La Stampa 26.10.18
Referendum per decidere se legalizzare la bestemmia
di Vittorio Sabadin
La Repubblica d’Irlanda vota oggi per l’elezione del presidente (sarà confermato Michael Higgins) e per l’abolizione del reato di bestemmia. Secondo i sondaggi, quello che era uno dei Paesi più cattolici d’Europa voterà sì nel referendum che chiede di togliere dalla Costituzione del 1937 la definizione della blasfemia come atto criminale, oggi punibile con una ammenda fino a 25.000 euro.
La norma è ampiamente disattesa. È dal 1855 che nessuno viene condannato, ma tre anni fa il comico inglese Stephen Fry era stato indagato per avere definito in tv Dio «capriccioso», «meschino», «maniaco» e incapace di creare un mondo meno ingiusto. La Garda Siochana, la polizia irlandese, ha ritirato qualche mese fa la denuncia, applicando una legge approvata nel 2009, in base alla quale il reato di blasfemia è punibile solo quando offende un numero elevato di persone.
Cattolici in calo
Ed è proprio questo il punto: i cattolici in Irlanda diminuiscono da anni, parrocchie e chiese sono prive di sacerdoti e quelli in attività hanno quasi tutti più di 60 anni. Lo scandalo dei preti pedofili ha avuto un grande peso nel disilludere i fedeli, sgomenti per le coperture garantite dalla diocesi di Dublino e dal Vaticano, e per nulla rasserenati dalla lettera di denuncia di Benedetto XVI nel 2010. Nel maggio scorso l’Irlanda ha depenalizzato l’aborto e la visita di papa Francesco in agosto, nella quale ha chiesto perdono per gli abusi dei sacerdoti, ha radunato solo 130 mila persone contro le 500 mila previste. Nel 1979, per Giovanni Paolo II ne era arrivato un milione.
Sia la Chiesa cattolica che quella anglicana irlandesi si sono espresse a favore dell’abolizione del reato di blasfemia, giudicandolo obsoleto e difendendo il diritto alla libertà di espressione «entro certi limiti». Una posizione sostenuta anche da Liam Herrick, direttore del Council for Civil Liberties: «La libertà di espressione è il cuore della nostra democrazia e deve comprendere affermazioni che sfidano e ridicolizzano idee e istituzioni».
In Italia la bestemmia non è più un reato dal 1999, anche se è ancora in vigore una sanzione amministrativa fino a 329 euro per chi non rispetta le regole civili offendendo pubblicamente i credenti. Ma la norma vale solo per le bestemmie rivolte al Dio di ogni confessione. Per quella cattolica, per esempio, la blasfemia contro la Madonna, i santi e i profeti non è condannata dalla legge, perché non sono considerati divinità.
La Stampa 26.10.18.
Monsignor Vincenzo Paglia
“Non tocca a noi fare il lavoro sporco della morte”
di Andrea Tornielli
«Dobbiamo fare attenzione a non sostituirci alla morte, facendo noi il suo lavoro sporco…». Il vescovo Vincenzo Paglia, presidente dell’Accademia per la Vita, ha seguito il caso del suicidio di Fabiano Antoniani, in arte dj Fabo, accompagnato a morire in Svizzera dal radicale Marco Cappato che si è autodenunciato è stato chiamato a rispondere di istigazione e aiuto al suicidio. E commenta la decisione della Corte Costituzionale che ha rimandato all’anno prossimo il suo pronunciamento sull’articolo 580 del Codice penale, invitando il Parlamento a legiferare sull’argomento.
Che cosa pensa della decisione della Corte?
«Staremo a vedere, è interlocutoria. Io ritengo che una cosa sia il ruolo di Marco Cappato nell’accompagnare dj Fabo al suicidio, un’altra chiedere l’abolizione dell’articolo del codice che parla dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio. Credo vi siano delle ragioni perché quell’articolo venga mantenuto».
E quali sono, a suo avviso?
«Come possiamo escludere che non vi possano essere casi di vera e propria istigazione al suicidio da parte di persone che possono avere, ad esempio, interessi economici nel far terminare la vita di un parente malato? O casi in cui il suicida è stato magari con poca lucidità aiutato nel vero senso della parola a togliersi la vita, quando invece c’erano margini per un esito diverso? Insomma, stiamo giocando con un bene inestimabile e preziosissimo, e dobbiamo fare attenzione e non fare noi il lavoro sporco della morte. Noi dobbiamo aiutare la vita, dobbiamo aiutare le persone a vivere».
Ha seguito il processo a Cappato?
«Non ho seguito attentamente il processo e non vorrei pronunciarmi. Rispetto la sentenza dei giudici di Milano che lo hanno assolto. Ma non sono convinto che per questo sia necessario dichiarare incostituzionale l’articolo del codice penale che riguarda l’istigazione al suicidio».
Perché, secondo lei, non va dichiarato incostituzionale?
«Come ho detto, non possiamo ipotizzare che l’unico caso possibile sia quello all’origine della discussione odierna. Cappato ha accompagnato dj Fabo ma credo che fino all’ultimo dj Fabo abbia avuto la possibilità di decidere se andare fino in fondo con il suo gesto».
Che cosa ci insegna questa vicenda?
«La vita è un dono, va custodita, sostenuta, aiutata e sempre difesa: vale per la vita di chi deve nascere, per la vita di chi è condannato a morte, per quella di chi è condannato dalla fame, per quella di chi è condannato dalla violenza. Quando ci troviamo di fronte a una persona determinata a mettere fine alla sua vita, siamo davanti a una sconfitta. Non solo per lui, che purtroppo ha sentito di non farcela a vivere, ma anche per noi tutti, per la nostra società che non è stata capace di rispondere. Il grido di qualcuno che decide di suicidarsi è comunque una grande domanda di amore, di senso della vita. Dobbiamo fermarci a riflettere su questo, al di là degli steccati ideologici. E possibilmente suggerire soluzioni che non vengano assunte sempre sulla scorta delle emozioni o del caso di cronaca».
La Stampa 26.10.18
Cocaina a 12 anni
La prima volta spaventa Torino
“E’ un’emergenza”
di Massimiliano Peggio
«La cocaina mi fa sentire onnipotente». «Mi fa superare i limiti». «Mi rende un leader». Così dicono i baby-tossici, giustificando la loro dipendenza da cocaina. Adolescenti sotto i 18 anni. Per lo più consumatori di cocaina fumata, sotto forma di crack, inalata con bottiglie e cannucce. A volte lo fanno in gruppo, come rituale. Chi vi partecipa finanzia l’acquisto delle dosi versando una quota. Con i soldi della paghetta dei genitori, rubando in casa o rapinando i coetanei. Un fenomeno in crescita che ha messo in allarme il servizio per le tossicodipendenze della prefettura. «Una criticità emergente - si legge nell’ultima relazione - è quella dei giovanissimi segnalati più volte per cannabis o per la prima volta, ma per sostanze quali la cocaina».
I prezzi bassi
Sono 15 i minorenni segnalati nel 2017 come consumatori di cocaina agli uffici «Not» della prefettura, il nucleo operativo tossicodipendenze che tratta i procedimenti amministrativi a carico delle persone fermate dalle forze dell’ordine nei controlli routine, e trovate in possesso di stupefacenti per uso personale. Un dato che non ha precedenti in passato. «In genere si tratta di assuntori di cocaina fumata e che viene tracciata nel corso delle analisi - spiega la dottoressa Emanuela Rivela, neuropsichiatra infantile - In effetti stiamo registrando un incremento di casi e un abbassamento dell’età. Ciò è dovuto a vari fattori. La facilità di reperire la droga e i prezzi contenuti favoriscono il consumo».
Le fasce di età
Non più solo i cannabinoidi, dunque, tra gli stupefacenti in voga tra i minori. Nel 2017, allargando il ventaglio delle droghe, sono stati 11 i minori, nella fascia 0-14, segnalati in prefettura come consumatori. E 254 tra i 15 e i 17 anni. Uno dei casi più gravi registrati a Torino è stato quello di un dodicenne, seguito dell’Asl della zona Nord. «Questo caso - dice la dottoressa Rivera - non rientra tra quelli della prefettura ma può essere definito come uno dei più impegnativi avvenuti in città. Perché il ragazzino ha sviluppato una dipendenza da crack irrefrenabile».
La cocaina, assunta tra i 15 e i 21 anni rischia seriamente di compromettere le funzioni cerebrali, ancora in fase di sviluppo in quella fascia di età. «Il guaio è che la cocaina fumata sviluppa una fortissima dipendenza. Più se ne consuma e più si ha voglia. Dà un piacere intenso. Ma gli effetti sono devastanti. A lungo andare si sviluppano forme incontrollabili di impulsività».
I controlli
I minori segnalati in prefettura sono stati controllati «in stazioni ferroviarie, alle frontiere nei periodi di vacanza, nei luoghi di ritrovo, come i giardinetti pubblici, nella scuole o in discoteca». Anche il dato nazionale dei baby-tossici è in costante crescita: la quota di minorenni, che dal 7,9% del 2008 è passata al 10,3% nel 2013, ha raggiunto quasi il 12% nel 2017. Lo scorso anno il Piemonte ha avuto il maggior numero di segnalati: 4.535 contro i 4.510 del Lazio e i 3.870 della Sicilia.
Il procedimento amministrativo, istruito dalla prefettura dopo la segnalazione, differisce a seconda dei casi: può essere archiviato con un invito a non fare più uso di droga, proseguire con la proposta di affidamento volontario o sfociare in sanzioni. Per i minorenni la sfida è più difficile. «La dipendenza da cocaina non può essere contrastata con una vera cura medica. E i consumatori minorenni non si aprono facilmente al dialogo. Bisogna partire da lontano, usando l’approccio degli educatori, per poter arrivare al cuore dei loro problemi e prima di affidarli alle cure di uno psicologo».
Repubblica 26.10.18
Tra i ragazzi torna l’eroina "Costa poco e si fuma ecco perché non è più tabù"
I Sert: il mercato è capillare e incontrollabile un fast food dello sballo, e il più pericoloso è quello virtuale
di Maria Novella De Luca
Roma Ci eravamo abituati a non sentirla più quella parola, "overdose". L’avevamo consegnata, insieme alle immagini lugubri di lacci emostatici e braccia solcate dai buchi, a un’era tossica di morti e feriti che speravamo dimenticata per sempre. Invece no. L’eroina è tornata. A prezzi stracciati, 10 euro per una dose in vena, 5 euro per tre " fumate". È pessima, dicono preoccupati nei Sert, tagliata con ogni tipo veleni. Ma soprattutto ai ragazzi non fa più paura. Forse perché la memoria delle " stragi" degli anni Settanta e Ottanta è storia di ieri per gli adolescenti di oggi. O forse perché l’eroina, nell’epoca del policonsumo, della sperimentazione selvaggia di sostanze, è percepita come una droga tra le altre. Con la differenza però che di eroina si muore. E si diventa dipendenti. Pensate a Desirée. Pensate a Pamela.
