giovedì 18 ottobre 2018

La Stampa 18.10.18
Freud signore degli anelli
Ritrovati gli antichi sigilli che il padre della psicanalisi donava agli allievi più fedeli
di Ada Treves


Tre luoghi fondamentali, tre case trasformate in musei: Příbor, dove Sigmund Freud è nato nel 1856; Vienna, con le stanze dove ha vissuto per 47 anni e in cui ha scritto la maggior parte delle sue opere; Londra, dove il padre della psicanalisi si rifugiò con la famiglia dopo l’Anschluss - l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938 - e fino alla sua morte, nel settembre dell’anno successivo. A Příbor - Freiberg - città della Moravia all’epoca parte dell’Impero austriaco e oggi si trova nella Repubblica Ceca era Sigismund Schlomo, figlio di un commerciante di lane ebreo che poco dopo decise di trasferirsi a Vienna, dove il giovanissimo Freud proseguì gli studi, e decise di abbreviare il proprio nome in Sigmund.
Come in una saga
Inventore della psicanalisi, termine che usò in maniera formalizzata per la prima volta in due articoli del 1896, considerato uno dei personaggi più influenti vissuti tra 800 e 900, Freud è protagonista di due mostre molto diverse. Freud of the Rings - Freud degli anelli - aperta fino a marzo 2019 all’Israel Museum di Gerusalemme è nata dalla curiosità di una giovane curatrice del museo, Morag Wilhelm, dopo il ritrovamento tra gli oggetti della collezione di una scatoletta di cartone su cui compariva la scritta «Freud Nike». Dentro, un anello con incastonata una pietra che raffigurava la dea della vittoria, appartenuto alla paziente di Freud e a sua volta psicanalista Eva Rosenfeld.
Non è l’unico, ed è collegato a una storia che porta a pensare alla Compagnia dell’anello così come la racconta Tolkien nel primo volume della sua saga: Pyllis Grosskurth in The Segret Ring: Freud’s Inner Circle and the Politics os Psychoanalysis spiega come dopo la rottura del 1912 con Carl Gustav Jung, suo discepolo e sino ad allora suo erede, si fosse costituito un Comitato segreto composto dai più prossimi collaboratori di Freud: Karl Abraham, Sándor Ferenczi, Otto Rank, Ernest Jones e Hanns Sachs. Furono loro i destinatari dei primi anelli: discepoli analizzati direttamente dal maestro, rappresentanti della teoria psicoanalitica pura destinati a costituire una roccaforte non ufficiale all’interno della Società di Psicoanalisi. Le pietre, con incisa una divinità, venivano dalla collezione di arte antica di Freud, che a sua volta portava sempre al dito un sigillo risalente ai tempi dell’antica Roma.
Hanns Sachs, nel suo testo del 1944 intitolato Freud, maestro e amico (pubblicato in italiano da Astrolabio nel 1973), scrisse che «Il dono degli anelli aveva un preciso significato simbolico: ci ricordava che ogni nostro reciproco rapporto aveva lo stesso centro di gravità. Ci faceva sentire che appartenevamo a un gruppo nel gruppo, quantunque senza alcun legame formale o il tentativo di diventare un’organizzazione separata». L’Israel Museum espone sei dei circa venti anelli che anche in seguito Freud donò ad alcuni dei discepoli in segno di riconoscenza e di stima, tra di essi oltre a quello di Rosenfeld, gli anelli di Ferenczi, Ernst Simmel e della figlia di Freud, Anna, accanto a una selezione delle sue statuette antiche.
Dallo sguardo all’ascolto
Molto diversa la mostra aperta da pochi giorni al MahJ, il Museo di arte e storia ebraica di Parigi, curata dal critico d’arte Jean Clair - già direttore del Museo Picasso di Parigi e curatore della Biennale di Venezia del centenario - intitolata Du regard à l’écoute
, Dallo sguardo all’ascolto: visitabile fino a febbraio del prossimo anno, è la prima organizzata in Francia sul padre della psicanalisi, che pure tra il 1885 e il 1886 visse a Parigi, dove era giunto per studiare con Jean-Martin Charcot. Un percorso intellettuale e scientifico che attraverso alcune grandi opere d’arte - dalla Lezione di Charcot alla Salpetrière di Broullet a Courbet con L’origine del mondo a Klimt, da Magritte, Max Ernst e Mark Rothko a Oskar Kokoschka e Egon Schiele - porta alla scoperta del suo lavoro come neurologo, a Vienna e Parigi, e del suo interesse per la biologia. E racconta come, nonostante la passione di Freud per l’arte, la psicoanalisi sia cresciuta nell’assenza di rappresentazioni visive basandosi esclusivamente sulla parola e sull’ascolto, in continuità con l’eredità di Mosè che aveva proibito al suo popolo di farsi delle immagini.
E se nel Novecento la psicoanalisi si è ulteriormente evoluta confluendo in altre teorie, contribuendo alla nascita di altre scuole, se fra ricerche e studi scientifici che ne esaltato i benefici per i pazienti e altri che ne ridimensionano la portata, il dibattito è ancora così acceso è perché il segno che Freud ha lasciato è indelebile. Quasi un sigillo, come quello che portava sempre al dito.

La Stampa 18.10.18
“L’analisi è utile anche nel mondo iperconnesso”
di Roselina Salemi


