La Stampa 18.10.18
Quando i razzisti ce l’avevano con noi
La storia dell'immigrazione a Washington
Il festival delle letterature migranti
di Paolo Mastrolilli
Un
tempo i migranti eravamo noi, orde di italiani in fuga. Scappavamo per
le stesse ragioni che oggi spingono migliaia di disperati verso le
nostre coste, e spesso ci comportavamo come loro, nel bene e nel male.
Eravamo soggetti alle stesse discriminazioni, e agli stessi atti di
compassione; commettevano gli stessi crimini, e offrivamo gli stessi
contributi di eccellenza, quando l’integrazione alla fine ce lo
consentiva. È la lezione, esaltante e triste, che si impara visitando il
Museum on Italian Immigration, inaugurato dalla National Italian
American Foundation la settimana scorsa nella sua sede di Washington,
dedicata all’ex ambasciatore degli Stati Uniti a Roma Peter Secchia.
Essendo
la mostra curata dall’organizzazione che difende gli interessi degli
italo-americani, uno si aspetta l’ovvio cedimento alla retorica. Invece
no, la Niaf ha scelto di seguire la strada dell’onestà. Naturalmente il
museo celebra i nostri miti, da Joe DiMaggio a Frank Sinatra, passando
per Rocky Marciano e Fiorello LaGuardia, fino ai politici contemporanei
come Leon Panetta, che da direttore della Cia guidò l’operazione contro
Osama bin Laden. Però non nasconde la realtà, ricordando quando
all’inizio del secolo scorso circa tre milioni e mezzo di italiani
sbarcarono a Ellis Island, e altrettanti arrivarono in Argentina, quasi
tutti illegali. Tanti partiti dal meridione, ma molti anche dal Nord,
perché i poveracci allora non stavano solo a Sud di Roma.
La
chiamavano «l’isola delle lacrime», il punto di arrivo a New York. E in
effetti si fatica a trattenere la commozione, vedendo le foto delle
visite mediche sommarie a cui venivano sottoposti i nostri nonni. I
dottori decidevano all’impiedi chi meritava di scendere e chi no, e
particolarmente odioso era il giudizio affrettato che veniva dato sulla
salute mentale dei migranti: «Ha lo sguardo strano, trema, è triste».
Chi non passava questa mannaia, veniva subito rimesso sulla nave e
rispedito a casa.
Per chi ce la faceva, invece, iniziava il lungo
dramma dell’integrazione. Si capisce dalla vignetta di un giornale, che
dipingeva così gli italiani in arrivo: loschi individui che si gettavano
in mare, con la scritta «Mafia» stampata sulla testa, per assalire e
invadere le coste di Manhattan. Perché così apparivamo agli americani
anglo sassoni e protestanti: scuri di pelle, pericolosi, e cattolici,
tratti che allora marcavano una differenza culturale non troppo lontana
da quella che oggi notiamo negli africani o i musulmani.
E poi,
per quanto odiosamente razziste fossero queste vignette, bisogna
ammettere la realtà: è vero che in America abbiamo esportato eccellenze
tipo Enrico Fermi, ma anche criminali come Al Capone. Alcuni italiani
sbarcavano con l’intenzione di delinquere, e altri finivano per farlo.
Perché, come dicevano gli americani allora, gli immigrati sono portati
fisiologicamente a violare la legge, e un loro reato fa molta più
notizia di dieci commessi dai locali. Anche quando in realtà non erano
colpevoli. Come a New Orleans, dove il 14 marzo 1891 undici
italo-americani furono linciati dalla folla, che li accusava
dell’uccisione del capo della polizia David Hennessy. Oppure come Nicola
Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati in Massachusetts di una rapina
che non avevano mai commesso, e giustiziati nel 1927 solo perché erano
italiani e anarchici.
Del resto la nostra cattiva fama non era
solo un mito, un errore, o l’effetto perverso del razzismo. Il museo
della Niaf, ad esempio, ricorda senza reticenze anche la storia della
«Mano Nera», una organizzazione di italiani dedita all’estorsione, di
cui cadde vittima anche il probo detective del New York Police
Department Joe Petrosino. La mafia invece esiste ancora, anche dopo la
fine degli epigoni contemporanei tipo John Gotti, pur se negli ultimi
tempi ha perso terreno rispetto alle organizzazioni russe, e soprattutto
al narcotraffico latinoamericano.
Impossibile poi sorvolare sul
fascismo, che abbiamo inventato noi, e quindi penderà sempre sulle
nostre teste. Ad esempio con l’abuso degli italiani internati in Montana
durante la Seconda Guerra Mondiale, perché considerati potenziali
nemici, ma anche l’asilo offerto al maestro Toscanini, costretto a
scappare dal suo Paese perché si rifiutava di suonare gli inni del
regime all’inizio dei suoi concerti.
Superati questi pregiudizi,
questi abusi, questi atti di puro razzismo, e anche quelli provocati dai
nostri errori, è arrivata infine l’integrazione. Oggi gli italiani
hanno conquistato la quarta carica dello Stato, con il capo della
diplomazia Mike Pompeo, anche se magari la sua famiglia non sarebbe
neppure entrata negli Stati Uniti, se il clima di oggi fosse esistito
quando aveva lasciato l’Abruzzo. Abbiamo dato all’America premi Nobel e
campioni dello sport, attori e politici, e forse senza Sergio Marchionne
un’icona americana come la Chrysler non esisterebbe più. Mario Cuomo
sottolineava sempre che ogni giorno a New York si parlano oltre 140
lingue, e quindi la sopravvivenza civile è un miracolo quotidiano,
frutto in parte dell’ipocrisia della correttezza politica, in parte
della sopportazione, e in parte del contributo autentico, tangibile e
positivo dato dagli immigrati. Se si mettono da parte i pregiudizi, e si
concede loro la possibilità di integrarsi e mostrare il proprio valore.