La Stampa 18.10.18
Palazzo Chigi e la notte del thriller
di Francesco Bei
Una
crisi di governo-Snapchat, che si cancella da sola nel giro di pochi
minuti, il tempo di una puntata di Porta a porta. Un vero thriller, con
la caccia al colpevole ancora in corso, che arriva a scuotere la
maggioranza: mai nella storia italiana si era visto un governo
rivolgersi a una procura della Repubblica e denunciare se stesso per un
atto approvato dal Consiglio dei ministri. Un annuncio quasi surreale
quello di Luigi Di Maio, che ha lasciato a bocca aperta tutti gli
spettatori, da ieri sera finalmente consapevoli del livello lisergico a
cui è arrivata la lotta politica nel nostro Paese.
Di fronte a un
vicepremier che minaccia una denuncia penale contro ignoti per un atto
legislativo che sarebbe stato alterato nella sua trasmissione da Palazzo
Chigi al Quirinale, c’è da alzare le braccia. A parte il fatto che a
Mattarella ancora nessuno ha trasmesso nulla, come è trapelato con
qualche irritazione dal Colle, resta da chiedersi come si svolgano i
Consigli dei ministri di questa maggioranza. C’è qualcuno che legge
quello che vota oppure ci si affida alla trasmissione orale, sperando
che il sottosegretario che verbalizza la riunione abbia compreso bene?
La
circostanza denunciata da Di Maio è comunque di una gravità assoluta,
sia per il dilettantismo che rivela nel maneggiare materie così
delicate, sia perché ci fa comprendere quanta fiducia ci sia tra i
partner di governo. Stavolta appare infatti poco credibile la teoria
della «manina invisibile» di qualche tecnico che abbia alterato il
decreto fiscale introducendovi lo scudo per gli immobili e i capitali
detenuti all’estero e la depenalizzazione dell’evasione. Guarda caso
proprio le materie che da giorni la Lega sta provando a infilare nel
decreto e che fino a martedì sera sarebbero dovute finire in un
emendamento parlamentare alla manovra.
Chiaro che prendersela
ancora una volta con i tecnici del ministero dell’Economia cela altro,
sembra piuttosto una teoria di comodo per nascondere il vero bersaglio
polemico del movimento Cinque Stelle: la Lega e quella voglia matta di
condono tombale che fin dal primo giorno Salvini vuole introdurre nel
decreto. Prendersela, come ha fatto ieri Di Maio, con le «manine
ministeriali», gridare al complotto, è certamente più facile che
indicare nomi e cognomi del partito alleato. Ma la tensione nel governo è
altissima e negli ultimi tempi personaggi strategici della squadra -
come ad esempio il sottosegretario Giancarlo Giorgetti – sono finiti nel
mirino della componente grillina che li accusa di boicottare la
luminosa marcia del Movimento verso la Manovra del Popolo. La realtà è
che fin da subito, dalla negoziazione del Contratto, si era capito che i
due partner della maggioranza – cementati in maniera opportunistica dal
potere e dalla comune avversione alle élite – sono in realtà molto
divisi sul programma. La coperta del Contratto, come si vede, non riesce
a nascondere del tutto queste divisioni e si palesa come mera
giustapposizione di istanze diverse, talvolta opposte. Le distanze
restano profonde, sono culturali (una volta si sarebbe detto
ideologiche) prima che politiche. E la disfida sul condono le contiene
tutte: l’ossessione grillina di non apparire «come quelli di prima»,
l’occhio strizzato agli evasori da parte della Lega, il giustizialismo
M5S contro il condonismo lumbard, le «manette agli evasori» contro chi
pensa che in fondo il privato sia giustificato quando decide di
difendersi dalle eccessive richieste fiscali dello Stato.
La
sceneggiata di Di Maio non poteva capitare in un momento peggiore, nel
giorno in cui il commissario al Bilancio Guenther Oettinger rivela il
segreto di Pulcinella, ovvero che l’Ue respingerà la manovra italiana. A
questo punto il dubbio è lecito: a Bruxelles quale testo hanno
ricevuto? Sono davvero sicuri di avere sotto gli occhi una versione
ufficiale e vidimata del bilancio italiano? Moscovici, che oggi sarà a
Roma per incontri al più alto livello, farebbe bene a informarsi.
Luigi
Di Maio ha consigliato polemicamente a Oettinger e a tutti i commissari
europei di «iniziare a comportarsi da persone serie e mordersi la
lingua tre volte prima di fare dichiarazioni». Non sarebbe sbagliato se
la stessa prudenza del signor Palomar di Calvino il nostro vicepremier
l’applicasse anche a se stesso. Certo, farebbe qualche diretta Facebook
in meno, ma forse per il Paese non sarebbe una perdita irreparabile.