La frase è abusata. «Mi sento rinato». Rinascere si può, riparando gli strappi dell’anima, da soli o con l’aiuto, di un altro «Siamo di fronte alla morte (la fine dell’amore, la crisi nel lavoro) e qualcosa è stato distrutto. Dobbiamo affrontare e superare questa spinta distruttiva». A parlare è Silvia Lippi, ricercatore all’Università di Parigi 7 e docente dell’Irpa, Istituto di Ricerca della Psicanalisi Applicata, in libreria con Sigmund Freud. La passione dell’ingovernabile (Feltrinelli), e ospite del Festival KUM! di Ancona. Il tema è «Risurrezioni». E sì, per Silvia Lippi «è possibile rinascere grazie alla psicanalisi».
Quando e come?
«Dobbiamo alimentare il desiderio di vita, e la spiegazione del presente è sempre nel passato. Il dopo è determinato dal tuo punto di vista, o dalla capacità di vederti da fuori. Davanti a un fallimento la reazione più comune è il vittimismo. Invece non lamentarti, pensa a una soluzione, non aspettare che arrivi un altro a salvarti. La risurrezione laica è una decisione del desiderio».
Cioè, se impariamo a desiderare possiamo riorganizzare la nostra esistenza?
«Sì, l’ideale è il nostro nemico. Può essere paralizzante. Il desiderio permette di agire con piccoli movimenti, niente di eccezionale (Lucrezio lo chiama clinamen, una piccola deviazione degli atomi) e alla fine arriva il cambiamento. Con la parola, con lo sguardo, con l’incontro. Così si rinasce. Ci siamo sottomessi a un’idea di ascesa e di caduta, dobbiamo accettare un’idea di mutazione e varietà. Non vedere solo le cose che finiscono».
C’è differenza tra uomini e donne?
«La donna ha un’apertura maggiore, è più capace di vivere secondo il desiderio, senza il narcisismo della potenza maschile. Può diventare amministratore delegato ma esercitare il potere in maniera diversa, smascherarne l’inganno. Non tutte lo fanno, e allora replicano uno schema di aggressività extravirile. Perché si cerca il denaro o il potere? Per ottenere il godimento. Eppure questa ricerca ansiosa ti toglie proprio il godimento. Ti ritrovi a desiderare il potere in sé, come fine e non come mezzo, come una qualunque dipendenza: da internet, dai videogiochi…».
E nella coppia?
«Immagino una coppia dove l’amore non sia il centro ma parte della costruzione. Un famoso filosofo ha sposato una donna alla quale non ha mai detto “ti amo”. Ma “vorrei sposarti perché mi piace come metti in ordine i cassetti”. A parte l’originalità e la simpatia c’è il dare valore alla singolarità. E’ sull’incontro delle due singolarità che la coppia rinasce e diventa una potenza».
Ma oggi, in una società frammentata e iperconnessa ha ancora senso la psicoanalisi?
«È quanto mai attuale. Usa un frammento, di storia, di sintomi, e la nostra epoca è fatta di frammenti. Che sia un tempo non finalizzato è vero. Ha un effetto, e potrebbe non essere quel che cercavi. Per esempio, un uomo ha un problema con una donna: la sposo o no? (lei l’ha messo di fronte a un aut-aut, deve decidere). Grazie al lavoro analitico scopre qual è il suo vero desiderio e potrebbe essere un no, una rottura».
Viviamo nel mondo delle terapie brevi. Woody Allen è stato in analisi tutta la vita, con scarsi risultati, sostiene…
«E’ vero, oggi è tutto veloce. Se la terapia breve funziona, perché no? Ci sono tanti fruttivendoli: ognuno compra dove è convinto di trovare il prodotto migliore. Però non è detto che liberarsi di un sintomo sia la soluzione definitiva. Spesso ne scompare uno e ne appare un altro. Lo sviluppo più importante è quello che ha dato in Italia Massimo Recalcati (direttore scientifico di Kum! ndr.) con i centri Jonas, con la psicoanalisi sociale in 20 città, la cura che incontra la gente. L’analisi è sempre soggettiva, ma fenomeni come l’anoressia, la bulimia, le dipendenze, hanno un contesto e un riferimento collettivo. Se dovessimo usare uno slogan, sarebbe: “L’inconscio per tutti”».

La Stampa 18.10.18
Orfani della politica sognando Pericle
Democrazia stanca, come nell’antica Atene
di Luciano Canfora


Ci manca un Pericle. Nella tormentata e turbolenta storia della democrazia ateniese del V secolo a.C. l’improvvisa scomparsa del grande leader, morto di peste nel 429 a.C., costituì una cesura. O, per lo meno, testimoni a lui favorevoli, come il generale e storiografo Tucidide, questo affermarono. E molto dopo, verso la fine del secolo successivo in termini in parte simili si espresse uno studioso di storia ateniese come il filosofo Aristotele: le cui fonti ci sono note solo in parte, ma che certamente ha usato anche Tucidide.
Ma come mai si formò il «mito» di una decadenza del ceto politico conseguente all’uscita di scena di Pericle? Per altri contemporanei – orientati diversamente da Tucidide –, per esempio per il gruppo politico facente capo al clan di Cimone (figlio del vincitore di Maratona), le cose stavano alquanto diversamente. E per parte loro i commediografi bollavano Pericle con l’epiteto di «tiranno», mentre un appassionato di politica come Platone – che era nato l’anno dopo la morte di Pericle – lo definisce, in un ben noto passo del Gorgia, «corruttore del popolo»: con altrettanta nettezza quanto quella di Tucidide quando lo presenta come educatore del popolo.
Non è difficile dar conto di una situazione del genere. Su nessun leader politico, di qualunque epoca, anche la più remota, il giudizio è mai unanime. Nemmeno sul «tiranno» (cioè «paciere») della città di Mitilene nell’isola di Lesbo al tempo del poeta Alceo. Il quale lo odiava, ed esultò per la sua morte, semplicemente perché apparteneva ad un clan politico-familiare avverso. Per non parlare dell’imperatore Tiberio tra la demolizione che ne fa Tacito e l’esaltazione che ne fa Velleio.
Ciò che invece può essere oggetto di valutazione comparativa tra generazioni di politici diverse e distanti tra loro è la qualità e la preparazione: per esempio salta all’occhio l’abisso che separa un Di Vittorio da un Di Maio. Ma su che base si misura la preparazione? Anche in questo campo la discussione è antica. Uno dei cardini del socratismo fu infatti – per lo meno a giudicare da quel che Senofonte e Platone fanno dire a Socrate – la questione della competenza dell’uomo politico in relazione alla sua funzione. Il suo compito è di conquistare il consenso o di operare in modo giovevole alla comunità? A seconda che si persegua l’uno o l’altro obiettivo sono richieste competenze diverse.
Il dilemma fu per così dire esasperato dall’entrata in scena dei maestri nell’arte della parola, i quali insegnavano agli aspiranti politici a parlare, cioè a convincere. E chi s’impadroniva di quell’arte riusciva meglio nell’intento: al punto che finirono per essere solo i «signori della parola» in grado di assumere una funzione dominante nella città.
Non era però una soluzione durevole. Non solo perché almeno le competenze militari – in una realtà costantemente conflittuale – divennero presto oggetto di specializzazione (per quanto elementare fosse la tecnica bellica); ma anche perché l’acuirsi del conflitto sociale (per esempio ad Atene con la fine dell’impero) creava una situazione in cui l’utile per alcuni non era per niente l’utile per altri.
Non tracceremo qui una storia dell’evoluzione politico-sociale-militare delle società antiche. Segnaleremo soltanto, riferendoci soprattutto alle vicende della Roma repubblicana e tardo repubblicana, il divaricarsi tra due generi di oratoria politica: quella popolare e tribunizia da un lato, quella oligarchico-ottimate dall’altro. Una divaricazione di cui l’opera superstite di Sallustio e l’imponente corpus dell’oratoria ciceroniana costituiscono ampio documento.
Uno scritto confluito tra le opere di Cicerone (e attribuito al fratello di lui, Quinto) si definisce «Manuale per la campagna elettorale» (Commentariolum petitionis). Molti anni fa la Salerno Editrice (Roma) lo pubblicò in traduzione italiana con una introduzione di Giulio Andreotti. Non è un testo edificante, al contrario è pieno di suggerimenti che ci appaiono molto «opportunistici» e ben poco eticamente rigorosi. Peraltro, all’epoca Andreotti si compiaceva di serbare, non senza abilità, il ruolo di presidente del Centro di Studi Ciceroniani. Ha senso rimpiangerlo – dopo tutto ciò che, anche in sede giudiziaria, è risultato – in omaggio alla sua buona conoscenza del latino? Forse no.
Nell’ultimo quarto di secolo il personale politico, non solo in Italia, è venuto rimpicciolendosi (dal generale De Gaulle al fringuello Macron, per esempio). Ma forse questo non dipende solo dal tipo di scuole che i politici frequentarono e dalla cultura generale che eventualmente assimilarono o dalle esperienze formative che fecero, ma dalla crescente e ormai travolgente perdita di peso del ruolo del politico professionale rispetto ai discreti ma onnipotenti registi del potere economico, veri ma occulti leader dei nostri destini.

