La Stampa 30.10.18
Così ho prestato occhi e orecchie al regista per fargli conoscere la malattia della “mafiosità”
di Francesco La Licata
Tommaso
Buscetta, nel corso della sua lunga e controversa esistenza mediatica,
ha quasi sempre ricoperto il ruolo di protagonista o, comunque,
personaggio di primo piano. Anche quando è stato egli stesso a cercare
l’inganno del basso profilo («Sono solo un soldato semplice») per
stornare l’attenzione da sé. Anzi, proprio l’essere considerato un
leader pur non indossando i panni ufficiali del capo, ha contribuito
all’affermazione del suo mito.
È stato definito il boss dei due
mondi, ma anche il principe dei pentiti: due appellativi antitetici per
definizione, ma ben conviventi in quell’unico, indimenticabile
personaggio immortalato nell’aula bunker di Palermo mentre fa il
delatore riuscendo però a mantenere «dignità mafiosa» e ottenendo il
rispetto (il silenzio degli imputati) di quelli che aveva appena
«tradito».
Marco Bellocchio, tuttavia, non ha voluto limitarsi al
racconto di un’epopea (qual è stata la vicenda del maxiprocesso e dello
stesso Buscetta), né si è accontentato di affrontare «la storia di don
Masino». Il regista ha voluto immergersi dentro la mente, dentro la
psiche, dentro i sentimenti di un uomo difficile, alla ricerca
dell’origine di un percorso che - attraversando tutte le debolezze e le
contraddizioni umane - trasformerà il prototipo di un mafioso in un
«traditore» che viola la principale legge di Cosa nostra (l’omertà) e
ribalta l’accusa in direzione del grande nemico Totò Riina, a cui
contesta di aver, lui sì, tradito le regole di Cosa nostra - Buscetta
direbbe ideali - abbandonando ogni parvenza di umanità.
Ha dovuto
faticare parecchio, il regista, per entrare (lui così geograficamente
lontano dalla Sicilia) nel groviglio di Buscetta. Lo ha fatto servendosi
di occhi e orecchie (tra cui quelli del sottoscritto) presenti
all’epoca dei fatti, come direbbero i giudici del «Maxi». È andato più
volte a Palermo, ha letto atti giudiziari, ha visionato ore di
repertorio della «mattanza» siciliana e del «processone». Ha cercato
l’origine della malattia, di quella che Giovanni Falcone chiamava
«mafiosità», cosa diversa dalla mafia facilmente contrastabile con la
forza militare.
Di ben altra forza, invece, necessita la lotta
alla mafiosità, subdola, indefinibile, impalpabile. Gesualdo Bufalino
diceva che contro quella malattia non bastano divise e cannoni ma
servono di più eserciti di maestri elementari. Bellocchio si è immerso
in questo magma, cercando di identificarlo non tanto attraverso la
sociologia. Il suo viaggio è stato di altra natura. Ha guardato alla
testa e al cuore dei personaggi, ai rapporti familiari, all’amore
materno, alle tradizioni, alla religione, alle ossessioni, agli incubi
di uomini perduti.
Tutto questo ha cercato nel «traditore
Buscetta», perché tutto questo si nascondeva nell’anima del pentito.
Mafioso perdente fino a dover assistere alla strage dei propri figli,
maledetto dalla sorella quando si pente e provoca altri lutti. Eppure,
alla fine, troverà la sua piccola vittoria (la fine di Riina) alleandosi
con Falcone, colui che per natura avrebbe dovuto essere il suo peggior
nemico.