Repubblica 26.10.18
L’inchiesta
I ricatti dentro l’Arma " Quelle carte su Cucchi sono il mio salvavita"
La congiura del silenzio mostrò fin da subito le prime crepe Perché molti nascosero le copie di documenti compromettenti
di Carlo Bonini
Roma
La congiura del silenzio sull’omicidio di Stefano Cucchi non solo ha
fatto deragliare per nove anni la ricerca della verità ma ha impiccato i
vertici dell’Arma al nodo scorsoio del ricatto. Come documentano gli
atti depositati dal pm Giovanni Musarò, falsi, omissioni, menzogne hanno
imbalsamato in un patto non scritto di omertà l’intera catena
gerarchica. E in nome del simul stabunt simul cadent, appuntati hanno
dunque potuto ricattare marescialli, marescialli ricattare maggiori,
maggiori ricattare colonnelli, colonnelli ricattare generali.
Contribuendo ad alzare giorno dopo giorno, anno dopo anno, il costo
della verità, fino a renderlo insostenibile per chi l’aveva in origine
manomessa. Anche quando, era il gennaio 2016, la crepa aperta
dall’inchiesta bis a carico di cinque carabinieri lasciava presupporre
che il muro di gomma alzato nel 2009 avrebbe potuto cedere di schianto.
L’indagine interna del 2016
Sappiamo
ormai che, nel novembre del 2015 (" Repubblica" ne ha dato conto ieri),
militari del Nucleo investigativo di Roma, su disposizione del Reparto
operativo omettono di acquisire la prova regina ( una mail inviata dal
tenente colonnello Francesco Cavallo) che indica nel Comando di Gruppo
di Roma la regia dei falsi consumati nella caserma di Tor Sapienza. Un
"buco" che rende monco il materiale di cui la Procura aveva fatto
richiesta al Comandante provinciale e necessario a impedire al pm Musarò
di risalire nelle ricerca delle responsabilità lungo la catena
gerarchica. Ma l’appuntamento con la verità viene nuovamente e
significativamente mancato tre mesi dopo, nel gennaio del 2016. E ancora
una volta per mano dell’allora Comandante provinciale di Roma, il
generale Salvatore Luongo, oggi capo ufficio legislativo al ministero
della Difesa. Accade infatti che in quello scorcio di 2015, il 12
dicembre, l’allora comandante generale Tullio Del Sette, disponga che il
Comando provinciale proceda a un «punto di situazione sul caso Cucchi».
Del Sette avverte infatti l’urgenza di uscire dall’angolo in cui l’Arma
è stata cacciata dall’indagine Cucchi-bis. «Il punto di situazione »
sarebbe l’ennesima occasione per mettere mano a carte ed archivi e
venire a capo delle tracce lasciate dalle macroscopiche manipolazioni
che quelle carte e quegli archivi hanno conosciuto tra il 17 e il 28
ottobre del 2009.
Per altro, gli indizi non mancano. Per far
sparire la nota del carabiniere Francesco Tedesco del 22 ottobre 2009
(quella che accusa del pestaggio di Stefano i carabinieri Alessio Di
Bernardo e Raffaele D’Alessandro) è stata alterata la sequenza
informatica dei protocolli interni della stazione Appia. Per aggiustare
le testimonianze sulle condizioni di Stefano al momento del suo arrivo a
Tor Sapienza sono state " aggiustate" le annotazioni di servizio (
trasmesse nel novembre 2015 alla Procura) dei piantoni in servizio
quella notte.
Ma il generale Luongo non vede oltre quanto in quel
momento accertato dalla magistratura. La sua indagine interna, di cui
rassegna al Comando generale le conclusioni il 19 gennaio 2016, è una
pedissequa « ricognizione » — a quanto ne riferiscono oggi fonti
qualificate del Comando generale — « in linea con le risultanze fino a
quel momento emerse dall’indagine della Procura». La morte di Stefano
Cucchi — questa la sostanza — è faccenda che riguarda solo e soltanto i
cinque carabinieri allora indagati da Musarò. Tre dei quali, non a caso,
e proprio in forza della relazione di Luongo, vengono sottoposti a
procedimento disciplinare (Tedesco, Di Bernardo, D’Alessandro).
La paura del trasferimento
Ora,
non è dato sapere cosa sia passato sotto gli occhi e nella testa di
Luongo ( il generale si è reso indisponibile alle domande di
"Repubblica"). Mentre è un fatto — lo documentano le intercettazioni
disposte dalla Procura — cosa passasse e sia continuato a passare nella
testa di chi conosceva la verità. A cominciare dal maresciallo
Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione di Tor
Sapienza. Quella cui il Comando di Gruppo ordinò di falsificare le
annotazioni. Alle 18.30 del 26 settembre scorso, il maresciallo parla al
telefono con il fratello Fabio. È un lungo sfogo. L’anticipazione di
quanto metterà a verbale il 18 ottobre successivo. È preoccupato per
quel che sa e per il modo con cui la catena gerarchica dell’Arma proverà
a incastrarlo. O comunque depotenziare quel che è ormai intenzionato a
raccontare. Dice: « C’è preoccupazione, Fabio, perché mo’ ti fanno
l’esame di impiego. E se mi trovo trasferito alla Compagnia speciale?
Perché c’è da aspettarsi questo, adesso. Che mi trasferiscano, in modo
tale che poi legittimano le mie dichiarazioni verso l’alto con il
risentimento del trasferimento. Loro sono furbi, ma io non è che faccio
sto lavoro da un anno. Ho capito come giustificano». Già, " Loro" ( i
vertici dell’Arma) sono "furbi". Ma lo è pure lui: «Io per fortuna,
Fabio, la mail l’ho stampata. L’hanno vista in tanti. Ho fatto già un
primo filmino, ma non viene bene. Lo devo rifare perché ho paura che mi
cancellino la mail. E quella è il mio salvavita».
Come un’assicurazione
C’è
chi va più per le spicce. Ed è l’avvocato Giuseppe Di Sano, cugino del
carabiniere Francesco, uno dei due piantoni della stazione di Tor
Sapienza indagato per la falsa annotazione sulle condizioni fisiche di
Stefano. Al telefono, la mattina del 25 settembre, il militare chiede
consigli. E quelli che riceve, se è vero che costano al cugino avvocato
l’iscrizione al registro degli indagati, fotografano con brutale
sincerità l’abisso in cui nuotano i vertici dell’Arma. Dice Giuseppe Di
Sano: « Francesco, ascoltami, tu queste cose ( il carteggio con la mail
del Comando di gruppo che impone di aggiustare le relazioni, ndr)
conservale, perché se va tutto come spero, ‘ste cose ci serviranno dopo.
Per ricattare l’Arma. Perché se tutto si chiude come spero e poi l’Arma
ti dice " guarda che per noi però tu non puoi più stare qua", allora
rispondi: " Io ho queste cose qui in mano, che fate? Mi fate restare o
vado al giornale?"» .