La Venere di Milo (130 a.C. circa) esposta al Museo del Louvre a Parigi

La Stampa 18.10.18
Quando i razzisti ce l’avevano con noi
La storia dell'immigrazione a Washington
Il festival delle letterature migranti
di Paolo Mastrolilli


Un tempo i migranti eravamo noi, orde di italiani in fuga. Scappavamo per le stesse ragioni che oggi spingono migliaia di disperati verso le nostre coste, e spesso ci comportavamo come loro, nel bene e nel male. Eravamo soggetti alle stesse discriminazioni, e agli stessi atti di compassione; commettevano gli stessi crimini, e offrivamo gli stessi contributi di eccellenza, quando l’integrazione alla fine ce lo consentiva. È la lezione, esaltante e triste, che si impara visitando il Museum on Italian Immigration, inaugurato dalla National Italian American Foundation la settimana scorsa nella sua sede di Washington, dedicata all’ex ambasciatore degli Stati Uniti a Roma Peter Secchia.
Essendo la mostra curata dall’organizzazione che difende gli interessi degli italo-americani, uno si aspetta l’ovvio cedimento alla retorica. Invece no, la Niaf ha scelto di seguire la strada dell’onestà. Naturalmente il museo celebra i nostri miti, da Joe DiMaggio a Frank Sinatra, passando per Rocky Marciano e Fiorello LaGuardia, fino ai politici contemporanei come Leon Panetta, che da direttore della Cia guidò l’operazione contro Osama bin Laden. Però non nasconde la realtà, ricordando quando all’inizio del secolo scorso circa tre milioni e mezzo di italiani sbarcarono a Ellis Island, e altrettanti arrivarono in Argentina, quasi tutti illegali. Tanti partiti dal meridione, ma molti anche dal Nord, perché i poveracci allora non stavano solo a Sud di Roma.
La chiamavano «l’isola delle lacrime», il punto di arrivo a New York. E in effetti si fatica a trattenere la commozione, vedendo le foto delle visite mediche sommarie a cui venivano sottoposti i nostri nonni. I dottori decidevano all’impiedi chi meritava di scendere e chi no, e particolarmente odioso era il giudizio affrettato che veniva dato sulla salute mentale dei migranti: «Ha lo sguardo strano, trema, è triste». Chi non passava questa mannaia, veniva subito rimesso sulla nave e rispedito a casa.
Per chi ce la faceva, invece, iniziava il lungo dramma dell’integrazione. Si capisce dalla vignetta di un giornale, che dipingeva così gli italiani in arrivo: loschi individui che si gettavano in mare, con la scritta «Mafia» stampata sulla testa, per assalire e invadere le coste di Manhattan. Perché così apparivamo agli americani anglo sassoni e protestanti: scuri di pelle, pericolosi, e cattolici, tratti che allora marcavano una differenza culturale non troppo lontana da quella che oggi notiamo negli africani o i musulmani.
E poi, per quanto odiosamente razziste fossero queste vignette, bisogna ammettere la realtà: è vero che in America abbiamo esportato eccellenze tipo Enrico Fermi, ma anche criminali come Al Capone. Alcuni italiani sbarcavano con l’intenzione di delinquere, e altri finivano per farlo. Perché, come dicevano gli americani allora, gli immigrati sono portati fisiologicamente a violare la legge, e un loro reato fa molta più notizia di dieci commessi dai locali. Anche quando in realtà non erano colpevoli. Come a New Orleans, dove il 14 marzo 1891 undici italo-americani furono linciati dalla folla, che li accusava dell’uccisione del capo della polizia David Hennessy. Oppure come Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati in Massachusetts di una rapina che non avevano mai commesso, e giustiziati nel 1927 solo perché erano italiani e anarchici.
Del resto la nostra cattiva fama non era solo un mito, un errore, o l’effetto perverso del razzismo. Il museo della Niaf, ad esempio, ricorda senza reticenze anche la storia della «Mano Nera», una organizzazione di italiani dedita all’estorsione, di cui cadde vittima anche il probo detective del New York Police Department Joe Petrosino. La mafia invece esiste ancora, anche dopo la fine degli epigoni contemporanei tipo John Gotti, pur se negli ultimi tempi ha perso terreno rispetto alle organizzazioni russe, e soprattutto al narcotraffico latinoamericano.
Impossibile poi sorvolare sul fascismo, che abbiamo inventato noi, e quindi penderà sempre sulle nostre teste. Ad esempio con l’abuso degli italiani internati in Montana durante la Seconda Guerra Mondiale, perché considerati potenziali nemici, ma anche l’asilo offerto al maestro Toscanini, costretto a scappare dal suo Paese perché si rifiutava di suonare gli inni del regime all’inizio dei suoi concerti.
Superati questi pregiudizi, questi abusi, questi atti di puro razzismo, e anche quelli provocati dai nostri errori, è arrivata infine l’integrazione. Oggi gli italiani hanno conquistato la quarta carica dello Stato, con il capo della diplomazia Mike Pompeo, anche se magari la sua famiglia non sarebbe neppure entrata negli Stati Uniti, se il clima di oggi fosse esistito quando aveva lasciato l’Abruzzo. Abbiamo dato all’America premi Nobel e campioni dello sport, attori e politici, e forse senza Sergio Marchionne un’icona americana come la Chrysler non esisterebbe più. Mario Cuomo sottolineava sempre che ogni giorno a New York si parlano oltre 140 lingue, e quindi la sopravvivenza civile è un miracolo quotidiano, frutto in parte dell’ipocrisia della correttezza politica, in parte della sopportazione, e in parte del contributo autentico, tangibile e positivo dato dagli immigrati. Se si mettono da parte i pregiudizi, e si concede loro la possibilità di integrarsi e mostrare il proprio valore.