Secondo i dati "Espad" del 2017, il consumo frequente di eroina tra i giovani non supera lo 0,7%. Ma i più problematici ci restano incastrati. E "l’ero" così come ogni tipo di droga ormai si trova ovunque, in uno spaccio capillare senza più zone franche. Spacciata da pusher che s’infiltrano feroci in ogni ambito frequentato da ragazzini.
In un panorama dove le droghe costano nulla, dieci euro per tre spinelli o una pasticca di ecstasy, 50 euro per un grammo di cocaina. Mercati di strada a cui si sommano ormai mercati online dove è possibile comprare ogni tipo di sostanza. E corrieri che consegnano a domicilio per una manciata di euro con la stessa celerità dei riders della "Gig" economy.
È questa la geografia tossica che dalle grandi piazze di spaccio, da Rogoredo a Scampia a Tor Bella Monaca, si dirama tra strade, scuole medie e addirittura accanto agli oratori, in un’offerta di mai così economica. E dunque a portata delle tasche di teenager policonsumatori sempre più giovani. Riccardo Gatti, psichiatra e psicoterauta, dirige l’area dipendenze delle aziende socio sanitarie "Santi Paolo e Carlo" di Milano. La sua analisi è amara: «Scopo del mercato criminale è quello di fidelizzare i clienti, tenerli legati il più a lungo possibile, esattamente come farebbe un supermercato o un fast food». E in questo l’eroina che crea dipendenza fisica, a differenza di altre sostanze, è l’agghiacciante " investimento sicuro" del mercato criminale. Del resto, come spesso ha ricordato Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini, una delle più famose comunità terapeutiche italiane, « il funerale dell’eroina è stato celebrato troppo presto » . E nei Sert e nei centri di disintossicazione, dopo decenni, sono tornati anche i giovanissimi. « L’eroina in realtà non è mai scomparsa. Ma la differenza è che il mercato è ormai incontrollabile perché somma più piazze di sballo, e dove forse quella più pericolosa è virtuale. Il problema però — dice Gatti — non è soltanto il controllo del territorio che spesso è carente, o i servizi per le dipendenze che per fortuna in Italia funzionano ancora. Il problema è la domanda crescente di droghe da parte della società in generale e dei giovani in particolare». In una percezione diffusa e sbagliata ormai « sulla non pericolosità delle sostanze » . Eroina compresa, i cui spettri di morte sembrano non fare più paura. Marco Sirotti, psicoterapeuta, da anni si occupa di tossicodipendendenza. « Come li curiamo? Farmaci, metadone, psicoterapia, rieducazione, lavoro. In comunità aperte e non più chiuse. Con percorsi brevi. Ma la verità è che oggi come ieri si salva soltanto chi ne vuole uscire a tutti i costi ».
Il Fatto 26.10.18
Da quale pulpito viene il “bipolare”
di Maurizio Montanari
Forte si è levato da ogni parte il grido di sdegno (fai schifo) a stigmatizzare l’incommentabile uscita di Grillo su autismo e Asperger. Lo sostengo da tempo: l’uso del Manuale diagnostico e statistico per colpire l’avversario costituisce una degenerazione inammissibile del dibattito politico. Peccato che i più feroci j’accuse provengano oggi dal quartier generale della Leopolda dal quale, solo poco tempo fa, le bordate cliniche partivano come palle incatenate verso gli avversari.
Erano tempi robusti, il declino non era ancora iniziato, da quelle parti passava tanta gente, mica come oggi. Forse a causa delle mazzate elettorali molti renziani oggi soffrono di un amnesia selettiva, immemori del tempo in cui l’innesto del lessico analitico col renzismo forgiò una neolingua che apostrofava gli avversari come un corpo unico posseduto da intenti incestuosi. Dapprima fu la volta dei nemici interni, espulsi e tratteggiati come mummie intrise di godimento masochista. Fu poi la volta del polo grillino afflitto da una patologia bipolare con un candidato premier che pativa di un bipolarismo inquietante. Il 4 marzo la realtà virtuale della Leopolda venne dissolta dal redde rationem con il quotidiano, quando non torme di nemici malmostosi dediti all’odio, ma la gente comune, riportò il renzismo a contatto con la realtà sbriciolandone le fondamenta e mostrando tutti i drammatici limiti del suo lessico. Tante e tali erano state le invettive cliniche e non lanciate via Repubblica, che quell’odio alle porte incombente io iniziavo a temerlo davvero. Ho realmente pensato di svegliarmi una mattina e ascoltare via radio i comunicati del comitato di salute pubblica tra un brano di sinfonica e l’altro. Addirittura il Paese, a detta di Recalcati, stava per cadere nella mani di “un comico bipolare a sua volta rappresentato da un ex-steward del San Paolo di Napoli con evidenti difficoltà di ragionamento e lessicali” (sic). Al di là del fatto che fare lo steward fa parte di quei lavoro umili che un partito di sinistra dovrebbe vedere come valore aggiunto, io non le ricordo le vesti stracciate a difendere le associazioni di chi è affetto da disturbi specifici del linguaggio o da bipolarismo, colpite allora come oggi avviene per quelle che si occupano di autismo. La loro attenzione alle parole di Grillo è dovuta in parte anche alle sconfitte patite, grazie alle quali hanno potuto affinare la loro sensibilità ed intuire quanto doloroso sia per chi è affetto da alcune patologie dell’animo e della mente, vedere quelle diagnosi che per molti di essi hanno reso la vita tanto dura da campare, usate come strumento di battaglia. Oggi che la Leopolda è franata, ci si ricorda dei più fragili. Troppo facile. Per scagliare un pamphlet ci vuole coerenza.
Dunque, o sei Céline, o è meglio che lasci stare. Prima di lanciare crociate giuste ma tardive contro la malattia usata come argomento politico, è bene che essi prendano atto di quanto il loro linguaggio ne fece uso, e ne traggano insegnamento. È bene che acquisiscano consapevolezza di quanto le loro parole, private dell’arsenale clinico, degradino in insulti da osteria. Cialtroni. Senza cervello. Invettive banali, offese a poco prezzo da scapoli contro ammogliati il venerdì sera. Vuoi mettere il nazional popolare “incompetenti” con il “ritorno spettrale del berlusconismo”? Bene fanno dunque a criticare Grillo, quel linguaggio è sbagliato, fuori luogo. Lo hanno capito a tal punto che da tempo hanno abiurato l’uso della diagnosi. Senza il frasario freudiano gli avversari sono oggi liberati da pruderie adolescenziali, dall’odio, affrancati da pulsioni masochiste. Sono solo cialtroni, ma concedono a tutti la possibilità di parlare dalle reti nazionali. Anche allo psicoanalista le cui parole vennero da molti utilizzate per stigmatizzarli.
il manifesto 26.10.18
Scuola, sindacati contro Bussetti: «No alla regionalizzazione dei docenti»
Il
nuovo corso del Miur sul reclutamento differenziato nelle regioni che
hanno un peso politico sulla vita del governo, anche in prospettiva
elettorale, potrebbe interessare fino a 200 mila cattedre. Camusso
(Cgil): "Furia elettorale e ideologica". Sinopoli (Flc-Cgil): "Il
sistema deve restare nazionale". Di Meglio (Gilda): si rischia "una
scuola a due velocità"
Regionalizzare l’assunzione dei
docenti a scuola è «un’idea virtuosa» e i «programmi e gli ordinamenti
restano allo Stato». Questa è l’idea del ministro dell’Istruzione Marco
Bussetti: in quota Lega che, probabilmente, risponde ad proposta di
legge presentata dal Veneto del leghista Zaia al ministro per le
Regioni, Erika Stefani, sul «trasferimento su base volontaria del
personale della scuola, maestre, prof e bidelli, alla Regione Veneto, il
tutto incentivato da stipendi possibilmente più alti». Non conta la
rottura del vincolo costituzionale, né l’aumento delle diseguaglianze
tra Nord e Sud, ma il rispetto del punto 20 del «contratto» siglato
dalla Lega con i Cinque Stelle che sostiene «l’attribuzione, per tutte
le regioni di maggiore autonomia, in attuazione dell’articolo 116, terzo
comma, della Costituzione. Il riconoscimento delle ulteriori competenze
dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle risorse necessarie
per un autonomo esercizio delle stesse». Nel pieno dell’ondata
nazional-populista, con accenti «sovranisti», persiste nella Lega la
sperequazione territoriale un tempo definita «devolution». Le camere
saranno infatti chiamate ad esaminare il disegno di legge del senatore
leghista Mario Pittoni sul «domicilio professionale». In altre parole
sarà necessario domiciliarsi nella regione dove si intende partecipare
al concorso accettando un vincolo di permanenza per un certo periodo di
tempo.
Il nuovo corso del Miur sul reclutamento differenziato nelle
regioni che hanno un peso politico sulla vita del governo, anche in
prospettiva elettorale, potrebbe interessare fino a 200 mila cattedre.
L’iniziativa ha sollevato la netta contrarietà di sindacati e studenti.
«Come e più che in altre materie – ha detto il segretario Cgil Susanna
Camusso – la scuola non può diventare oggetto di una furia elettorale e
ideologica che all’insegna del campanilismo rischia di sfasciare un
sistema scolastico che è ancora un apprezzato e valido strumento di
formazione e unità del paese». «Il diritto all’istruzione non può essere
in alcun modo regionalizzato, deve restare nazionale per rafforzare
quelle zone del Paese più deboli» ha aggiunto il segretario Flc Cgil
Francesco Sinopoli.
La questione potrebbe essere sollevata anche con
altre regioni – ad esempio l’Emilia Romagna – che hanno intrapreso un
confronto con l’esecutivo precedente sull’autonomia differenziata in 23
materie concorrenti tra cui l’istruzione, l’università e la ricerca. Per
i sindacati è a rischio «la tenuta del sistema nazionale dei settori
della formazione e della conoscenza». Rino Di Meglio della Gilda
ipotizza rischi «sia per quanto riguarda la qualità della didattica, che
per gli importi delle retribuzioni. Si avrebbe così una scuola a due
velocità».
Gli studenti di Udu e Rete degli studenti medi sostengono
che «Bussetti è un burocrate leghista che vede l’istruzione come un
fondo cassa per gli altri provvedimenti». Oggi, in un incontro con il
governo, Uds e Link presentano una proposta nazionale «per superare la
“Buona scuola” e fare investimenti». Insieme manifesteranno contro il
governo il 17 novembre
il manifesto 26.10.18
Oggi primo sciopero generale contro il governo giallo-verde
Sindacati di Base. Cortei in 10 città, le manifestazioni principali per Cub, Sgb, SiCobas e Usi a Torino e Taranto
di Massimo Franchi
Primo sciopero generale contro il governo giallo-verde. Lo hanno indetto per oggi varie sigle del sindacalismo di base: Cub, Sgb, SiCobas e Usi. L’Usb invece ha manifesto sabato scorso sotto lo slogan «Nazionalizzare».
