sui Grandi Iniziati: equiparando Gesù a Buddah, Abramo ai Veda, e
ad altri profeti artistici, come Wagner, Moreau e Odilon Redon) è tutta
una festa, liturgica e talvolta turgida, di cuori fiammanti e palpebre
socchiuse, di estasi carnalissime e astri raggianti, di gigli,
bafometti, circi con maiali succubi e vampiri-camaleonti, androgini,
calici sanguinanti, mani che ghermiscono teschi e serpenti dal volto
umano. Melanconico od estatico. Perché uno dei temi, che transitano
attraverso questa funerea e voluttuosa kermesse di teosofia ed
occultismo, satanismo e spiritismo (ovviamente con la figura dubbia di
Eusapia Palladino, che attrae persino Bergson e i Curie) stregoneria a
parte, è proprio quella dell’automatismo medianico. Che ha
impressionanti analogie con le pratiche surrealiste (e le streghe di
Grasset, che filtrano frammentate, attraverso tronchi di foreste, sono
già puro Magritte simbolista). Così, accanto a nomi celeberrimi, che non
potevano mancare, da Rops a Ensor, da Kupka a Delville, da Moreau a
Martini(collezione Magritte!) si scoprono curiosi connazionali segreti.
Come il suicida ventiquattrenne Gabrielli, «amico degli scheletri», che
ritrae Oriani, mentre Romani si fa rifiutare il ritratto di Dina Galli,
perché si trova troppo ectoplasma. Geniale Corinto Corinti, che come un
nostrano Achilles Rizzoli, prepara per Vittorio Emanuele II un
monumento, che sta tra la torre e lo stupa.