La Stampa 28.10.18
Il calvario delle famiglie dei malati di mente tra la nostra indifferena e quella dello Stati
di Maria Corbi
Cara
Maria, sono una mamma. Mi piacerebbe essere «solo» una mamma, di quelle
che parlano del futuro dei loro figli, sognando per loro grandi
traguardi. Io quando mi addormento ho solo un incubo: cosa ne sarà di
lui, Piero, quando io non ci sarò più? Lo ho avuto che ero molto
giovane. Insieme con mio marito, due ragazzi, dalla Calabria ci siamo
trasferiti in Veneto, a Treviso per dare un futuro a quel piccolo
esserino che ancora era nella mia pancia. Quanto siamo stati orgogliosi
di lui. E allora sì che facevo sogni, anche a occhi aperti. Poi il
destino ci ha fatto pagare con gli interessi tanta gioia. Nostro figlio
ha iniziato a frequentare cattive compagnie, iniziando a drogarsi. Droga
«leggera» come dicono, ma quell’aggettivo non è corretto. La droga non è
mai leggera. Mi dicevo: ragazzate, riuscirà a smettere e a riprendersi
la sua vita. Ma non è stato così. Il padre non ha retto e se ne è andato
(adesso ha una nuova famiglia e noi siamo solo un ricordo sgradevole).
La droga ha agito sul cervello di Piero, e a un certo punto non è stata
più la dipendenza il problema. La diagnosi è feroce: schizofrenia. O
comunque qualcosa che gli si avvicina. Mi hanno detto che capita spesso a
chi si droga. Come se quelle maledette sostanze aprissero la strada
alla malattia mentale. Sono come un «detonatore». E io ci credo avendo
vissuto questo calvario. Dovrebbe prendere delle medicine, ma non lo fa e
io non posso costringerlo. E i medici non gli fanno il trattamento
sanitario obbligatorio, non vogliono prendersi questa responsabilità. E
così tutto il peso è su di me. Ma le mie spalle sono ormai deboli e
stanno per cedere. E ti chiedo: che Stato è quello che abbandona le
famiglie dei «malati di mente»? Come si può pensare che una persona non
in sé decida di curarsi? Tutti santificano Basaglia per aver chiuso i
manicomi.E certamente i lager andavano chiusi, ma occorreva anche
trovare un’alternativa. La soluzione non può essere quella di
abbandonare malati e famiglie.
Ada Maria
Cara Ada Maria,
la tua non è la sola lettera che mi è arrivata
su questo tema così drammatico e purtroppo ancora così irrisolto. Franco
Basaglia diceva che lui era più interessato al malato che alla
malattia. Ed è giusto. Ma chi è interessato alle famiglie dei malati? In
un mondo perfetto, e con una perfetta applicazione della legge
Basaglia, il problema che tu sollevi non ci sarebbe. Perché al fianco
delle famiglie dovrebbero esserci efficienti Servizi di igiene mentale
pubblici. E un sistema che intervenga con immediatezza sulle criticità.
Il problema è che se non si ha la fortuna di essere residenti in una
regione virtuosa si è completamente soli nell’affrontare il dramma di un
familiare affetto da malattia o disturbo mentale. Anche perché i malati
non vogliono essere curati.
La legge Basaglia è stata una legge
sacrosanta, «umana», che ha detto basta ai manicomi/lager rendendo anche
i «matti» dei cittadini la cui dignità non può essere violata. Il
problema è che spesso i malati non vogliono essere curati e non
riconoscono il loro disagio. E qui sta il problema. E anche il vizio
della legge.
La legge si ispira al principio di volontarietà delle
cure. Il trattamento sanitario obbligatorio deve essere solo estrema
ratio, quando ci sono in condizioni di pericolo per sé e per gli altri. E
la difficoltà dei familiari nel gestire la situazione del malato di
mente non è considerata condizione sufficiente per disporre un ricovero
coatto. E visto che i malati non riconoscono di esserlo, spesso
rifiutano non solo le cure ma anche farmaci che potrebbero farli stare
meglio. Una situazione paradossale. Per le famiglie è un calvario e un
peso insopportabile. Come è angoscioso vivere con la paura di quello che
capiterà «dopo», quando non ci sarai più tu a sostenere tuo figlio.
Dove andrà? Chi se ne prenderà cura? Anche perché spesso in questi casi
il malato non vuole essere preso in carico da nessuno.
Quindi a
distanza di 40 anni la Legge Basaglia più che fallita, come sostieni tu,
direi che non ha avuto ancora piena applicazione. I servizi che
dovevano sostituire le cure in ricovero non sono fruibili da tutti e
comunque il «peso» rimane sempre sulle spalle delle famiglie. Quando poi
un «matto» è solo, senza famiglia, allora la situazione è ancora più
drammatica. Molti di loro vagano come zombie per le nostre città,
dormendo sui marciapiedi, nelle stazioni, nei parchi, con addosso i loro
pochi beni racchiusi in sacchetti di plastica. Tra l’indifferenza di
tutti noi. Ma soprattutto dello Stato. Ed è un gran brutto segnale del
livello di civiltà di un Paese.