Ventiquattrore di astensione dal lavoro per tutte le categorie: sciopereranno i trasporti (ferroviario, locale e aereo), la scuola, i servizi, la sanità, le fabbriche, i magazzini e la pubblica amministrazione.
Non è prevista una manifestazione nazionale ma tante piazze da Nord a Sud con l’Sgb che punta su Torino (corte da Porta Nuova alle 9,30) e Taranto (raduno a piazzale Democrate alle ore 10) come manifestazioni di punta: gli scioperi si legheranno alla battaglia No Tav in Piemonte e al No all’accordo Ilva per la città che ospita l’acciaieria più grande d’Europa.
Manifestazioni sono comunque previste a Roma (piazza Montecitorio ore 9), Milano (largo Cairoli, ore 9,30), Firenze (largo Annigoni, ore 9,30), Catania (piazza Stesicoro, ore 9,30).
La piattaforma di appoggio allo sciopero prevede «l’abrogazione della legge Fornero e del jobs act, eliminare ogni forma di precarietà, aprire una stagione contrattuale all’insegna della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, diritto al lavoro e alla casa, fermare le fonti inquinanti dentro e fuori i luoghi di lavoro, respingere ogni tentativo di contrapporre lavoratori autoctoni ed immigrati».
«Ogni giorno tocchiamo con mano che senza una prospettiva di cambiamento radicale non nascono percorsi conflittuali e senza conflitto tra capitale e lavoro perdiamo dignità, salario, diritti – spiega Massimo Betti del Sgb – . Urge attivarci per far nascere un movimento contro privatizzazioni e le tanto grandi quanto inutili opere, quello che manca è un vero piano occupazionale per la messa in sicurezza del territorio nazionale, la difesa e rilancio del welfare universale, bisogna – continua Betti – ripristinare la democrazia sindacale nei luoghi di lavoro, quella democrazia che hanno distrutto per imporre l’innalzamento dell’età pensionabile e la libertà di licenziamento. Il nesso tra democrazia nella società e nei luoghi di lavoro, agibilità democratiche e sindacali, conflitto sociale e sindacale dovrebbe essere la condizione necessaria per il sindacato, per difendere la forza lavoro e dotarla degli strumenti necessari alla organizzazione di classe», conclude Betti.
Il Si Cobas appoggia anche la manifestazione nazionale «internazionalista» in favore dei migranti di domani a Roma con partenza alle 14 da piazza della Repubblica con gli studenti protagonisti.
il manifesto 26.10.18
Contro il decreto Salvini in piazza sabato dalle suore ai cobas
Giornata del 27 ottobre. Tanti i cortei in tutt’Italia ma anche iniziative le più varie: festival in chiesa, raduni Lgbt. A Roma flash mob a Santi Apostoli e manifestazione di sindacati di base e studenti medi
di Rachele Gonnelli
Sta crescendo come un’onda, come un pulviscolo che si infittisce in nube, la mobilitazione contro il cosiddetto «decreto sicurezza e immigrazione». Domani sarà in tutta Italia la giornata di mobilitazione nazionale, con Anpi, Arci, Cgil, tra le tantissime sigle, contro il decreto salviniano n°113, e più generale contro le politiche che vogliono azzerare il diritto d’asilo, ridurre l’accoglienza, criminalizzare la solidarietà, chiudere i porti e gli Sprar, negare l’accesso a mense, ospedali e sussidi a immigrati e figli di immigrati che ne hanno bisogno, stabilire una cittadinanza di serie A e una di serie B su base etnica e condizionata ai reati. Mentre si diffonde un clima di odio e ronde razziste e xenofobe.
Domani non ci sarà una sola manifestazione nazionale ma tantissime, alcune più grandi – come il corteo di Ravenna che si annuncia molto partecipato dalla Cgil o quello di Brindisi con le comunità di braccianti africani e il collettivo, anzi «la collettiva» transgender. Alcuni eventi sono addirittura organizzati come festival che dureranno l’intera giornata di sabato, con artisti di strada, giochi per i bambini, proiezioni di film come a Caserta o a Torino dove si finisce con un pic-nic collettivo ai Giardini Reali. Altri saranno, presumibilmente, più piccoli ma prenderanno comunque le forme più varie: si va dal presidio all’assemblea, dal volantinaggio «classico» nelle vie dello shopping al corteo con striscioni e sindaci con la fascia – è il caso di Cuneo, dove il Comune aderisce come capofila dei municipi che aderiscono ai progetti Sprar – fino al flash mob «comiziante» con palco e bandiere, come quello che si svolgerà a piazza Santi Apostoli a Roma.
A Roma in verità ci sarà anche una manifestazione, convocata in solitudine dal Si-Cobas con lo slogan «contro le politiche repressive e razziste del governo fascioleghista-pentastellato» e concentramento a piazza della Repubblica alle ore 14. Alla manifestazione romana dei cobas, che si lega anche agli scioperi dei sindacati di base di oggi e domani e alle critiche verso la manovra «tutt’altro che redistributiva» del governo, hanno deciso ieri sera di confluire gli studenti del liceo Mamiani al termine di un’occupazione di cinque giorni tutta diretta contro le politiche del governo.
Ma nel patchwork delle iniziative della mobilitazione nazionale ci sono anche eventi di tutt’altra natura. A Modena la giornata in piazza porta il titolo «Con i migranti contro la barbarie», in appoggio al sindaco Mimmo Lucano e contro le discriminazione dei bambini a Lodi, organizzata da una ong locale chiamata «Bambini nel deserto». Ad Avellino il «festival della solidarietà» si svolgerà tutto all’interno della chiesa di Sant’Alfonso.
Sono molte le realtà del mondo cattolico mobilitate. A firmare l’appello della giornata, promosso da Europasilo, la rete nazionale che intende promuovere un’evoluzione del diritto europeo in materia d’asilo, ci sono, oltre a Pax Christi, gruppo Abele e missionari comboniani, anche le «suore ausiliatrici delle anime del purgatorio». E poi cooperative, associazioni di quartiere, comitati «per la Costituzione», collettivi femministi. A Lecce quello che inizialmente era previsto come semplice presidio in difesa del diritto d’asilo e per Riace, è cresciuto in adesioni e ha preso la forma di un corteo «con ombrelli colorati» per segnalare le parole d’ordine «proteggiamo la protezione» (umanitaria).
I partiti della sinistra partecipano anche loro ma in ordine sparso, aderiscono sezioni locali di Leu, Possibile, Potere al popolo e Radicali, in toto solo Sinistra italia e Rifondazione. Al sit-in davanti all’ambasciata italiana di Berlino ci sarà la sezione del Pd del Brandeburgo. Dal Pd nazionale invece, silenzio.
Il Fatto 26.10.18
L’arma dell’Arma su Cucchi: trasferire e delegittimare
Depistaggio - Nelle carte della nuova inchiesta sulla morte di Stefano le pressioni della catena di comando per nascondere la verità
di Antonio Massari e Valeria Pacelli
“Adesso c’è da aspettare che mi trasferiscano, in modo tale che poi delegittimano le mie dichiarazioni verso l’altro con il risentimento del trasferimento (…) Dice: ‘Quello è stato trasferito e adesso ce l’ha con la scala gerarchica’”. Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione Tor Sapienza a Roma (dove Cucchi passò la notte del 15 ottobre 2009), il 26 settembre scorso sembra avere la percezione che le cose nell’Arma potrebbero mettersi male. Sa che appena otto giorni prima davanti al pm Giovanni Musarò ha puntato il dito contro i suoi superiori, quando ha spiegato da chi partì l’ordine di modificare delle annotazioni di servizio sullo stato di salute di Cucchi redatte il 26 ottobre 2009 dalla sua stazione. Su questo il pm Musarò indaga per falso materiale e ideologico. Colombo è iscritto con altri quattro, di cui due ufficiali. Il tenente colonnello Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti capo dell’ufficio comando del gruppo carabinieri Roma, viene indagato proprio dopo le sue parole. È Colombo infatti che racconta al pm di aver ricevuto da Cavallo due annotazioni modificate.
Un terremoto nell’Arma, perchè Cavallo che ora è al comando provinciale, nel 2009 era nel gruppo guidato da Alessandro Casarsa, che ora è a capo dei corazzieri del Quirinale ma che non è indagato.
Dopo il suo interrogatorio, Colombo ipotizza scenari di future ritorsioni. E non è l’unico in questa storia.
“Sono distrutto” Le minacce sul web
La squadra mobile, intercetta anche la paura di altri militari finiti indagati nel nuovo filone d’inchiesta. Francesco Di Sano – che al papà il 22 settembre dice di essere distrutto da questa storia – cita “minacce che gli sono state rivolte sui social”.
Di “possibili ritorsioni” parla anche Gianluca Colicchio (non indagato). È l’appuntato scelto che nel 2009 si rifiutò di far depositare l’annotazione modificata. Il 18 ottobre al pm racconta che il 27 ottobre 2009 si presentò in stazione Luciano Soligo (indagato per falso), all’epoca a capo della stazione Montesacro-Talenti, da cui dipendeva Tor Sapienza, per una visita quadriennale. Dice al pm: “Era stato cambiato un passaggio importante (dell’annotazione, ndr…) Non volevo che fosse modificata e trasmessa”. In quel momento Soligo era al telefono con Cavallo: “Me lo passò. (…) Cavallo mi evidenziò che rispetto all’annotazione era stato cambiato solo un passaggio, ma io non volevo sentire ragioni”. “Non ricevetti minacce specifiche da Soligo – aggiunge – nè da Cavallo, però l’Arma è una struttura militare e quando una richiesta proviene da un superiore, specie se fatta con una certa insistenza, chi la riceve la vive come un’intimidazione”.
Il giorno dopo l’interrogatorio, la moglie gli chiede “se possono creargli problemi per la domanda di trasferimento”. E Colicchio: “Non lo possono fare, non sono indagato (…) Me vuoi fa delle ritorsioni… ma poi se me le fai, peggio me sento”.
Sono solo paure quelle finite nelle intercettazioni.
Nel caso dell’avvocato Eugenio Pini, invece, si tratta di minacce reali. Il legale, dopo che il suo assistito Francesco Tedesco (uno dei carabinieri a processo per omicidio preterintenzionale che ha accusato i colleghi del pestaggio), ha ricevuto una chiamata minacciosa. “Lei mi ricorda Rosario Livatino”, dice una voce in siciliano facendo riferimento al giudice ucciso dalla mafia. Per questa vicenda c’è già un sospettato.
