La Stampa 13.10.18
1938, lo Stato italiano contro gli ebrei
Non solo Mussolini, il parlamento e il re ma anche i volenterosi carnefici del regime
di Vladimiro Zagrebelsky
La
responsabilità delle leggi razziali antiebraiche introdotte a partire
dal 1938 è certo di Mussolini, del parlamento fascista (alla Camera dei
Deputati 340 voti favorevoli, 0 contrari) e di Vittorio Emanuele III;
quest’ultimo successore sul trono di Carlo Alberto, che novant’anni
prima aveva dato lo Statuto (tutti i regnicoli sono eguali dinanzi alla
legge) e riconosciuto a ebrei e valdesi i diritti civili. Tra leggi e
circolari l’espulsione degli ebrei dalla vita sociale fu progressiva e
alla fine completa. L’impulso politico che aveva prodotto le leggi e le
circolari ministeriali richiese atti di esecuzione.
La macchina della vergogna
In
particolare, per l’espulsione degli ebrei dai posti che occupavano
nelle professioni liberali e nella pubblica amministrazione, furono
necessari atti amministrativi individuali per ciascuno dei colpiti.
Molti organismi, molte persone furono quindi coinvolti e parteciparono
all’opera.
Alla ricostruzione dell’esecuzione delle leggi razziali
e all’identificazione di coloro che ne furono vittime si sono dedicati
gli autori di due recenti studi. Il Consiglio Superiore della
Magistratura e il Consiglio Nazionale Forense hanno da poco pubblicato
un volume sull’allontanamento di magistrati e avvocati ebrei. Annalisa
Capristo e Giorgio Fabre, per Il Mulino, pubblicano ora Il Registro - La
cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte
dei Conti, 1938-1943 (pp. 344, € 26). Questo volume raccoglie le
informazioni derivanti dalla documentazione della Corte dei Conti,
chiamata a registrare la maggior parte dei provvedimenti di esclusione
dai posti nella Pubblica Amministrazione.
Il censimento
Si
tratta di circa 720 funzionari ebrei (56 dei quali sarebbero poi finiti
nei campi di concentramento nazisti). Vi fu un censimento innanzitutto,
con richiesta a centinaia di migliaia di dipendenti pubblici di fornire
indicazioni sulla loro razza, discendenza, religione. Tutti dovettero
rispondere (e risposero) e quindi, applicando complessi criteri, fu
compilato l’elenco di coloro che dovevano ritenersi ebrei. Prima di
essere cacciati, molti dipendenti pubblici, magistrati, avvocati ebrei
scelsero di dimettersi o di cancellarsi dagli albi degli avvocati.
Furono 14 i magistrati esclusi dall’Ordine giudiziario. Ogni posto
«liberato» fu occupato da un dipendente non ebreo.
Si tratta di
volumi che non solo coltivano il ricordo di chi fu colpito e la memoria
dell’infamia dello Stato, ma anche consentono di non limitare e, per
così dire, esaurire l’esecrazione con la condanna dei massimi
responsabili politici. È infatti necessario allargare lo sguardo e
chiedersi come fu possibile la rapida, solerte esecuzione di simili
leggi, nella sostanziale indifferenza della società e dei colleghi delle
vittime. E poi chiedersi come reagirebbero oggi la società italiana e
le sue varie istituzioni, dovesse mai riprodursi una situazione di tanto
grave ingiustizia delle leggi.
Una prima risposta richiama il
peso schiacciante della dittatura e l’eliminazione dell’indipendenza
della magistratura e dell’autonomia dell’avvocatura. I Consigli
dell’Ordine degli avvocati erano stati progressivamente privati di
competenze e sostituiti dal Sindacato fascista.
Una formula brutale
Ma
a quel contesto istituzionale, da cui oggi siamo tanto lontani, va
aggiunta la posizione della legge nel diritto e nella cultura giuridica
di quel tempo: la legge indiscutibile, nessuna istanza superiore alla
legge, cui richiamarsi per metterla in discussione. L’unica alternativa
alla applicazione della legge era la sua violazione, oppure,
sporadicamente, sforzi interpretativi e limitativi di cui in qualche
caso fece uso la magistratura.
Quelle leggi e quelle introdotte
nella Germania nazista e in altri Stati europei, poi concluse con la
Shoah, hanno messo in crisi nel dopoguerra la pretesa di indiscutibilità
delle leggi. Dopo l’esperienza nazista vi fu chi come Gustav Radbruck,
il filosofo del diritto tedesco, riprese l’idea di un diritto al di
sopra delle leggi, rispetto al quale le leggi positive possono tradursi
in torto legale e quindi da non applicare. La riflessione filosofica è
poi divenuta una realtà normativa, quando in Italia e in gran parte
d’Europa si affermò la superiorità della Costituzione sulle leggi. Venne
poi resa concreta la responsabilità degli Stati rispetto ai diritti
fondamentali, con le Carte internazionali e particolarmente, in Europa,
con la Convenzione europea dei diritti umani e la sua Corte.
Il
criterio che si riassume nella brutale formula dura lex sed lex è oggi
inammissibile. Non è più necessario il coraggio di rifiutare
l’applicazione di una legge ingiusta, incompatibile con i diritti
fondamentali dell’uomo. Ora, qualunque sia la forza del legislatore,
qualunque sia l’atteggiamento dell’opinione pubblica, per tutti e in
primo luogo per i giudici sarebbe un dovere sottoporre una simile legge a
uno scrutinio superiore, quello fondamentale della giustizia.