La Stampa 18.10.18
Studente spara a scuola, 19 morti
È la “Columbine” della Crimea
Come nella strage negli Usa, un 18enne apre il fuoco sui compagni e si uccide Poco prima aveva piazzato una bomba nella mensa. I testimoni: “Odiava tutti”
di Giuseppe Agliastro


L’esplosione di una bomba imbottita di schegge di metallo e poi fucilate ai ragazzi che fuggivano in preda al panico.
Ieri - raccontano gli investigatori russi - uno studente di 18 anni ha fatto strage dei suoi compagni di scuola all’Istituto Politecnico di Kerch, nella Crimea che Mosca si è di fatto annessa nel 2014. Poi si è tolto la vita. I morti sono almeno 19, i feriti decine, pare come minimo una quarantina. Dodici versano in gravi condizioni. Si tratta per lo più di adolescenti, ma tra le persone uccise ci sono anche un insegnante e uno dei vicepresidi.
Nell’intervallo
L’assalitore è stato identificato come Vladislav Roslyakov, uno studente del quarto anno, ma sono ancora ignoti i motivi del suo orrendo gesto. Secondo testimoni e forze dell’ordine, il giovane è entrato a scuola durante l’intervallo con uno zaino e un fucile calibro 12 nascosto in un tubo portadisegni. Lo zaino conteneva una bomba, che è esplosa nella mensa dell’istituto. Poi lui ha preso a sparare all’impazzata contro chiunque gli capitasse sotto tiro passando da un’aula all’altra. Il suo corpo senza vita è stato trovato dalla polizia nella biblioteca al primo piano della scuola. Pare con ferite di arma da fuoco compatibili con il suo fucile, che deteneva regolarmente per andare a caccia. Tra i suoi oggetti personali, gli investigatori hanno poi trovato anche un secondo ordigno, che è stato subito neutralizzato.
Inizialmente si pensava che a provocare la strage fosse stata una fuga di gas, ma le autorità russe hanno poi annunciato che la deflagrazione era stata causata da una bomba piena di schegge. Il Comitato investigativo russo parlava esplicitamente di atto terroristico e anche il Cremlino confermava che la pista del terrorismo era tra quelle al vaglio degli investigatori. Per sicurezza sono state chiuse tutte le scuole della penisola sul Mar Nero. E il ministero della Difesa aveva già preparato quattro aerei per portare via i feriti in caso di necessità e ricoverarli in strutture ospedaliere militari. Alcune ore dopo però i nuovi dettagli emersi hanno portato le autorità ad aprire un’inchiesta per «omicidio di massa».
Pare che il giovane che ha premuto il grilletto per uccidere i suoi coetanei avesse problemi a scuola e meditasse una vendetta. Probabilmente i suoi veri obiettivi erano l’insegnante e il vicepreside che ha ammazzato entrando nei loro uffici. «C’erano corpi dappertutto, corpi di bambini dappertutto», racconta Olga Grebennikova, la direttrice della scuola, dove studiano circa 850 ragazzi.
Durante l’incontro a Sochi con il presidente egiziano Al Sisi, Vladimir Putin ha chiesto un minuto di silenzio per commemorare le vittime della strage. «Si tratta chiaramente di un crimine - ha detto - e i motivi saranno indagati accuratamente». Le autorità russe della Crimea hanno indetto tre giorni di lutto a partire da domani e hanno ordinato di schierare d’ora in avanti due guardie armate davanti a ogni scuola.

Il Fatto 12.10.18
Columbine-Crimea lo studente spara: 19 morti nel college
Al Politecnico di Kerch - Ordigni, colpi di fucile. Il killer poi si è ucciso “C’erano più uomini armati: corpi ovunque, sembrava Beslan”
Columbine-Crimea lo studente spara: 19 morti nel college
di Michela A. G. Iaccarino


“Senti?! Sono spari. È al primo piano! Aiutate quella ragazza! Vogliamo vivere figlio di p..!”. Il resto delle urla terrorizzate è coperto da beep nei video dei cellulari degli studenti che scappano. Scie del sangue dei morti e di lacrime dei sopravvissuti al Politecnico di Kerch. Ordigni esplodono nella mensa dell’istituto. Un tonfo e poi cominciano gli spari: 19 studenti muoiono, a decine i feriti. Il viso pallido sotto i capelli d’oro è quello dell’assassino che la Russia adesso fissa atterrita, battezzata per la prima volta alle stragi nelle scuole. Sono notizie che di solito nella Federazione ascoltano solo se in arrivo dall’America oltreoceano.
Vladislav Roslyakov, 18 anni, era un studente di chimica e amava costruire esplosivi. Il suo cadavere è stato trovato dagli investigatori: si è tolto la vita con le stesse pallottole con cui ha messo fine a quella dei suoi compagni. “Ci sono corpi di bambini ovunque,” urla la direttrice Olga Grebennikova: “Sembra Beslan, uomini correvano sparando chiunque”. Forse uno o più killer. Le testimonianze di alcuni alunni parlano di più uomini e mascherati, e più armi: automatiche. Cifre e analisi del disastro al vaglio. L’unico identificato per ora è Roslyakov, che nelle immagini delle telecamere interne ha pantaloni neri e t-shirt bianca, un fucile a tracolla, proprio come Eric Harris, lo stragista del liceo Colombine. E l’eco del massacro in Colorado arriva fin laggiù, a Kerch, all’ombra del ponte che Putin ha fatto costruire in tempi record, la vena di ferro che collega la Crimea annessa nel 2014 direttamente alla Federazione.
La prima notizia che circola riferisce dell’esplosione di una bombola di gas nell’istituto dove gli alunni hanno dai 15 ai 20 anni. Poi che la strage era dovuta ad un esplosivo non identificato al primo piano, e l’FSB, servizi di sicurezza, in seguito si accerterà che non ce ne siano altri: ne sono esplosi cinque artigianali. La parola terrorismo comincia a strisciare nei titoli della stampa russa. È colpa di Kiev o dello Stato Islamico dopo le prime ore. Per Franz Klintsevich, deputato comitato sicurezza al Cremlino, “l’Isis non è capace di raggiungere Kerch” e “strutture governative o nazionalisti ucraini esaltati sono capaci di fare tutto perché odiano i russi”. Se è un “attentato stile Colombine o dei nemici della Russia, le autorità assicurino sicurezza”, dice il vicepresidente della Duma Vladimir Zhirinovsky. All’inizio non era chiaro neppure dove, ma solo “che un crimine ha avuto luogo”, come ha detto Putin sulle coste dello stesso Mar Nero, a Sochi, dove incontra il presidente al Sisi. Dopo quattro ore “non è terrorismo”, le autorità cambiano formula: è pluriomicidio e tre giorni di lutto vengono dichiarati dal governatore della penisola. Intanto il ministro della Difesa Shoigu fa evacuare alcuni feriti con aerei militari e Mosca comincia ad onorare i morti con i fiori rossi in piazza.
A settembre Vladislav aveva ricevuto l’autorizzazione necessaria per l’acquisto di un fucile calibro 12. Un paio di giorni fa poi aveva comprato 150 caricatori, riporta RT. Era un ragazzo silenzioso, ossessionato dagli assassini e dalla Nuova Russia, dicono i compagni di corso. I suoi genitori avevano divorziato poco tempo fa e lui viveva con sua madre, un’infermiera, Galina Roslyakva. Ieri in Russia il destino di alcuni è stato fatale e quello di altri beffardo. Mentre le ambulanze cominciavano a trasportare i primi feriti all’ospedale, c’era proprio Galina di turno ad accogliere, senza saperlo, i primi feriti della strage di suo figlio.