Depistaggio bis, si cerca la “scala gerarchica”
Oltre il falso, c’è un altro aspetto sul quale si concentrano gli accertamenti del pm: la prova che la falsificazione dell’annotazione redatta a Tor Sapienza fu un’ordine dall’alto. Si tratta di una mail che Colombo racconta al pm aver ricevuto da Cavallo con le annotazioni modificate. Le ha mostrate, dice, a chi era stato mandato dal pm ad acquisire gli atti. Ma hanno preferito lasciarla nel suo computer.
Per capire questa vicenda bisogna riavvolgere il nastro al 2015, quando la Procura delega il Nucleo Investigativo ad acquisire tutto ciò che riguarda la vicenda Cucchi in diverse caserme. Il 16 novembre 2015 è il generale Salvatore Luongo, comandante del gruppo provinciale, a trasmettere l’incartamento in Procura. Ma non è lui ad acquisire materialmente gli atti. La nota è invece firmata dal colonnello Lorenzo Sabatino (estraneo alle indagini). E nell’atto si legge “accertamenti a cura del capitano Tiziano Testarmata – comandante della 4a sezione del nucleo investigativo”. Neanche Testarmata è indagato. Normalmente, per esempio, chi acquisisce dei documenti rilascia una verbale che attesta gli atti acquisiti. Eppure il maresciallo Emilio Buccieri che comandava Appia spiega al pm di aver segnato su dei post-it ciò che era stato acquisito presso la sua stazione: lo ha scritto, spiega, “per lasciare traccia di ciò che avevamo consegnato, non ci era stato rilasciata copia di un verbale di acquisizione”. E sui presunti buchi in quelle acquisizione il pm farà accertamenti.
Corriere 26.10.18
La falsa relazione su Cucchi «Firmai, ma mica l’ho fatta io»
Intercettato 15 giorni fa un carabiniere rivela che altri manipolarono le carte
di Giovanni Bianconi
ROMA «Cioè, effettivamente la firma l’ho riconosciuta, è mia pure quella della seconda, ma mica l’ho fatta io», dice il carabiniere Francesco Di Sano a un’amica il 14 ottobre scorso. L’ennesima conferma della falsa annotazione sulle condizioni di salute di Stefano Cucchi dopo l’arresto arriva da un’intercettazione telefonica registrata due settimane fa. Il militare aveva prima scritto che il detenuto «riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo, e di non poter camminare» (sintomi ipoteticamente collegabili a un pestaggio subìto in precedenza), e dopo firmò un altro rapporto, riveduto e corretto, dove tutto si riduce a un «dolore alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza». Ma la seconda versione, ammette anche nella telefonata, non l’ha scritta lui.
La storia delle relazioni modificate su ordine della scala gerarchica dei carabinieri è ricostruita ormai nei dettagli — ma fino a un determinato gradino — dall’indagine-bis condotta dal pubblico ministero Giovanni Musarò. Il quale attende di conoscere la versione dei due nuovi indagati: il maggiore Luciano Soligo e il colonnello Francesco Cavallo, che secondo il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola chiesero e ottennero le modifiche alle annotazioni dei due carabinieri che avevano avuto in custodia Cucchi dopo il rientro in caserma (e il pestaggio ora confessato dal carabiniere Francesco Tedesco). La prova è nella e-mail con cui il colonnello Cavallo rispedì a Colombo le nuove versioni (accompagnate dalla frase «Meglio così»), che il luogotenente ha conservato ed esibito al pm nell’interrogatorio della scorsa settimana. E di cui parla diffusamente nelle telefonate intercettate dalla polizia nell’ultimo mese.
In una conversazione del 26 settembre con il fratello, Colombo dice: «Per fortuna c’ho questa mail... l’ho stampata, l’hanno vista in tanti, ho fatto già un primo filmino ma non viene bene, lo devo rifare perché ho paura che me la cancellano. Quella è il mio salvavita». Una sorta di assicurazione che infatti il luogotenente ha consegnato al magistrato, a differenza di quello che fecero nel 2015 i suoi colleghi che andarono ad acquisire tutti i documenti relativi alla vicenda Cucchi, presero le doppie versioni delle annotazioni ma senza la mail inviata da Cavallo a Colombo. Una stranezza che fa il paio con quella rilevata dal maresciallo Emilio Buccieri nel nuovo interrogatorio del 19 ottobre, quando dice di aver trasmesso i documenti su Cucchi presenti nella stazione Appia al comandante della Compagnia Casalina, senza che gli fosse consegnato alcun verbale di acquisizione. «Questo rappresenta un’anomalia», ha ammesso davanti al pm il maresciallo, che aveva comunque conservato la copia di una lettera della Compagnia con l’elenco del materiale inviato al Comando provinciale, accompagnata da un suo biglietto manoscritto: «A futura memoria per ricordare cosa è stato consegnato da noi nell’occasione del Nov. 2015».
Tra le «anomalie» che costellano questa vicenda spiccano quelle verificatesi subito dopo la morte di Cucchi, all’inizio della prima inchiesta giudiziaria. Dopo la testimonianza del carabiniere Colicchio (autore di una delle due relazioni manomesse) il maggiore Soligo chiese al luogotenente Colombo un appunto sulla deposizione: «Mi disse di portarglielo presso il Comando provinciale». Colombo eseguì scrivendo, tra l’altro, che Colicchio aveva notato dei segni rossi sul volto di Cucchi, collegandoli «non a percosse ma alla conformazione fisica anoressica e al dichiarato stato di tossicodipendenza del medesimo». Al pm che gli ha ricordato il divieto di rivelare a chiunque il contenuto di dichiarazioni rese durante un’indagine preliminare, Colombo ha risposto: «Prendo atto. All’epoca non ci vidi nulla di strano, considerato che si trattava di un ordine pervenuto dai miei superiori. Certo oggi, col senno di poi, mi rendo conto di quanto mi evidenziate».
Repubblica 26.10.18
L’inchiesta
I ricatti dentro l’Arma " Quelle carte su Cucchi sono il mio salvavita"
La congiura del silenzio mostrò fin da subito le prime crepe Perché molti nascosero le copie di documenti compromettenti
di Carlo Bonini
Roma La congiura del silenzio sull’omicidio di Stefano Cucchi non solo ha fatto deragliare per nove anni la ricerca della verità ma ha impiccato i vertici dell’Arma al nodo scorsoio del ricatto. Come documentano gli atti depositati dal pm Giovanni Musarò, falsi, omissioni, menzogne hanno imbalsamato in un patto non scritto di omertà l’intera catena gerarchica. E in nome del simul stabunt simul cadent, appuntati hanno dunque potuto ricattare marescialli, marescialli ricattare maggiori, maggiori ricattare colonnelli, colonnelli ricattare generali. Contribuendo ad alzare giorno dopo giorno, anno dopo anno, il costo della verità, fino a renderlo insostenibile per chi l’aveva in origine manomessa. Anche quando, era il gennaio 2016, la crepa aperta dall’inchiesta bis a carico di cinque carabinieri lasciava presupporre che il muro di gomma alzato nel 2009 avrebbe potuto cedere di schianto.
L’indagine interna del 2016
Sappiamo ormai che, nel novembre del 2015 (" Repubblica" ne ha dato conto ieri), militari del Nucleo investigativo di Roma, su disposizione del Reparto operativo omettono di acquisire la prova regina ( una mail inviata dal tenente colonnello Francesco Cavallo) che indica nel Comando di Gruppo di Roma la regia dei falsi consumati nella caserma di Tor Sapienza. Un "buco" che rende monco il materiale di cui la Procura aveva fatto richiesta al Comandante provinciale e necessario a impedire al pm Musarò di risalire nelle ricerca delle responsabilità lungo la catena gerarchica. Ma l’appuntamento con la verità viene nuovamente e significativamente mancato tre mesi dopo, nel gennaio del 2016. E ancora una volta per mano dell’allora Comandante provinciale di Roma, il generale Salvatore Luongo, oggi capo ufficio legislativo al ministero della Difesa. Accade infatti che in quello scorcio di 2015, il 12 dicembre, l’allora comandante generale Tullio Del Sette, disponga che il Comando provinciale proceda a un «punto di situazione sul caso Cucchi». Del Sette avverte infatti l’urgenza di uscire dall’angolo in cui l’Arma è stata cacciata dall’indagine Cucchi-bis. «Il punto di situazione » sarebbe l’ennesima occasione per mettere mano a carte ed archivi e venire a capo delle tracce lasciate dalle macroscopiche manipolazioni che quelle carte e quegli archivi hanno conosciuto tra il 17 e il 28 ottobre del 2009.
Per altro, gli indizi non mancano. Per far sparire la nota del carabiniere Francesco Tedesco del 22 ottobre 2009 (quella che accusa del pestaggio di Stefano i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro) è stata alterata la sequenza informatica dei protocolli interni della stazione Appia. Per aggiustare le testimonianze sulle condizioni di Stefano al momento del suo arrivo a Tor Sapienza sono state " aggiustate" le annotazioni di servizio ( trasmesse nel novembre 2015 alla Procura) dei piantoni in servizio quella notte.
Ma il generale Luongo non vede oltre quanto in quel momento accertato dalla magistratura. La sua indagine interna, di cui rassegna al Comando generale le conclusioni il 19 gennaio 2016, è una pedissequa « ricognizione » — a quanto ne riferiscono oggi fonti qualificate del Comando generale — « in linea con le risultanze fino a quel momento emerse dall’indagine della Procura». La morte di Stefano Cucchi — questa la sostanza — è faccenda che riguarda solo e soltanto i cinque carabinieri allora indagati da Musarò. Tre dei quali, non a caso, e proprio in forza della relazione di Luongo, vengono sottoposti a procedimento disciplinare (Tedesco, Di Bernardo, D’Alessandro).
