La Stampa 26.10.18
L’opzione del voto a febbraio
di Francesco Bei
La
giornata relativamente positiva sui mercati, con lo spread sceso a 310
punti e i titoli bancari che hanno rifiatato dopo giorni di segni
negativi, non inganni. La situazione italiana resta a rischio e lo
dimostrano le parole prudenti ma affilate del presidente della Bce Mario
Draghi sull’Italia. I vertici delle grandi banche sono tutti in
allarme, la manovra del governo – checché ne dica il presidente
americano Trump – mette infatti il Paese su una rotta di scontro
frontale con le istituzioni comunitarie. E già a Bruxelles si dà per
certo che il 21 novembre la Commissione aprirà la procedura d’infrazione
contro Roma.
Nel frattempo saranno arrivati i giudizi di Standard
& Poor’s sul debito italiano (già stasera) e i risultati della
vigilanza europea sulla solidità delle nostre banche. Un collo di
bottiglia che rischia di far esondare tutte insieme le criticità della
prima legge di bilancio gialloverde.
È per questo che ai piani
alti del governo, soprattutto nella centrale leghista, si inizia a
parlare a mezza bocca di uno scenario estremo, molto lontano dalla
retorica ufficiale che colloca le elezioni alla scadenza naturale della
legislatura nel 2023. Nella maggioranza circola infatti la data di
febbraio per lo sbocco elettorale di una crisi che, da finanziaria e
bancaria, potrebbe facilmente diventare anche politica. I prossimi
quindici giorni saranno decisivi per capire se le fiamme che vediamo
oggi diventeranno un vero incendio.
Del resto, dal punto di vista
dei due leader che guidano l’esecutivo, far saltare subito il banco
potrebbe risultare una mossa meno azzardata che subire l’umiliazione del
programma Omt perché in «difficoltà economica grave e conclamata».
Sarebbe il commissariamento dell’Italia, che anche Berlusconi riuscì a
evitare. Da qui la via d’uscita più semplice, quella di una campagna
elettorale tutta giocata all’attacco di Bruxelles, con il bilancio
italiano nel frattempo congelato in esercizio provvisorio. Uno scenario
estremo e tuttavia con diversi vantaggi per i protagonisti. Benché
all’inizio del loro mandato, i gialloverdi hanno infatti consumato buona
parte del loro capitale iniziale: gli sbarchi dalla Libia, che hanno
fatto schizzare i consensi di Salvini, sono finiti; l’entusiasmo per la
cancellazione della Fornero lascerà il posto alla delusione di chi si
troverà in pensione con assegni decurtati; il reddito di cittadinanza,
spalmato al 70 per cento in Sicilia e Campania, produrrà invidia sociale
nelle altre regioni; la crisi delle banche si porterà dietro una
stretta del credito che colpirà le imprese del Nord; le scelte politiche
sulle infrastrutture, dalla Tav alla Gronda, comporteranno scontento in
una parte dell’elettorato. Insomma, da adesso in poi non potrà che
andare peggio, come è inevitabile quando si passa dalle promesse
elettorali alla dura realtà del governo. Dunque, perché non fermare le
lancette e incassare lo stellare 60% ancora accreditato a Lega e M5s? La
tentazione, ovviamente, alberga più nella Lega. Salvini infatti può
costruire un’alleanza competitiva, ricostruendo il vecchio centrodestra
come piedistallo personale per il suo ingresso a Palazzo Chigi. Con il
40-43 per cento che gli accreditano i sondaggi, il centrodestra
governerebbe da solo. I Cinquestelle infatti non potrebbero far fruttare
il loro 30 per cento solitario, mentre il Pd sarebbe preso alla
sprovvista senza un leader e nemmeno una coalizione.
Questa è la
posta in gioco delle prossime due settimane, questo nasconde quel numero
maledetto - 300 – che continua a separare i titoli italiani da quelli
tedeschi.