La Stampa 18.10.18
Gli negano l’asilo
Migrante del Gambia si uccide a 22 anni
Amadou Jawo aveva un permesso temporaneo Bracciante a Taranto, per il Viminale era depresso
di Grazia Longo


Aveva 22 anni, lavorava nei campi, aveva come unico svago le partite di calcio in tv, e sognava una vita regolare in Italia. Ma le sue speranze si sono infrante sullo scoglio dell’asilo negato e così si è tolto la vita. Amadou Jawo, originario del Gambia, si è impiccato a casa di alcuni connazionali a Castellaneta Marina, in provincia di Taranto.
Vi era arrivato poche settimane fa, dopo aver abbandonato la struttura di accoglienza Sprar di Surbo, in provincia di Lecce. Per guardare la televisione e potersi collegare a internet con il wifi, aveva preso l’abitudine di frequentare l’associazione Babele, impegnata nell’accoglienza e assistenza ai migranti. «Aveva avuto il diniego alla richiesta di protezione internazionale - spiegano da Babele - raccontano alcuni attivisti - e non poteva più restare in Italia. Ritornare in Africa era il suo desiderio ma temeva di essere additato come fallito ed aveva vergogna. Ha sentito di non avere scelta, purtroppo».
Enzo Pilò, rappresentante di Babele precisa: «Il diniego gli è giunto probabilmente tra luglio e agosto scorsi, poi ha fatto ricorso al Tribunale e la Questura gli ha rilasciato conseguentemente un permesso temporaneo di soggiorno in attesa dell’esito del Tribunale».
Dal Viminale infatti precisano che «aveva un permesso di soggiorno con scadenza a marzo 2019: aveva chiesto lo status di rifugiato, ma la domanda era stata però respinta il 7 dicembre 2016. Era seguito il ricorso contro quel no, e la scorsa settimana, il 12 ottobre, il giudice si era riservato la decisione». Per quanto concerne il suicidio, sempre fonti del Viminale alludono a «una condizione depressiva del giovane: i carabinieri intervenuti sul luogo per le indagini hanno raccolto le dichiarazioni dei suoi compagni, i quali hanno attribuito il gesto a uno stato di depressivo in cui il ventiduenne versava. Secondo gli inquirenti il giovane aveva anche manifestato l’intenzione di tornare in Gambia, usufruendo dei rimpatri assistiti».
Protezione internazionale
Enzo Pilò prosegue: «Jawo stava qui col permesso temporaneo di soggiorno, attendeva gli eventi, ma penso che a spingerlo verso il suicidio sia stata una fase di profondo sconforto». Perché la sua richiesta di protezione internazionale è stata respinta? «Quasi tutte vengono rigettate, molto poche sono quelle che vengono accolte. Negata quindi la protezione internazionale, gli restava un’altra possibilità: la protezione umanitaria. Ma anche questa via d’uscita, che pure veniva percorsa sino a poco tempo fa, adesso non è più percorribile perché l’ha eliminata il recente decreto “Sicurezza”. E ci sono tanti giovani migranti che vivono con forte preoccupazione questo restringimento».
L’associazione di promozione sociale Babele si è attivata per la raccolta di fondi necessari al rimpatrio della salma in Gambia. «Occorrono 5 mila euro, molti connazionali della vittima si stanno impegnando il più possibile, ma è evidente che hanno molte difficoltà economiche». È stata così lanciata una sottoscrizione a cui si spera rispondano in molti.

La Stampa 18.10.18
Palazzo Chigi e la notte del thriller
di Francesco Bei


Una crisi di governo-Snapchat, che si cancella da sola nel giro di pochi minuti, il tempo di una puntata di Porta a porta. Un vero thriller, con la caccia al colpevole ancora in corso, che arriva a scuotere la maggioranza: mai nella storia italiana si era visto un governo rivolgersi a una procura della Repubblica e denunciare se stesso per un atto approvato dal Consiglio dei ministri. Un annuncio quasi surreale quello di Luigi Di Maio, che ha lasciato a bocca aperta tutti gli spettatori, da ieri sera finalmente consapevoli del livello lisergico a cui è arrivata la lotta politica nel nostro Paese.
Di fronte a un vicepremier che minaccia una denuncia penale contro ignoti per un atto legislativo che sarebbe stato alterato nella sua trasmissione da Palazzo Chigi al Quirinale, c’è da alzare le braccia. A parte il fatto che a Mattarella ancora nessuno ha trasmesso nulla, come è trapelato con qualche irritazione dal Colle, resta da chiedersi come si svolgano i Consigli dei ministri di questa maggioranza. C’è qualcuno che legge quello che vota oppure ci si affida alla trasmissione orale, sperando che il sottosegretario che verbalizza la riunione abbia compreso bene?
La circostanza denunciata da Di Maio è comunque di una gravità assoluta, sia per il dilettantismo che rivela nel maneggiare materie così delicate, sia perché ci fa comprendere quanta fiducia ci sia tra i partner di governo. Stavolta appare infatti poco credibile la teoria della «manina invisibile» di qualche tecnico che abbia alterato il decreto fiscale introducendovi lo scudo per gli immobili e i capitali detenuti all’estero e la depenalizzazione dell’evasione. Guarda caso proprio le materie che da giorni la Lega sta provando a infilare nel decreto e che fino a martedì sera sarebbero dovute finire in un emendamento parlamentare alla manovra.
Chiaro che prendersela ancora una volta con i tecnici del ministero dell’Economia cela altro, sembra piuttosto una teoria di comodo per nascondere il vero bersaglio polemico del movimento Cinque Stelle: la Lega e quella voglia matta di condono tombale che fin dal primo giorno Salvini vuole introdurre nel decreto. Prendersela, come ha fatto ieri Di Maio, con le «manine ministeriali», gridare al complotto, è certamente più facile che indicare nomi e cognomi del partito alleato. Ma la tensione nel governo è altissima e negli ultimi tempi personaggi strategici della squadra - come ad esempio il sottosegretario Giancarlo Giorgetti – sono finiti nel mirino della componente grillina che li accusa di boicottare la luminosa marcia del Movimento verso la Manovra del Popolo. La realtà è che fin da subito, dalla negoziazione del Contratto, si era capito che i due partner della maggioranza – cementati in maniera opportunistica dal potere e dalla comune avversione alle élite – sono in realtà molto divisi sul programma. La coperta del Contratto, come si vede, non riesce a nascondere del tutto queste divisioni e si palesa come mera giustapposizione di istanze diverse, talvolta opposte. Le distanze restano profonde, sono culturali (una volta si sarebbe detto ideologiche) prima che politiche. E la disfida sul condono le contiene tutte: l’ossessione grillina di non apparire «come quelli di prima», l’occhio strizzato agli evasori da parte della Lega, il giustizialismo M5S contro il condonismo lumbard, le «manette agli evasori» contro chi pensa che in fondo il privato sia giustificato quando decide di difendersi dalle eccessive richieste fiscali dello Stato.
La sceneggiata di Di Maio non poteva capitare in un momento peggiore, nel giorno in cui il commissario al Bilancio Guenther Oettinger rivela il segreto di Pulcinella, ovvero che l’Ue respingerà la manovra italiana. A questo punto il dubbio è lecito: a Bruxelles quale testo hanno ricevuto? Sono davvero sicuri di avere sotto gli occhi una versione ufficiale e vidimata del bilancio italiano? Moscovici, che oggi sarà a Roma per incontri al più alto livello, farebbe bene a informarsi.
Luigi Di Maio ha consigliato polemicamente a Oettinger e a tutti i commissari europei di «iniziare a comportarsi da persone serie e mordersi la lingua tre volte prima di fare dichiarazioni». Non sarebbe sbagliato se la stessa prudenza del signor Palomar di Calvino il nostro vicepremier l’applicasse anche a se stesso. Certo, farebbe qualche diretta Facebook in meno, ma forse per il Paese non sarebbe una perdita irreparabile.