La paura del trasferimento
Ora, non è dato sapere cosa sia passato sotto gli occhi e nella testa di Luongo ( il generale si è reso indisponibile alle domande di "Repubblica"). Mentre è un fatto — lo documentano le intercettazioni disposte dalla Procura — cosa passasse e sia continuato a passare nella testa di chi conosceva la verità. A cominciare dal maresciallo Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione di Tor Sapienza. Quella cui il Comando di Gruppo ordinò di falsificare le annotazioni. Alle 18.30 del 26 settembre scorso, il maresciallo parla al telefono con il fratello Fabio. È un lungo sfogo. L’anticipazione di quanto metterà a verbale il 18 ottobre successivo. È preoccupato per quel che sa e per il modo con cui la catena gerarchica dell’Arma proverà a incastrarlo. O comunque depotenziare quel che è ormai intenzionato a raccontare. Dice: « C’è preoccupazione, Fabio, perché mo’ ti fanno l’esame di impiego. E se mi trovo trasferito alla Compagnia speciale? Perché c’è da aspettarsi questo, adesso. Che mi trasferiscano, in modo tale che poi legittimano le mie dichiarazioni verso l’alto con il risentimento del trasferimento. Loro sono furbi, ma io non è che faccio sto lavoro da un anno. Ho capito come giustificano». Già, " Loro" ( i vertici dell’Arma) sono "furbi". Ma lo è pure lui: «Io per fortuna, Fabio, la mail l’ho stampata. L’hanno vista in tanti. Ho fatto già un primo filmino, ma non viene bene. Lo devo rifare perché ho paura che mi cancellino la mail. E quella è il mio salvavita».
Come un’assicurazione
C’è chi va più per le spicce. Ed è l’avvocato Giuseppe Di Sano, cugino del carabiniere Francesco, uno dei due piantoni della stazione di Tor Sapienza indagato per la falsa annotazione sulle condizioni fisiche di Stefano. Al telefono, la mattina del 25 settembre, il militare chiede consigli. E quelli che riceve, se è vero che costano al cugino avvocato l’iscrizione al registro degli indagati, fotografano con brutale sincerità l’abisso in cui nuotano i vertici dell’Arma. Dice Giuseppe Di Sano: « Francesco, ascoltami, tu queste cose ( il carteggio con la mail del Comando di gruppo che impone di aggiustare le relazioni, ndr) conservale, perché se va tutto come spero, ‘ste cose ci serviranno dopo. Per ricattare l’Arma. Perché se tutto si chiude come spero e poi l’Arma ti dice " guarda che per noi però tu non puoi più stare qua", allora rispondi: " Io ho queste cose qui in mano, che fate? Mi fate restare o vado al giornale?"» .
La Stampa 26.10.18
L’opzione del voto a febbraio
di Francesco Bei
La giornata relativamente positiva sui mercati, con lo spread sceso a 310 punti e i titoli bancari che hanno rifiatato dopo giorni di segni negativi, non inganni. La situazione italiana resta a rischio e lo dimostrano le parole prudenti ma affilate del presidente della Bce Mario Draghi sull’Italia. I vertici delle grandi banche sono tutti in allarme, la manovra del governo – checché ne dica il presidente americano Trump – mette infatti il Paese su una rotta di scontro frontale con le istituzioni comunitarie. E già a Bruxelles si dà per certo che il 21 novembre la Commissione aprirà la procedura d’infrazione contro Roma.
Nel frattempo saranno arrivati i giudizi di Standard & Poor’s sul debito italiano (già stasera) e i risultati della vigilanza europea sulla solidità delle nostre banche. Un collo di bottiglia che rischia di far esondare tutte insieme le criticità della prima legge di bilancio gialloverde.
È per questo che ai piani alti del governo, soprattutto nella centrale leghista, si inizia a parlare a mezza bocca di uno scenario estremo, molto lontano dalla retorica ufficiale che colloca le elezioni alla scadenza naturale della legislatura nel 2023. Nella maggioranza circola infatti la data di febbraio per lo sbocco elettorale di una crisi che, da finanziaria e bancaria, potrebbe facilmente diventare anche politica. I prossimi quindici giorni saranno decisivi per capire se le fiamme che vediamo oggi diventeranno un vero incendio.
Del resto, dal punto di vista dei due leader che guidano l’esecutivo, far saltare subito il banco potrebbe risultare una mossa meno azzardata che subire l’umiliazione del programma Omt perché in «difficoltà economica grave e conclamata». Sarebbe il commissariamento dell’Italia, che anche Berlusconi riuscì a evitare. Da qui la via d’uscita più semplice, quella di una campagna elettorale tutta giocata all’attacco di Bruxelles, con il bilancio italiano nel frattempo congelato in esercizio provvisorio. Uno scenario estremo e tuttavia con diversi vantaggi per i protagonisti. Benché all’inizio del loro mandato, i gialloverdi hanno infatti consumato buona parte del loro capitale iniziale: gli sbarchi dalla Libia, che hanno fatto schizzare i consensi di Salvini, sono finiti; l’entusiasmo per la cancellazione della Fornero lascerà il posto alla delusione di chi si troverà in pensione con assegni decurtati; il reddito di cittadinanza, spalmato al 70 per cento in Sicilia e Campania, produrrà invidia sociale nelle altre regioni; la crisi delle banche si porterà dietro una stretta del credito che colpirà le imprese del Nord; le scelte politiche sulle infrastrutture, dalla Tav alla Gronda, comporteranno scontento in una parte dell’elettorato. Insomma, da adesso in poi non potrà che andare peggio, come è inevitabile quando si passa dalle promesse elettorali alla dura realtà del governo. Dunque, perché non fermare le lancette e incassare lo stellare 60% ancora accreditato a Lega e M5s? La tentazione, ovviamente, alberga più nella Lega. Salvini infatti può costruire un’alleanza competitiva, ricostruendo il vecchio centrodestra come piedistallo personale per il suo ingresso a Palazzo Chigi. Con il 40-43 per cento che gli accreditano i sondaggi, il centrodestra governerebbe da solo. I Cinquestelle infatti non potrebbero far fruttare il loro 30 per cento solitario, mentre il Pd sarebbe preso alla sprovvista senza un leader e nemmeno una coalizione.
Questa è la posta in gioco delle prossime due settimane, questo nasconde quel numero maledetto - 300 – che continua a separare i titoli italiani da quelli tedeschi.
Corriere 26.10.18
Francoforte e la spinta verso il compromesso con la Commissione: l’Italia non può crollare
dal nostro inviato Danilo Taino
FRANCOFORTE Non è detto che l’Italia sia destinata a schiantarsi, come molti ritengono, a causa dello scontro sul bilancio pubblico tra Roma e Bruxelles. «Sono fiducioso che un accordo sarà trovato», ha detto ieri Mario Draghi. «Non molto fiducioso: fiducioso». Una volta sola, ma sufficiente per fare sapere che il presidente della Bce non è iscritto al club, neanche troppo esclusivo in Europa, di chi vorrebbe vedere l’Italia rompersi la testa. È un invito – se si vuole trovarvi un messaggio politico – a ridurre la rissosità che nelle settimane scorse ha toccato livelli elevati da entrambe le fazioni in tenzone.
In questo passaggio «italiano», Draghi sembra più in sintonia con Angela Merkel e con il governo tedesco, i quali sulla disputa hanno tenuto un profilo molto basso, che con Emmanuel Macron e il suo entourage che invece hanno spesso alzato il livello dello scontro verbale. Secondo Draghi, «è buon senso comune convergere verso un accordo, per le persone, per le imprese, per il Paese». Vale, ovviamente, soprattutto per il governo di Roma.
Il presidente della Bce non cede di un euro sulle regole dell’Unione monetaria e non fa alcuno sconto al governo Conte. Vorrebbe però evitare non solo che l’Italia si facesse seriamente male: anche che l’Europa e la moneta unica finiscano nel caos, cosa certa se la situazione italiana finisse fuori controllo. Gli elementi di preoccupazione sono ben fissi nell’analisi di Draghi. Ritiene che lo spread sui titoli di Stato non sia ancora da crisi bancaria ma «le condizioni si sono irrigidite» e sa che potrebbero arrivare a livelli pericolosi. Per questo dice che vanno «abbassati i toni, non va messo in dubbio l’euro, si deve ridurre lo spread». È questo il punto più delicato della situazione italiana: l’eventualità che i prezzi dei Btp nei portafogli degli istituti di credito perdano valore, con il salire dei tassi, al punto di minacciare i bilanci e di mettere in dubbio la capacità delle banche stesse di stare sul mercato. Avvertimento chiaro.
Sul merito del bilancio preparato dal governo italiano, però, Draghi non si esprime: è questione fiscale e non monetaria, dunque non nel perimetro del suo mandato. «È la Commissione il guardiano massimo della stabilità di bilancio, non la Bce», dice. Invita però tutti a non scherzare con il fuoco. Roma innanzitutto ma, anche se indirettamente, pure Bruxelles. Quando un giornalista gli chiede se la durezza di Bruxelles non faccia il gioco dei partiti antieuropei italiani in vista delle elezioni europee della prossima primavera, risponde che si tratta di «una domanda molto seria e interessante, ma va rivolta alla Commissione».
Il presidente della Bce, che sta per iniziare l’ultimo dei suoi otto anni alla guida della banca centrale, ha come bussola la stabilità dell’euro. Finora, spiega, i segnali di contagio della situazione italiana in altri Paesi sono limitati. All’orizzonte, però ci sono incertezze, dalla Brexit che non si sa come avverrà al protezionismo fino al rallentamento dell’economia europea che non è chiaro se sia «transitorio o strutturale». In questo quadro, una crisi di mercato dell’Italia avrebbe effetti non facili da controllare nell’insieme dell’Eurozona: va evitata. Ma non potrà essere la Bce a comprare titoli dello Stato per tenere su i prezzi: non le è consentito se non all’interno di un salvataggio concordato con il Meccanismo europeo di stabilità, cioè con l’arrivo a Roma della temuta troika. Quel momento può essere evitato: con un compromesso tra Italia e Commissione Ue.
il manifesto 26.10.18
Brexit, tensioni su tutta l’isola d’Irlanda per il nodo del confine
Il fantasma del conflitto. Nessuna delle parti in causa garantisce che non si torni a breve a una divisione materiale e militarizzata tra le due parti. Sull’argomento sono volate parole pesanti
di Enrico Terrinoni
Si infittiscono le nebbie sull’accordo di fuoriuscita del Regno Unito dalla Ue. Le ultime dichiarazioni assai fumose di Theresa May la fanno apparire sempre più in bilico tra gli equilibri interni di partito, le minacce degli hard brexiteer e quelle ancor più pericolose degli unionisti nordirlandesi del Dup che tengono in piedi il suo governo.
Il primo ministro inglese ha scandito che «bisogna impegnarsi per un territorio doganale comune tra Uk e Eu» così da rendere inutile un accordo che si applichi soltanto all’Irlanda del Nord». Non è chiaro se ciò significhi che il backstop, ossia la clausola di salvaguardia che consentirebbe al Nord di restare all’interno delle regole dell’unione doganale europea, sia da considerarsi superato, o soltanto se vada tolto dall’accordo, alla luce di un sua versione allargata che includa tutto il territorio del Regno Unito.
