Corriere 28.10.18
Governo & opposizioni
L’irrealtà politica di un Paese sul baratro
di Ernesto Galli della Loggia
Anche
se faccio parte del popolo italiano, con buona pace del vicepresidente
Salvini non mi sento affatto sotto attacco se l’euro-commissario
Moscovici critica la manovra finanziaria del governo pentaleghista di
Roma. Penso che nel merito, infatti, Moscovici abbia sicuramente degli
argomenti dalla sua(quelli davvero decisivi ce l’hanno in realtà gli
acquirenti del nostro debito pubblico). Peccato però che sia
l’istituzione che egli rappresenta, cioè l’Unione Europea, questa Unione
Europea, a non avere più alcuna presentabilità e credibilità politica.
Da questo punto di vista Moscovici ricorda Gorbaciov, l’ultimo
segretario del Pcus: diceva cose giuste ma parlava a nome di qualcosa,
l’Unione Sovietica, che palesemente stava ormai per esalare l’ultimo
respiro.
L’Unione Europea si sta avvicinando a una condizione
simile. Le elezioni che vi si terranno tra sei mesi, decretando la
probabile vittoria delle forze nazional-populiste potrebbero essere
l’inizio del suo collasso definitivo. La cosa strabiliante è che perfino
di fronte a una simile prospettiva ormai chiara da tempo nessuno dei
partiti e degli esponenti politici che hanno fin qui governato l’Unione
si sia dato la pena di pensare o fare qualcosa per invertire il corso
degli eventi. Quale testimonianza più evidente del carattere ormai quasi
comatoso della sua crisi e del marasma che domina i suoi vertici?
A
nche gli esponenti di quelle forze politiche italiane che si dicono
europeiste, e che si schierano ormai sistematicamente con il punto di
vista di Bruxelles servendosene in ogni occasione per la lotta politica
interna, anch’essi, dicevo, pur affermando da anni che l’Unione Europea è
necessaria, necessarissima, e pur aggiungendo sempre che però oggi
l’Unione così com’è non funziona, che quindi deve cambiare e che se non
cambia sarà un disastro, tuttavia finora non sono stati capaci neppure
loro di pensare una mezza idea, una proposta qualsiasi, per dirci in che
modo essa dovrebbe (e potrebbe: l’aggiunta non è irrilevante) cambiare.
Tace Forza Italia, che però ha l’attenuante di essere ormai in via di
dissoluzione, ma tace egualmente il Partito democratico.
Tace
anche nel suo «manifesto» (così definito da Repubblica di domenica 21
ottobre dove esso si stende per ben due pagine) Nicola Zingaretti, il
più accreditato candidato alla prossima segreteria del Pd. Sulla
questione cruciale dell’agonia dell’Unione Europea neppure una parola:
solo un brevissimo invito a «difendere» l’Unione che lascia il tempo che
trova. Pure da questo punto di vista, insomma, quel manifesto è
esemplare della mancanza di idee, dell’incapacità di cogliere la
drammaticità ultimativa dei tempi, in cui si dibattono le tradizionali
élite politiche del continente, specie quelle di sinistra. Della loro
difficoltà a capire l’usura spaventosa delle parole e delle formule a
cui sono state fin qui avvezze. A capire l’esigenza se si vuole anche
brutale, di concretezza che oggi domina la comunicazione politica.
Cosicché
per chi come il sottoscritto ricorda gli interminabili programmi che ad
ogni vigilia elettorale sfornava all’epoca della prima Repubblica il
Partito comunista (ma anche quello socialista o la Dc non erano da
meno), il testo zingarettiano, infatti, ha, diciamo così, un
rassicurante sapore di antico. Si comincia con l’intramontabile
«costruiamo un nuovo modello di società» (e naturalmente anche «di
sviluppo») e con l’esigenza di dar vita a «un’economia più giusta», per
poi snocciolare l’abituale lunghissimo elenco di buone intenzioni.
Riassumendo: stabilire «la mobilità sociale» e «l’equità», «ricostruire
il tessuto produttivo», «adottare globalmente misure per la
sostenibilità ambientale», «aiutare tutte le persone in condizione di
povertà assoluta», «dare gratis i libri di testo agli studenti»,
conferire «una dote per i giovani attivabile al compimento dei 18 anni
per finanziare un progetto formativo o imprenditoriale», «rendere
flessibile l’età di pensionamento», «alleggerire il carico fiscale» e
qualche altra cosa ancora che tralascio. Solo l’impegno a costruire in
ogni centro abitato fontane che invece dell’acqua diano vino è rimandato
alla prossima volta.
Ma dove trovare, ci si chiede, le risorse
per un simile gigantesco programma? Niente paura: «le risorse ci sono»,
assicura Zingaretti, «abbiamo miliardi di euro già programmati per le
infrastrutture dai precedenti governi di centrosinistra»; basta «fare un
grande sforzo di semplificazione e accelerazione delle procedure». Ed è
tutto.
Ho parlato a lungo del «manifesto» di Zingaretti perché è
esso che dà l’esatta misura della gravità della crisi politica in cui si
trova il nostro Paese. La rappresentazione più evidente di tale crisi è
per l’appunto la disputa citata all’inizio che da settimane ci sta
opponendo all’ Ue. Ma il cuore vero della nostra crisi sta solo per una
metà negli obiettivi irrealistici, nei propositi scervellati e nel fare
da gradassi del governo e dei suoi partiti. Per l’altra metà sta nell’
irrealtà programmatica, nell’inconsapevolezza assoluta dei tempi, delle
esigenze e dei modi loro propri, che regnano nel campo dell’opposizione.
Comune
a entrambi è l’abitudine degli attori della politica nostrana di essere
tanto divisivi nelle parole quanto poco divisivi nei fatti. Cioè nel
volersi distinguere ferocemente dagli avversari, trattandoli
regolarmente da farabutti o da mentecatti, ma poi una volta che si
ottiene il potere o ci si vuole andare cercare di non scontentare mai
nessuno. E quindi, ad esempio, se si è al governo come oggi sono i
5Stelle e la Lega, guardarsi bene dal prendere la minima iniziativa
capace di incidere sulle grandi questioni dove si rischia di dar
fastidio a molti che contano — ad esempio l’evasione fiscale, l’assetto
della giustizia, le regole della Pubblica Amministrazione — preferendo
invece distribuire soldi a più gente possibile; se invece si è
all’opposizione, come Zingaretti, promettere a tutti il Paese di
Bengodi.