il manifesto 18.10.18
Niente soldi per i medici e il rinnovo dei pubblici
Mancanze di Bilancio. Mancano 500 milioni per i camici bianchi (e le risorse per il nuovo contratto 2019-2021). La gaffe della ministra Grillo: «Il contratto è stato firmato col governo precedente»
di Massimo Franchi


Il contratto fantasma e la mancanza di fondi per il rinnovo. Il governo giallo-verde continua a collezionare magre figure nel settore pubblico. Dopo la figuraccia sulla cancellazione del numero chiuso per accedere alla facoltà di medicina di cui era all’oscuro il ministro leghista Marco Bussetti, ieri è toccato alla ministra M5s Giulia Grillo scivolare.
Mentre medici e dirigenti sanitari scendevano in piazza sotto Montecitorio per chiedere i 500 milioni che servono per rinnovare il contratto scaduto da 9 anni e garantire anche a loro l’aumento medio del 3,48% già accordato a tutti gli altri dipendenti pubblici, il ministro della Salute Giulia Grillo, a margine della presentazione dell’operazione dei Nas Estate Tranquilla 2018, commentava: «È un problema creato dai nostri predecessori, chi ha siglato il contratto avrebbe dovuto esserne consapevole». Si tratta – ha puntualizzato Grillo – di un contatto chiuso col governo precedente, dove si presume ci fossero coperture. Ora emergono problemi sulle coperture, vedremo cosa possiamo fare».
Il problema è che il contratto non è mai stato sottoscritto e dunque il ministro si sbaglia. «Lo dico con il rispetto istituzionale che si deve ma è francamente inaccettabile e vergognoso che il ministro della salute Grillo non sappia che il contratto nazionale della dirigenza medica e sanitaria non sia stato rinnovato col passato governo», attaccano la segretaria generale della Fp Cgil Serena Sorrentino e il segretario nazionale della Fp Cgil medici e dirigenti Ssn Andrea Filippi, «visto che da giorni il ministro sostiene questa che è a tutti gli effetti una falsità, per altro detta da lei che è medico e che dovrebbe sapere per quale ragione i medici sono in mobilitazione, vorremmo chiederle quale contratto dei medici sarebbe stato firmato e soprattutto da chi e, nel caso, di mostrarcene una copia. Per il rispetto che si deve ai cittadini e ai lavoratori coinvolti, andrebbe rinnovato, per davvero, subito», concludono Sorrentino e Filippi.
Nella manovra varata lunedì sera dal governo invece non ci sarebbe alcuna risorsa per il rinnovo 2019-2021 della parte economica del contratto del pubblico impiego, mentre i 540 milioni citati dal comunicato stampa di palazzo Chigi dovrebbero servire a confermare il cosiddetto «elemento perequativo» – una parte sempre garantita del contratto pari a circa 20 euro al mese – per tutto il 2019.
E allora alla ministra della Pa Giulia Bongiorno che twitta: «come promesso turn over al 100 per cento e assunzioni straordinarie. Ora massimo impegno per avere risorse sui rinnovi contrattuali #concretezza», i sindacati rispondono preoccupati. «Ministro Bongiorno, quando ci convoca per avviare il confronto sul rinnovo dei contratti pubblici 2019-2021?», chiede sempre su twitter la Fp Cgil. «Apprezziamo l’impegno della ministra ma vorremo confrontarci sugli stanziamenti utili che dovranno essere previsti nel testo della manovra per rispettare la triennalità», sottolinea Antonio Foccillo, segretario confederale Uil.

il manifesto 18.10.18
Analfabeti e iperconnessi: la democrazia a rischio social
Hacker's dictionary. Le persone sono sempre meno capaci di distinguere le notizie vere da quelle false, si distraggono continuamente, tendono a rinchiudersi in una comfort zone dove sanno che le loro idee non saranno verificate
di Arturo Di Corinto


