il manifesto 13.10.18
Sogni, immagini e parole. Il ’68 a Milano
Eventi.
Un'esposizione - dove scorrono le immagini di Uliano Lucas - che è
narrazione di quell’anno attraverso le forme di comunicazione utilizzate
dai movimenti
di Antonello Catacchio
MILANO
Forse è l’ultima delle tante mostre che hanno celebrato i 50 anni dopo.
Ma solo in ordine di tempo. Si tratta infatti di Un grande numero. Segni
immagini parole del 1968 a Milano, al Base di vie Bergognone 34, che
chiuderà lunedì 22 alle 18,30 quando Uliano Lucas dialogherà a proposito
del suo volume Sognatori e ribelli (Bompiani 2018). Perché Lucas?
Perché le sue immagini scorrono a corredo dell’intera mostra, partendo
ovviamente da qualche anno prima, come il concerto dei Beatles, il Piper
(dove nel ’68 suona Hendrix), l’immigrazione per arrivare a Licia
Pinelli in tribunale, a quell’insieme di pochi metri in cui molto è
successo: la morte del poliziotto Annarumma, la strage della Banca
dell’agricoltura, la statale assediata, occupata, sgomberata, la morte
di Saltarelli che l’anno dopo la strage manifestava e veniva colpito da
un lacrimogeno sparato come un proiettile.
La mostra nel suo
insieme, pur essendo focalizzata su Milano, deve però aprirsi con uno
sguardo sul mondo come premessa per far comprendere. Ecco allora
scritte, manifesti, foto, documenti sul terribile ’68 statunitense con
gli assassinii di Bob Kennedy Martin Luther King, la mattanza della
convention democratica a Chicago, ma anche la nascita del Black Panther.
Poi Parigi e la Francia, la Germania, Praga invasa dai carri armati del
patto di Varsavia (quindi la rottura tra il partito comunista che
difendeva l’intervento e i gruppi nascenti alla sua sinistra), l’Africa,
L’America Latina (con il Che da poco assassinato) e soprattutto il
Vietnam con la sua guerra di liberazione contro l’imperialismo
americano. A Milano invece i primi fermenti erano stati La zanzara, la
protesta all’Università Cattolica, i beat e Barbonia City. Si
manifestava dissenso, critica e speranza, anche i provos in piazza
contro i colonnelli greci, piuttosto che contro Franco in Spagna che
ancora garrotava. All’inaugurazione della Scala si tiravano le uova ma
perché la polizia aveva sparato a Avola. I giovani volevano prendere in
mano il loro destino: i ragazzi allungavano i capelli, le ragazze
accorciavano le gonne.
L’autoritarismo sino allora dominante
veniva messo in discussione, non esistevano più tabu, il piacere del
sesso irrompeva, l’esplosione della musica dirompeva, il potere e i
benpensanti rompevano. E manganellavano. Un manifesto francese in mostra
gioca sulle parole grève e crève (sciopero e crepa) seguito da
generale, già perché in Francia al potere c’era proprio un generale che
aveva combattuto i nazisti, ma, da conservatore nazionalista, anche gli
algerini che volevano affrancarsi dal colonialismo. C’era un gran
fermento, le scuole venivano occupate una dopo l’altra, anche nelle
fabbriche ci si muoveva, ma ancora con educazione: una foto, presa
presumibilmente davanti alla fabbrica OM, mostra una persona che parla
al megafono, per farsi vedere è salito a cavalcioni tra due auto, ma
poggia i piedi su dei fogli di carta per non rovinare l’auto.
Di
lì a poco le cose cambieranno non poco. Polizia, bombe, servizi, eroina
faranno il loro sporco lavoro. Ma non hanno potuto cancellare quella
voglia di cambiamento, quelle assemblee infinite, quella ricerca di
futuro diverso e migliore che la mostra sottolinea e racconta (anche con
filmati d’epoca), quel tentativo che ha scosso il mondo intero
provocando un terremoto politico e sociale che oggi sembra appartenere
alla preistoria. Per fortuna qualcuno, compresi gli studenti
dell’Università IUAV di Venezia, tra i curatori della mostra, sa ancora
fare i conti: 68 meno 50 fa 18, l’età in cui, come scrive uno studente
IUAV «ho imparato a viaggiare con la mente nelle epoche storiche, ma
osservando con 2018 occhi. Ora si comincia a suonare». Speriamo.