L’incertezza provoca tensioni evidenti in tutta l’isola d’Irlanda. Il Dup dichiara che le posizioni del governo di Dublino, tese a evitare il ritorno di un confine tra nord e sud, possono provocare la rinascita del conflitto. Il primo ministro, Leo Varadkar (Fine Gael), ha infatti mostrato ai leader europei riuniti a Bruxelles le immagini di un attacco terroristico del 1972 che coinvolse proprio un varco doganale nei pressi di Newry, in cui morirono quattro impiegati, tre volontari dell’Ira e due camionisti.
Il portavoce del Dup, Sammy Wilson, ha stigmatizzato il gesto di Varadkar: «Sta raschiando il barile con le sue minacce, i suoi inganni, e la sua retorica». Ma in realtà, il taoiseach ha semplicemente specificato che quello fu solo uno delle migliaia di simili attentati che coinvolsero postazioni di controllo, ed è indicativo del rischio di un ritorno al conflitto. Rischio che, a detta del suo ministro degli esteri, Coveney, sia i conservatori che il Dup stanno negando o ignorando.
D’altro canto, nessuna delle parti in causa garantisce che non si torni a breve a una divisione materiale e militarizzata tra le due parti dell’isola (il cosiddetto hard border). Sull’argomento sono volate parole pesanti. Da parte del Dup si paventa una strategia di resistenza nei confronti del backstop in termini di «guerriglia», e Jamie Bryson, noto esponente del lealismo ha minacciato una «violenta reazione unionista».
La leader del Dup, Arlene Foster, aveva insinuato che le negoziazioni in corso sono segnate da invalicabili linee «rosso sangue», e il messaggio andava chiaramente al di là delle discussioni all’interno dell’agone democratico. Su questa linea anche le dichiarazioni di un noto esponente tory, Stanley Johnson, padre dell’ex ministro Boris, secondo cui «se gli irlandesi vogliono tornare a spararsi, lo faranno comunque».
Nel frattempo, all’interno della fazione repubblicana un certo numero di gruppi paramilitari, di certo marginali ma comunque bene armati e pericolosi (lo dimostra la giornaliera strategia di repressione da parte della Polizia nordirlandese, che non manca di tenerne sotto stretto controllo gli affiliati) danno segni di vita e compattezza.
Nello specifico, Oglaigh na hEireann, che solo l’anno passato aveva detto di voler mettere da parte la lotta armata, ha lasciato intendere in un comunicato di essere in contatto, a livello locale e su questioni di controllo della criminalità, sia con la New Ira che con la Inla (Irish National Liberation Army), legata quest’ultima all’Irish Socialist Republican Party. Si sono poi uniti ai contatti anche gli affiliati del North Derry Republican Group, mentre Sinn Féin getta acqua sul foto, con la leader Mary Lou McDonald che dichiara: «Non possono esserci scuse per il ritorno al conflitto, neanche di fronte alle provocazioni».
Oggi nella Repubblica si vota per l’elezione del presidente. I sondaggi danno largamente in testa il poeta socialista Michael D. Higgins, già eletto nel 2011, i cui consensi sfiorano il 70%.
Appare già chiaro che i prossimi sette anni di presidenza saranno in gran parte incentrati sulla questione della riunificazione dell’Irlanda, o sulla limitazione dei danni per un possibile ritorno a una frontiera che farebbe tornare l’isola intera indietro di vent’anni almeno.
La Stampa 26.10.18
La Lega vende la chiesa ai musulmani
Ex chiesa va all’asta, vincono gli islamici
“Sarà una moschea”
di Paolo Colonnello
Si sa come vanno certe cose: uno mette mano al portafoglio e, zac, anche i migliori principi vanno a farsi benedire. Così la Lombardia della Lega, per 450 mila euro, ha venduto una vecchia chiesa di Bergamo alla comunità musulmana, che la trasformerà in moschea. È un po’ come Giuda con i 30 denari. Solo che qui l'unico, piccolo, suicidio è politico.
In realtà ora bisognerà aspettare ancora 90 giorni per definire il passaggio di proprietà deciso da un’asta vinta dall’Associazione Musulmani con un’offerta migliorativa il 20 settembre scorso, ma la frittata ormai è fatta: l’antica chiesa dei Frati Minori Cappuccini, incastonata tra le mura del vecchio ospedale in disuso, Papa Giovanni XXIII di Bergamo, si avvia a diventare moschea.
Tra esorcismi e mal di pancia leghisti e sghignazzo delle opposizioni.
«Quando si tratta di far cassa, alla Lega vanno bene anche le moschee», infilza il consigliere regionale a 5 Stelle, Dario Violi polemizzando con la legge regionale che vieta la costruzione di nuovi edifici di culto islamici ma non la trasformazione di quelli vecchi, cosa che ha reso possibile la conquista saladina. E del resto, fino all’agosto 2015, la chiesa ospitava le funzioni religiose della comunità ortodossa romena. Ovviamente tra i banchi regionali sono volati scambi di accuse e battute al veleno. «Nella regione che vuole impedire la costruzione di moschee regolari – scandisce il consigliere Pd Jacopo Scandella – finisce che i musulmani comprano dalla stessa Regione una chiesa. Per Fontana e la Lega di Salvini è una specie di autogol da centrocampo». E giù risatine.
Quelli del Carroccio, furibondi, hanno chiesto addirittura di verificare «se sono stati rispettati i requisiti di integrità morale di tutti i partecipanti al bando». Ma l’incolpevole direttore generale dei vecchi Ospedali Riuniti che ha organizzato l’asta, evidentemente ha trovato che tutte le procedure fossero regolari, compresa la moralità dei compratori che, anzi, hanno promesso fin da subito di voler conservare l’antica destinazione di luogo di culto dell’edificio, solo, non più cattolica. Del resto, anche l’assessore regionale al Welfare, Gallera, conferma: «Prima c’è stata la rinuncia d’interesse da parte della Curia, poi è subentrata la comunità ortodossa romena e infine la comunità musulmana ha fatto un’offerta migliorativa del 9 per cento. Mi sembra che ci sia regolarità nella procedura amministrativa».
E comunque, l’ordine pubblico verrà garantito dal fatto che i vecchi Ospedali intorno alla chiesa verranno destinati alla nuova Accademia della Guardia di Finanza. Fisco e fede: una bella accoppiata. In fondo «pregare non è una colpa», ricorda l’assessore all’Innovazione bergamasco Giacomo Angeloni. Ma dato che il diavolo fa le pentole e talvolta pure i coperchi, succede anche che la chiesa, essendo vincolata dalla Soprintendenza per i Beni Culturali per la quantità di icone e fregi religiosi ancora presenti al suo interno, servirà a quanto pare, soprattutto come passaggio ai fedeli musulmani per un gigantesco scantinato di 800 metri quadrati di un edificio pertinente che, sempre grazie a una legge regionale, questa volta sul recupero degli scantinati, diventerà un mega centro culturale islamico, la seconda moschea per importanza a Bergamo. I deputati della Lega bergamasca promettono battaglia. Daniele Belotti e Alberto Ribolli vogliono verificare gli atti della gara. «Questa chiesa – dicono - rappresenta un simbolo della comunità bergamasca, dove sono stati battezzati migliaia di cittadini».
Corriere 26.10.18
E la scienza divenne sperimentale
Un rivoluzionario atto di umiltà
Conoscenza La ricostruzione di Edoardo Boncinelli nel saggio «La farfalla e la crisalide» (Raffaello Cortina)
di Stefano Gattei
Che cos’è la scienza? E che cosa la distingue dalle altre discipline? La domanda ha impegnato i filosofi per secoli. Se la pone ora, nel libro La farfalla e la crisalide (Raffaello Cortina), un grande scienziato, Edoardo Boncinelli, autore di importanti scoperte in campo genetico.
Il saggio ripercorre per importanti snodi concettuali la storia della scienza, dalla sua nascita nella Grecia di 2.500 anni fa, quando l’indagine della realtà era ancora difficilmente distinguibile dalla riflessione filosofica, al presente, nel quale scienza e filosofia appaiono del tutto separate, incommensurabili per capacità di analisi e significatività dei risultati. La farfalla — questa la metafora scelta dall’autore — è la scienza così come la conosciamo oggi: nasce dalla crisalide della filosofia, un intreccio di modi di pensare spesso in competizione fra loro, ma capaci di influenzare profondamente la nostra vita. Poco più di quattro secoli fa, la scienza si svincola dal ruolo ancillare nei confronti della filosofia, sviluppandosi autonomamente e ramificandosi gradualmente in una serie di discipline che, dalla fisica alla biologia all’intelligenza artificiale, hanno sostituito la filosofia come strumento di conoscenza del mondo. Con Galileo, tra scienza e filosofia si apre un baratro che oggi forse non vale neppure la pena di provare a colmare.
All’inizio, con i Presocratici, la filosofia avanza ipotesi sul mondo. Nasce libera, svincolata da ogni verità rivelata. La messa a morte di Socrate, «corruttore» dei giovani ateniesi con la critica implacabile della religiosità che la società si attende da loro, inaugura paradossalmente la grande stagione del pensiero greco. Consapevole dell’importanza della tecnica, la riflessione classica accompagna l’osservazione del mondo (culminata nei trattati naturalistici di Aristotele) all’indagine ipotetico-deduttiva, che si sviluppa senza bisogno di conferme sperimentali. Gli enormi successi della geometria euclidea e dell’astronomia matematica convincono però i filosofi che la verità sia raggiungibile per via puramente speculativa. Così, pur rimanendo sostanzialmente indistinguibili, scienza e filosofia iniziano a perdere contatto. Un ruolo non secondario nella separazione è svolto da Platone, sostenitore di una teoria della conoscenza «innatista» dall’indiscutibile sapore biologico, che Boncinelli apprezza, ma che inchioda l’uomo alla sterile fissità di un mondo delle idee sempre uguale a sé stesso. Se però Platone non poteva conoscere l’evoluzione, non così i molti filosofi che oggi a lui direttamente si rifanno, e che ignorano l’impatto rivoluzionario del cambiamento che si impone di continuo in biologia.
Una discussione serrata e tranchant, che non risparmia neppure Cartesio, porta il lettore al Seicento, quando dalla crisalide della filosofia occidentale si libera finalmente la farfalla della scienza sperimentale. Se, fino ad allora, scienziati e filosofi si erano limitati a porsi domande e a tentare di dare risposte attraverso l’osservazione, con la possibilità e l’opportunità di condurre esperimenti, lo scienziato «costringe» la natura a rispondere a domande specifiche. Mentre l’osservazione si limita a registrare ciò che accade, lo sperimentatore svolge un ruolo attivo, preparando le condizioni per portare la natura stessa su un terreno a noi favorevole. L’adozione del metodo sperimentale, spesso accompagnato da un’analisi quantitativa, è per Boncinelli un rivoluzionario atto di umiltà: segna il riconoscimento che per certi problemi l’approccio speculativo non è sufficiente — riconoscimento, questo, che l’autore non manca di contestare come estraneo a molti filosofi di ieri e di oggi.