Nel prossimo futuro forse guarderemo agli utenti dei social media come oggi guardiamo i fumatori, persone che sanno di fare qualcosa di sbagliato eppure continuano a farlo. A pensarci bene il momento potrebbe non essere troppo lontano.
È stato proprio il caso Cambridge Analytica ad aver scoperchiato il vaso di pandora della dipendenza da social: sappiamo che i dati conferiti vengono usati per creare una platea di potenziali acquirenti per gli investitori pubblicitari, renderci docili consumatori, conoscere i nostri gusti politici e orientarli a colpi di fake news, slogan e black advertising, ma continuiamo a regalargli preziose informazioni sotto forma di tag, like, link, foto, video e messaggi. In realtà siamo già alla fase due: i nostri dati vengono usati per allenare le intelligenze artificiali che tra poco prenderanno il nostro posto nei compiti intellettuali dopo aver già sostituito tornitori, magazzinieri e autisti.
Nonostante i ripetuti databreach Facebook continua a macinare utili e i numeri dell’abbandono del social network più popoloso di tutta la Cina, non sembrano impensierirlo: gli scandali e le violazioni della sicurezza hanno appena eroso la sua base.
In Italia però, secondo il Censis, 9 italiani su 100 non si fidano più di Facebook come canale informativo.
Mentre gli effetti di Instagram sono ancora poco studiati e i gruppi su WhatsApp pure, abbondano quelli su Twitter, considerata dagli utenti la piattaforma più affidabile dove esercitare la propria retorica e acchiappare consensi.
Eppure l’ultimo studio del Pew Research Center ci dice che la maggior parte degli utenti americani di social sa dell’esistenza di programmi automatici, i bot, che simulano comportamenti umani come replicare ai post o produrli per target specifici e che non si fidano di quei messaggi.
Nel frattempo arrivano, come se piovesse, le conferme scientifiche che l’uso compulsivo di smartphone, tablet e pc per accedere alla rete e in particolare ai social network, ai motori di ricerca e ai social media sta determinando un cambiamento antropologico come ha bene raccontato l’ultima puntata di Presa Diretta su Rai3.
In sintesi: le persone sono sempre meno capaci di distinguere le notizie vere da quelle false, si distraggono continuamente, tendono a rinchiudersi in una comfort zone dove sanno che le loro idee non saranno verificate, e non capiscono le informazioni complesse. Un rischio per la democrazia che si basa sul confronto, sul rispetto della diversità e sulla tolleranza: basta andare sui social per accorgersene. In fondo i social sono fatti per rappresentarsi, prendere posizione e non per dialogare.
Perciò per affrontare il problema nel breve termine è nata un’iniziativa dal nome Social Science One, una partnership tra università e industria per analizzare la ricchezza informativa accumulata dalle aziende e studiare gli «effetti dei social media su democrazia ed elezioni».
Sarà finanziata da sette fondazioni non profit e basata su un sistema di peer-review accademico. Una commissione di professori identificherà i set di dati rilevanti, e dopo una valutazione scientifica ed etica li pubblicherà.
«Dal punto di vista delle scienze sociali l’iniziativa mira a fornire l’accesso alla più ampia e completa base di informazioni mai utilizzata per studiare i social media e il comportamento umano in generale».
La ricerca inaugurale ha come partner principale Facebook che però, dicono, «fornirà i dati dei suoi utenti in maniera trasparente e rispettosa per la privacy».

Repubblica 12.10.18
La metamorfosi politica
M5S, l’anima smarrita
di Piero Ignazi


Brillano ancora le stelle del M5S? Oppure si sono appannate per adeguarsi al contratto di governo e alle stringenti logiche della gestione di un paese? In effetti, com’era prevedibile, il Movimento 5 stelle sta mutando giorno dopo giorno, e sta perdendo gran parte della sua iniziale ispirazione ambientalista e aperta, in linea con i movimenti ecologici e post- materialisti emersi in Europa negli Ottanta e che oggi sembrano avere ritrovato nuova linfa, come suggeriscono le recenti elezioni amministrative in Belgio e soprattutto in Baviera. Le 5 stelle originarie del Movimento di Grillo si riferivano ai beni pubblici come l’acqua, alla sostenibilità dell’ambiente, ad una diversa idea di sviluppo, a trasporti collettivi e non inquinanti e alla diffusione libera e gratuita di internet. Per questo il M5S veniva collocato, a giusto titolo, tra quei movimenti, post- materialisti, che guardano al futuro, ad una società che ha superato i conflitti e le contraddizioni del Novecento.
La carica utopica espressa da Grillo e Casaleggio nei loro interventi è ( era) in linea con le pulsioni dei quei movimenti, e, significativamente, il consenso al M5S era quasi esclusivamente giovanile. Allo stesso tempo, però - e questo aspetto è spesso rimasto in ombra - nel M5S si muovevano persone e propositi con un approccio pragmatico e di “ problem- solving”. Molti meetup ( le sedi virtuali del M5S) si impegnavano su questioni locali concrete e puntali, disinteressandosi del tutto della “grande politica”.
Per questo il reclutamento grillino della prima ora comprendeva persone con competenze tecniche, e nel 2013 i parlamentari laureati in materie scientifiche del M5S erano il triplo di quelli degli altri partiti (31% contro l’11% di Pd e PdL). Pragmatismo e utopia si coniugavano grazie alla spinta di sentimenti come rabbia e speranza: un impasto che ha fatto la fortuna del M5S. Questo mix di successo si sta scomponendo, non regge la prova del governo.
Il M5S voleva andare a palazzo Chigi a tutti i costi e quindi pur di realizzare tale obiettivo. alla fine, ha abbracciato la Lega. Ma così ha perso l’anima. Non solo si è fatto stringere in un abbraccio soffocante da politici ben più esperti e smaliziati (fino al cinismo): ha lasciato cadere la sua ispirazione originaria, la sua identità. I pentastellati hanno tagliato troppi legami, troppi riferimenti per non pagarne un prezzo. Ad esempio, l’Ilva, la Tap, in prospettiva anche la Tav, per non dire del decreto Genova grazie al quale, come ha svelato Sergio Rizzo su queste colonne, verranno sversati fiumi di liquami, azzerano l’immagine ambientalista dei 5 stelle.
E cosa rimane di fronte all’irruenza xenofoba di Salvini del loro programma elettorale sull’immigrazione che prevedeva corridoi umanitari, procedure rapide per i richiedenti asilo, e interventi a favore dei paesi africani? Persino la tanto sbandierata onestà, come gridavano commossi i giovani leader del M5S al funerale di Casaleggio, viene travolta dai condoni fiscali e ambientali ( vedi il caso Ischia). Al M5S resta solo la carta del reddito di cittadinanza, l’unica in linea con i suoi antichi propositi.
Ma se un tempo questo progetto si inseriva in una filosofia di sviluppo sostenibile e di trasformazione green dell’economia, ed era il tassello di una visione che guardava al futuro delle società post- industriali, ora si declina come un provvedimento dal sapore assistenzialista perché sconnesso da interventi innovativi sulla produzione. Queste scelte, e la sudditanza evidente alla Lega, allontanano dal M5S quell’opinione pubblica “ post- moderna” che sperava in una politica innovativa, pulita e coerente.

