La Stampa 18.10.18
Orfani della politica sognando Pericle
Democrazia stanca, come nell’antica Atene
di Luciano Canfora
Ci
manca un Pericle. Nella tormentata e turbolenta storia della democrazia
ateniese del V secolo a.C. l’improvvisa scomparsa del grande leader,
morto di peste nel 429 a.C., costituì una cesura. O, per lo meno,
testimoni a lui favorevoli, come il generale e storiografo Tucidide,
questo affermarono. E molto dopo, verso la fine del secolo successivo in
termini in parte simili si espresse uno studioso di storia ateniese
come il filosofo Aristotele: le cui fonti ci sono note solo in parte, ma
che certamente ha usato anche Tucidide.
Ma come mai si formò il
«mito» di una decadenza del ceto politico conseguente all’uscita di
scena di Pericle? Per altri contemporanei – orientati diversamente da
Tucidide –, per esempio per il gruppo politico facente capo al clan di
Cimone (figlio del vincitore di Maratona), le cose stavano alquanto
diversamente. E per parte loro i commediografi bollavano Pericle con
l’epiteto di «tiranno», mentre un appassionato di politica come Platone –
che era nato l’anno dopo la morte di Pericle – lo definisce, in un ben
noto passo del Gorgia, «corruttore del popolo»: con altrettanta nettezza
quanto quella di Tucidide quando lo presenta come educatore del popolo.
Non
è difficile dar conto di una situazione del genere. Su nessun leader
politico, di qualunque epoca, anche la più remota, il giudizio è mai
unanime. Nemmeno sul «tiranno» (cioè «paciere») della città di Mitilene
nell’isola di Lesbo al tempo del poeta Alceo. Il quale lo odiava, ed
esultò per la sua morte, semplicemente perché apparteneva ad un clan
politico-familiare avverso. Per non parlare dell’imperatore Tiberio tra
la demolizione che ne fa Tacito e l’esaltazione che ne fa Velleio.
Ciò
che invece può essere oggetto di valutazione comparativa tra
generazioni di politici diverse e distanti tra loro è la qualità e la
preparazione: per esempio salta all’occhio l’abisso che separa un Di
Vittorio da un Di Maio. Ma su che base si misura la preparazione? Anche
in questo campo la discussione è antica. Uno dei cardini del socratismo
fu infatti – per lo meno a giudicare da quel che Senofonte e Platone
fanno dire a Socrate – la questione della competenza dell’uomo politico
in relazione alla sua funzione. Il suo compito è di conquistare il
consenso o di operare in modo giovevole alla comunità? A seconda che si
persegua l’uno o l’altro obiettivo sono richieste competenze diverse.
Il
dilemma fu per così dire esasperato dall’entrata in scena dei maestri
nell’arte della parola, i quali insegnavano agli aspiranti politici a
parlare, cioè a convincere. E chi s’impadroniva di quell’arte riusciva
meglio nell’intento: al punto che finirono per essere solo i «signori
della parola» in grado di assumere una funzione dominante nella città.
Non
era però una soluzione durevole. Non solo perché almeno le competenze
militari – in una realtà costantemente conflittuale – divennero presto
oggetto di specializzazione (per quanto elementare fosse la tecnica
bellica); ma anche perché l’acuirsi del conflitto sociale (per esempio
ad Atene con la fine dell’impero) creava una situazione in cui l’utile
per alcuni non era per niente l’utile per altri.
Non tracceremo
qui una storia dell’evoluzione politico-sociale-militare delle società
antiche. Segnaleremo soltanto, riferendoci soprattutto alle vicende
della Roma repubblicana e tardo repubblicana, il divaricarsi tra due
generi di oratoria politica: quella popolare e tribunizia da un lato,
quella oligarchico-ottimate dall’altro. Una divaricazione di cui l’opera
superstite di Sallustio e l’imponente corpus dell’oratoria ciceroniana
costituiscono ampio documento.
Uno scritto confluito tra le opere
di Cicerone (e attribuito al fratello di lui, Quinto) si definisce
«Manuale per la campagna elettorale» (Commentariolum petitionis). Molti
anni fa la Salerno Editrice (Roma) lo pubblicò in traduzione italiana
con una introduzione di Giulio Andreotti. Non è un testo edificante, al
contrario è pieno di suggerimenti che ci appaiono molto «opportunistici»
e ben poco eticamente rigorosi. Peraltro, all’epoca Andreotti si
compiaceva di serbare, non senza abilità, il ruolo di presidente del
Centro di Studi Ciceroniani. Ha senso rimpiangerlo – dopo tutto ciò che,
anche in sede giudiziaria, è risultato – in omaggio alla sua buona
conoscenza del latino? Forse no.
Nell’ultimo quarto di secolo il
personale politico, non solo in Italia, è venuto rimpicciolendosi (dal
generale De Gaulle al fringuello Macron, per esempio). Ma forse questo
non dipende solo dal tipo di scuole che i politici frequentarono e dalla
cultura generale che eventualmente assimilarono o dalle esperienze
formative che fecero, ma dalla crescente e ormai travolgente perdita di
peso del ruolo del politico professionale rispetto ai discreti ma
onnipotenti registi del potere economico, veri ma occulti leader dei
nostri destini.
La Venere di Milo (130 a.C. circa) esposta al Museo del Louvre a Parigi