Con l’Accademia del Cimento e il suo motto, «provando e riprovando», inizia la stagione della grande scienza, che giunge fino a noi. Ma non si chiude la stagione della filosofia, che pure arriva fino a noi, ignorando però (o fingendo di ignorare) l’abisso che la separa dalla scienza. Né, forse, può essere altrimenti: la crisalide è fondamentale per la nascita della farfalla, ma appena questa nasce le due strutture biologiche si devono separare una volta per tutte, perché la presenza della crisalide si rivelerebbe ora tossica per l’insetto alato. Fuor di metafora, la filosofia è stata fondamentale per la nascita del pensiero scientifico, ma col passare del tempo ha avuto un’influenza sempre più negativa, come una sorta di a priori indiscusso che ha finito per ostacolare il progresso scientifico.
L’analisi di Boncinelli è spietata. E senza dubbio corretta, anche se a volte scivola in qualche semplificazione eccessiva. Ma questo nulla toglie alla tesi generale di La farfalla e la crisalide, che interroga e sfida gli studiosi: un libro utile agli scienziati, che dalla riflessione dell’autore possono trarre spunti per meditare sul significato e sulla portata della propria disciplina, e necessario ai filosofi, per considerare i limiti della propria attività e i modi per ripensarla.
Repubblica 26.10.18
Cure omeopatiche per l’anima
Cercare la bellezza nonostante tutto
di Michela Marzano
È dai tempi di Platone e Aristotele che la filosofia si interroga sulla bellezza e cerca di capire se tratti di qualcosa di oggettivo o di soggettivo, di una scoperta o di un’invenzione. Esiste un legame tra il "bello" e il "vero" oppure, come ha mostrato Umberto Eco nella sua Storia delle bellezza, è illusorio immaginare che la bellezza sia qualcosa di assoluto e di immutabile? È bello "ciò che è bello" o è bello "ciò che piace"?
Nel suo ultimo saggio, La via della bellezza, il teologo e filosofo Vito Mancuso non ha dubbi: la bellezza non è mai una semplice invenzione, ma la via privilegiata per capire il senso e il valore della nostra vita. Nonostante l’essere umano sia caratterizzato dalla finitezza della propria condizione, non può d’altronde non essere consapevole dell’infinito che lo circonda. Nonostante a livello estetico alcune persone non siano belle, la bontà, la giustizia, l’intelligenza, la generosità e il coraggio «conferiscono luce al volto di chi li ospita rendendolo bello». Nonostante alcuni di noi possano restare indifferenti davanti allo spettacolo della bellezza, la lucentezza del reale risuona quando ci si apre allo splendore degli eventi. La bellezza è dunque un’epifania, è la bussola necessaria per orientare il cammino di ciascuno di noi verso la verità, e gioire al cospetto di quelle opere e di quegli eventi che ci «stringono il cuore», salvandoci dai due pericoli mortali che incombono sulla nostra anima: il vuoto nichilistico e l’assenza di significato da un lato, e la volontà di potenza e la sete di dominio e di oppressione, dall’altro.
Citando sapientemente sant’Agostino e Tolstoj, Aristotele e Schopenhauer, Platone e Dostoevskij, Kant e Nietzsche, Vito Mancuso mostra come l’essere umano sia fatto per la bellezza e dalla bellezza. A condizione però che si concentri sulla propria dimensione spirituale e non si lasci andare all’indifferenza o al superfluo. «La bellezza è da sempre con l’uomo perché è armonia. Più precisamente essa è l’armonia della relazione in quanto logica del mondo, ciò che informa l’essere inizialmente caotico facendo sì che produca enti ordinati». Ecco perché è sempre e solo l’armonia che ci permette di produrre la bellezza nell’arte, di agire secondo giustizia nel diritto, di ricercare il bene comune nella politica, e di unire la nostra anima al senso del mondo nella religione. Ma com’è possibile parlare di bellezza e di armonia, si chiede Mancuso, quando le si confrontano con le sofferenze e il dolore? Non è questa l’obiezione più grande di fronte alla quale ci si trova quotidianamente? Con grande onestà, Vito Mancuso riconosce che di fronte al dolore la teoria viene meno, e restano solo le opzioni esistenziali e le pratiche di vita. Ma rivendica anche una forma di «ottimismo tragico»: «La nostra vita costa, ma io penso sia bello lavorare al servizio dell’armonia, del bene e della giustizia, di una bellezza che genera passione, vitalità, direi anche sensualità». Se il mondo non fosse così bello, nessuno si lamenterebbe d’altronde delle ingiustizie cui pure si assiste, tutto sarebbe secondo copione.
Affermare la bellezza non significa smettere di vedere il male attorno a sé, significa solo «non lasciarsi privare dell’incanto del contatto con il bello».
La bellezza non è mai la meta cui giungere, è sempre la via. Anche semplicemente perché la vita ci attraversa e la si può sperimentare solo mentre la si vive. Ma il dono supremo dell’umanità, come dice Vasilij Grossman, è proprio il dono della bellezza spirituale, quella che sorge laddove l’ego si mette da parte lasciando spazio all’autenticità dell’io. Come rapportarsi però alla bellezza dell’umanità quando si è circondati dallo squallore? Come contribuire ad alimentarla?
All’epoca del nichilismo incombente, per Mancuso, occorre che ognuno di noi percorra il sentiero su cui è stato collocato — ognuno di noi è quello che è a causa di un complicato impasto di destino e di scelte — camminando sempre sul confine, consapevole che «nessun itinerario saprà mai contenere tutta la ricchezza dell’esistenza». La condizione umana è d’altronde giunta a un punto tale che o si fa un salto di qualità «diventando più spirituali, più veri, più buoni, insomma più belli» oppure l’esistenza sarà sempre più vuota e depressa. Fino alla conclusione: «La mia tesi è la seguente: affermare la centralità della bellezza significa sostenere una spiritualità omeopatica. Essa consiste nel ritenere che la salvezza scaturisce da dentro di noi, precisamente dall’accordo tra noi e il mondo da cui proveniamo e di cui siamo fatti senza richiedere l’intervento di un principio attivo a noi esterno, che il nostro organismo e la nostra mente non conoscono […] ognuno di noi è un’opera d’arte». Per Vito Mancuso, non si tratta di credere che la bellezza salverà il mondo, come scrive Dostoevskij in una celebre pagina dell’Idiota, ma di battersi affinché la bellezza salvi quel piccolo pezzo di mondo che è ognuno di noi.
Repubblica 26.10.18
La frattura tra élite ed elettori da cui nasce il populismo
di Stefano Folli
Il saggio "Perché è successo qui" di Maurizio Molinari
Non è un libro rassicurante, questo di Maurizio Molinari sulle ragioni di fondo della rivoluzione populista in Italia. Ma è assai utile come guida nei tempi che viviamo. Non è rassicurante perché evita ogni risvolto convenzionale e si affida a un linguaggio scarno, al di là di ogni pseudo-verità di comodo. Ha lo stile dell’inchiesta giornalistica e il passo del saggio basato su fatti, dati, circostanze. Molinari, oggi direttore della Stampa di Torino e in precedenza corrispondente a lungo dagli Stati Uniti e da Israele, ha appreso le regole del miglior giornalismo: quello fondato su saldi valori morali, ma anche consapevole che l’obiettività assoluta non esiste e ciò che le si avvicina di più è l’onestà intellettuale di scavare nella cronaca senza pregiudizi al fine di ricavarne una tesi generale documentata e convincente.
L’esplorazione intorno al 4 marzo, giorno delle elezioni che hanno cambiato l’Italia, diventa allora un viaggio nell’Italia di oggi e nelle sue contraddizioni. Che sono sociali ed economiche. Hanno a che vedere con le nuove diseguaglianze economiche, con la devastazione dei ceti medi a cui sono state tolte le certezze, con le paure – in primo luogo l’immigrazione e l’Islam – tipiche di un Paese dal presente confuso e dal futuro avvolto nella nebbia. Lega e Cinque Stelle, due fenomeni politici complementari ma solo in parte sovrapponibili, non vengono da Marte né rappresentano l’invasione degli Hyksos aggiornata al nuovo secolo.
Sono la fotografia di una frattura verticale tra élite e popolo; o se si preferisce tra establishment e popolo. Nonché una risposta istintiva da parte di un’Italia irritata con le forze tradizionali che hanno in sostanza fallito la loro missione in una ben determinata contingenza storica.
Per meglio dire, i due soggetti vincitori il 4 marzo, nella loro mancanza di legami con la memoria collettiva e addirittura, si può dire, estranei al patto costituzionale, rappresentano il prodotto di un mutamento in atto non solo in Italia, ma che qui ha assunto quel carattere di anteprima senza precedenti di cui già altre volte, se vogliamo risalire indietro nei decenni, l’Italia è stata protagonista: dal fascismo a Tangentopoli, volendo semplificare. E non si capisce quello che è accaduto prima del marzo 2018 se non si collocano nella giusta prospettiva i passi falsi commessi nel corso degli anni da una dirigenza politica responsabile di approssimazione, inadeguatezza e calcoli sbagliati. Fino all’esito inevitabile: rappresentarsi come "casta" privilegiata e corrotta, anziché come classe dirigente responsabile, agli occhi del cittadino comune.
Le nuove povertà non sono un’invenzione polemica, ma risultano documentate dalle indagini Istat. Il senso di insicurezza nella vita quotidiana sarà pure solo "percepito", ma è talmente diffuso – anche a causa di orribili vicende di cronaca nera – da essere ormai il principale asso nella manica di uno dei due "populismi", quello improntato a destra dalla Lega. Il bisogno di protezione sociale è palpabile. Infine la "miopia" dei partiti tradizionali: un aspetto che va oltre i nostri confini, come si è visto con il declino dei socialisti francesi e persino dei socialdemocratici tedeschi (senza contare l’appannamento dei democristiani di Angela Merkel).
Da noi però la miopia è spinta alle soglie del suicidio, come si è visto nel caso del Pd che invece di affrontare i temi cruciali della diseguaglianza e della perdita di "status" delle classi medie si è incartato per mesi in un referendum costituzionale trasformato dal premier del momento in un velleitario plebiscito personale a cui gli italiani, pressati da altri problemi, hanno risposto "no".
Conclusione: si è accesa la miccia che ha fatto esplodere il quartier generale. Ora si tratta di capire fino a che punto ha ragione Steve Bannon, l’ideologo del "trumpismo", il singolare Che Guevara che vuole esportare in Europa la filosofia politica della Casa Bianca, quando dice a Molinari che l’Italia è ormai "la forza trainante del nazional-populismo". E non c’è dubbio che l’affermazione di Trump in America ha avuto conseguenze sconvolgenti in tutto il mondo occidentale. Se le prossime elezioni nell’Unione saranno cruciali, se la scommessa di Salvini coincide con la speranza di buttare all’aria i vecchi assetti a Bruxelles, questo lo si deve in buona misura all’avvento di Trump. Come pure al nuovo mito dell’"uomo forte" incarnato da Putin e dalla sua strategia "dello scompiglio" o della destabilizzazione: per la quale tutti i mezzi sono leciti, anche l’uso delle tecnologie del web.
Era dai tempi della guerra fredda che l’Italia non si trovava così al centro dell’attenzione internazionale. Molinari decifra il rebus con freddezza, mescolando l’analisi della dimensione locale con quella del quadro mondiale di cui ha sperimentata conoscenza. In attesa che i prossimi mesi sciolgano gli interrogativi di fondo: il populismo al governo è una svolta storica o una parentesi, per quanto rilevante?
Repubblica 26.10.18
La chimica dell’amore
"La mia vita agra e senza tenerezza con Bianciardi"
Maria Jatosti racconta la tormentata relazione con il grande scrittore. Liti, separazioni, riconciliazioni e un finale drammatico "Prima di morire ucciso mi dedicò le sue ultime parole: è tutta colpa tua"
di Simonetta Fiori
ROMA Prima di cominciare vorrei chiudere la porta». Quasi sussurra Maria Jatosti, la "Maria del Bianciardi", la donna che irrompe fin dalle prime pagine de La vita agra con l’indomita forza della bellezza.
Prossima ai novant’anni, Maria è ancora molto bella ed energica. Ha modi schietti da "pasionaria della Garbatella" e occhi lunghi che non stanno mai fermi, come a cercare delle risposte impossibili. Parla piano perché non vuole disturbare Paolo Memmo, il suo compagno da 40 anni, «il poeta che mi ha dato la tenerezza e il rispetto che da Luciano non avevo avuto». Nella sua stanza da letto, all’ombra protettiva di una nicchia, la scrittrice ci affida la sua storia d’amore con uno degli scrittori più inquieti del Novecento. «Ne sono uscita a pezzi, completamente azzerata. Paolo è stato il mio angelo salvatore. Riuscì a cogliere ogni mia ferita dopo aver letto Tutto d’un fiato, il libro autobiografico uscito nel 1977, sei anni dopo la morte di Luciano: più che un romanzo, la cartella clinica di un male profondo».
Oggi il suo sguardo su quella storia è cambiato?
«Non saprei. Stanotte, preparandomi per questa intervista, ho scoperto che ricordo le cose brutte e faccio fatica a ricordare i momenti belli, che pure ci sono stati. Io mi ritrovo a chiedermi: ma com’era l’amore per lui? Perché mi sono innamorata di Luciano? So che è stato un grande amore, ne trattengo le prove nella carne, ma se incontrassi un uomo così oggi non lo potrei amare».
Cosa le fa ancora male?
«Quando ci siamo messi insieme, al principio degli anni Cinquanta, io ero una giovane donna forte, autonoma, con il passo da guerrigliera. Comunista, mille esperienze di lavoro, pure la galera per una manifestazione contro gli Usa. Ma con Luciano tutto questo finisce. Pian piano mi spengo. Lui è riuscito a dominarmi completamente: forse in modo consapevole, perché in realtà mi amava moltissimo. Ma il risultato fu disastroso».
In che modo la spegneva?
«In tanti modi. Uno era lo sfottò martellante del Partito, anzi del "Partido" come lo chiamava lui facendomi il verso da romanaccia.
Ridicolizzava la mia vita di militante comunista, impedendomi a Milano di frequentare la sezione. Per anni non ho rinnovato la tessera. Eppure il partito era la mia casa, la mia famiglia, il mio avvenire».
Forse per questo l’ha indotta a tagliare.
«Dovevo essere solo sua e basta.
Senza grilli per la testa».
Ma aveva scelto lei, Maria, proprio perché indipendente e spregiudicata.
«Sì, ero la donna con cui fare la rivoluzione. E infatti la nostra storia aveva ripreso linfa proprio dopo la strage di Ribolla, nel 1954, con la morte in miniera di quarantatré lavoratori maremmani. Che ci sto a fare qui, si domandò Luciano. S’era reso conto che bisognava far saltare il torracchione, metaforicamente. E io ero la compagna che poteva capire e affiancarlo nella rivolta.
Venne a trovarmi a Roma e la storia ricominciò».
Perché si era interrotta?
«Ci eravamo conosciuti nel 1950 a Livorno durante una riunione nazionale dei cineclub. Una sera a cena cominciò a recitare una poesia di Spoon River, guardandomi con una tale intensità e prepotenza da farmi male. Mi innamorai di quello sguardo. Poi andammo a passeggiare al mare e parlammo di tutto: letteratura, politica, il mondo intero dentro e fuori di noi. Una notte bellissima, magica. "Sono sposato ma questa notte è nostra", mi disse lui».
Fu romantico?
«No, non è la parola giusta per Luciano. Né romantico né tenero.
Finimmo a letto, ovviamente. Per me era una cosa abbastanza naturale: avevo vent’anni, ero libera e sfrontata, ma avevo interesse più per l’incontro umano che per il sesso, di cui non sapevo niente. "Sembri un sacco di patate", mi disse. E finché è durata la nostra storia io non ho mai condiviso con Luciano un preambolo tenero, uno scambio di dolcezze. Niente. Si faceva sesso e basta. Anche da quel punto di vista, io non c’ero».
La relazione continuò?
«Sì, tra Roma e Grosseto correvano due lettere al giorno. Fin quando la moglie lesse il carteggio amoroso e Luciano preferì troncare. Ma dopo l’esplosione in miniera mi venne a cercare».
Comincia l’esperienza milanese raccontata ne "La vita agra".
«Anni di grande felicità, di scoperta e di avventura, nella piccola stanza di
Brera».
Eravate una coppia clandestina. Bianciardi scrive che l’ostilità della gente talvolta gli entrava dentro. E la riversava su di lei, tempestandola di domande: che ci fai? Che vuoi da me? Perché sei arrivata? Aveva sensi di colpa per la moglie abbandonata.
«Sì, questo era il rimorso della sua vita. Una ferita mai curata. Non s’è mai perdonato di aver lasciato una moglie devota per una donna dal passato che giudicava tremendo.
Aveva lasciato una santa per una puttana, che però adorava».
E la faceva sentire in colpa?
«Certo. Lì è cominciato il lavorio distruttivo che ha finito per annichilirmi. Ora è doloroso ricordare che per me c’era la mammana pronta, mentre con la moglie nel 1955 ebbe un’altra figlia, Luciana. E fino alla fine avrebbe negato il suo nome al nostro Marcello, il figlio della colpa».
L’anarchico rivelava un lato fortemente tradizionalista.
«È questa la grande contraddizione di Luciano, uomo antico e modernissimo. Da una parte era molto legato alla terra, alle radici toscane, ai pigri rituali della borghesia minima grossetana, tra il casino il sabato pomeriggio e la messa la domenica. E dall’altra aveva un’intelligenza profetica proiettata sul futuro: quando tutti sbavavano sul boom, lui comprese che stavamo andando verso una fregatura».
Lei ha capito da dove venivano i suoi fantasmi?
«Luciano è morto di sensi di colpa.
Prima di morire, ucciso dall’alcol e dai barbiturici, mi dedicò le sue ultime parole: "È tutta colpa tua".
Una dannazione, più che un commiato. Io per fortuna so come sono andate le cose. Però è stata durissima».
È morto della sua contraddizione.
«Se fosse rimasto a Grosseto, avrebbe avuto una vita più serena.
Però non avrebbe scritto La vita agra ».
Quando uscì il romanzo, nel 1962, fu un grande successo. Ma qualcosa tra voi si incrinò.
«Io detestai quel libro. Mi fece molto male. Quella che leggevo in quelle pagine non era stata la nostra vita, la nostra grande avventura. E non mi ritrovavo nel personaggio di Anna: non ero io quella donna che o dormiva o scopava».
Lei era anche infastidita dalla mondanità scatenata dal successo.
«Quella baraonda dissennata ci stava cambiando. Luciano mi sembrava inebriato, non si perdeva un cocktail e cominciò a bere smodatamente. Io non sopportavo lo spettacolo dell’anarchico che se la godeva, proprio lui che voleva far saltare il torracchione. Era stordito e anche sorpreso: ma guarda questi stronzi, mi diceva, dovrebbero picchiarmi e invece mi fanno il monumento.
Decisi di tornarmene a Roma, con mio figlio. Ma dopo dieci giorni Luciano venne a riprendermi: la mia vita sei tu».
Quando lo vide perdersi?
«Il grande errore fu Rapallo, la scelta di andare a vivere lì. Luciano vi ritrovò la provincia che aveva lasciato in Maremma e cominciò a bere tanto. Stava molto male, consumato dalla cirrosi. Era irascibile, con scatti violenti contro di me. Fin quando gli vidi crescere dentro la voglia di tornare a Grosseto. Fui io a insistere: provaci, io per te ci sarò sempre. Ma quel tentativo ebbe un esito tragico. Fu l’ultima mazzata».
Quali demoni l’hanno ucciso?
«L’impossibilità di vivere. Lui era quello della Vita agra. Luciano non amava la gente. Ha amato molto i minatori di Ribolla e gli amici toscani. Però il passo in avanti non l’ha mai fatto. E anche il lavoro era un alibi per isolarsi, il suo modo per proteggersi dalla vita».
Di fronte all’autodistruzione lei scappò.
«Sì, un mese prima della sua morte fuggii a Parigi con Marcello. Feci un errore che tutti mi avrebbero rimproverato: avrei dovuto tenere la manina del Grande Scrittore morente. Ma io mi rifiutavo di vederlo morire. O ti curi e smetti di bere o me ne vado, gli dicevo.
Quando le sue condizioni peggiorarono tornai a Milano, ma Luciano fece in tempo solo a maledirmi».
Ebbe il funerale all’antica che immaginava ne "La vita agra"?
«Nella camera ardente non venne nessuno: eravamo soli, io e Sergio Pautasso. E Marcello. Arrivò una delegazione da Grosseto che mi chiese se potevano riportarlo lì. Ma certo, risposi. Quella è la sua casa.
Non l’ha mai lasciata».
Sia in "Tutt’un fiato" che nel più recente libro autobiografico "Per amore e per odio" (Manni) non lo nomina mai. Perché?
«È come se tutta questa storia non mi appartenesse del tutto. Negli anni ho ritrovato il coraggio e la prepotenza, il rapporto con gli altri.
Sono tornata me stessa. E continuo a domandarmi come è stato possibile».
"Detestai quel libro Quella che leggevo in quelle pagine non era stata la nostra grande avventura"