Repubblica 12.10.18
La manovra economica
Tasse, il taglio che non c’è
di Marco Ruffolo


Una volta sacrificata la vera flat tax, l’aliquota unica per tutti che costituiva il piatto forte delle richieste leghiste, l’asse portante della manovra economica del governo è radicalmente cambiato: si è spostato dalle promesse di detassazione a un grande piano di spese correnti, dovute sia al reddito di cittadinanza sia all’anticipo dell’età di pensionamento. È stato riposto in un cassetto un sogno che neppure Ronald Reagan riuscì ad introdurre negli Stati Uniti: la tassa piatta, un grande aiuto ai redditi dei ceti medio-alti. Troppo costosa.
Ma dalla manovra del governo italiano manca anche un altro tassello fiscale: il forte taglio delle tasse chiesto a gran voce dalle imprese, soprattutto al Nord. Infatti, se è vero che da una parte si allarga la tassazione forfettaria per gli autonomi (15% fino a 65 mila euro di ricavi) e si riduce l’Ires sugli utili reinvestiti, dall’altra si cancellano due importanti agevolazioni fiscali: l’Ace (Aiuto alla crescita economica) che favoriva la patrimonializzazione delle imprese, e l’Iri, imposta sul reddito imprenditoriale, che dal 2019 avrebbe consentito alle partite Iva di detassare il reddito di impresa. Ebbene, il saldo tra il dare e l’avere di tutte queste misure è negativo per 4,7 miliardi il prossimo anno e per 2 miliardi a regime.
Insomma, sembra che la politica economica del governo abbia cancellato o quanto meno rinviato la parola d’ordine più cara ai leghisti: detassare. Appena quattro mesi fa, Matteo Salvini giustificava così la flat tax: «Se uno fattura di più e paga di più, è chiaro che reinveste di più, assume un operaio in più, acquista una macchina in più». Oggi quei tempi di esaltazione del liberismo fiscale sembrano lontanissimi. Il nucleo centrale della manovra è il corposo piano assistenziale contro la povertà voluto dai Cinquestelle e rivolto per oltre la metà al Mezzogiorno, con la coloratura paternalistica del divieto di fare "spese immorali".
Eppure, rischia di non essere pienamente aderente alla realtà una lettura tutta orientata a rappresentare la contrapposizione tra un Sud fortemente aiutato e un Nord del tutto insoddisfatto nelle sue richieste economiche, anche se una certa insofferenza emerge con chiarezza in diversi ambienti industriali del Settentrione. In realtà, la Lega ha ottenuto qualcosa di fondamentale: il primo smantellamento della legge Fornero, che consentirà a 400-450 mila lavoratori "anziani", concentrati in prevalenza proprio nelle regioni settentrionali, di andare in pensione cinque anni prima, sia pure a certe condizioni.
In altre parole, la strategia di Salvini, una volta messa da parte la voglia di sgravi fiscali, è stata dirottata verso un tipo di spesa pubblica destinata non al mondo produttivo ma al contrario a quello improduttivo, ossia all’aumento dei pensionati attraverso l’uscita anticipata, anche se a farne le spese saranno i conti previdenziali nazionali e se mancheranno le risorse per rendere appena sufficienti le future pensioni degli attuali giovani precari. L’interesse della Lega per quota 100, con la possibilità di lasciare il lavoro a 62 anni di età e 38 di contributi, invece che a 67 anni, è evidente se si considera la distribuzione territoriale dei " baby boomers" che andranno prima in pensione: lavoratori con carriere lunghe e continue, residenti per la maggior parte in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna. E sempre in quelle regioni, la Lega punta sulla staffetta generazionale in grado di far subentrare i giovani ai pensionandi. C’è poi da considerare che lo stesso reddito di cittadinanza, come ha detto Di Maio, sarà destinato per un buon 47% al Centro-Nord.
Insomma, il compromesso pentaleghista, oltre a cementarsi nella battaglia contro le regole Ue, nella diffidenza verso l’euro stesso, nel sovranismo che porta sia Di Maio che Salvini a invitare gli italiani a comprare titoli pubblici, sembra trovare proprio nel nuovo Stato " pagatore" un ulteriore terreno comune. Tuttavia, diversamente da quello leghista, " l’assistenzialismo" dei Cinquestelle (reddito di cittadinanza subito, lavoro dopo, quando funzioneranno i centri per l’impiego) si lega a una vera e propria ideologia sociale: quella dell’egualitarismo, della crociata anti- meritocratica, della diffidenza nei confronti della ricchezza individuale. Si comprende così l’insistenza con cui Di Maio si è battuto, anche con toni sprezzanti, per il taglio delle cosiddette " pensioni d’oro", quelle oltre i 4.500 euro netti al mese, taglio che tuttavia, dopo le obiezioni leghiste, non sarà più permanente, come era nelle sue intenzioni, ma durerà solo tre anni e non entrerà in un decreto. La giustificazione morale dei grillini è chiara: quelle pensioni non sono commisurate ai contributi versati, essendo calcolate con il metodo retributivo.
In realtà, la decurtazione prevista non sarà affatto basata sul ricalcolo dei contributi, ma si configurerà come un taglio secco, imposto a quelli che Di Maio ha chiamato più di una volta " nababbi". La stessa filosofia che tende a bacchettare chi ha una pensione elevata, mette nel mirino anche le cosiddette "lobby finanziarie" che i Cinquestelle identificano nelle banche e nelle assicurazioni. E così si comprende l’aggravio fiscale imposto loro, tra minori deducibilità nel primo caso e acconti di imposta nel secondo.
La diffidenza grillina che prende di mira "nababbi" e " lobbisti" non sembra invece scattare nei confronti degli evasori, premiati con il via libera al condono fiscale, sia pure in forma ridotta rispetto alle intenzioni leghiste, e con molti imbarazzi della base che potrebbero pesare nella prossima discussione parlamentare.

Corriere 12.10.18
L’intervista Walter Veltroni
«Alle Europee una lista aperta con il meglio della società non divisa tra le correnti pd»
L’ex segretario: «Ecologia e lotta alla precarietà per battere la destra»
di Aldo Cazzullo


Veltroni, lei 5 anni fa disse al «Corriere» che la crisi della democrazia avrebbe fatto emergere leadership inimmaginabili. Trump, Bolsonaro e nel loro piccolo Salvini e Di Maio le hanno dato grandi soddisfazioni .
«Non dimentichi Erdogan, che nell’impressionante silenzio del mondo sostiene che i media sono incompatibili con la democrazia. Ma non c’è proprio nessuna ragione di essere soddisfatti. L’alluvione sulla democrazia era prevedibile. Stavano accadendo una serie di cose analoghe a quelle di un altro tempo storico».
Si riferisce agli anni 30?
«Sì. La più grande e lunga recessione della storia. Crisi dei partiti, della politica, delle istituzioni. La più invasiva rivoluzione scientifica e tecnologica: qualcosa al cui confronto la macchina a vapore è uno scherzo».
Addirittura?
«I computer hanno cambiato le classi sociali, le forme di conoscenza, le relazioni tra le persone. Hanno cambiato il tempo della vita, velocizzando tutti i processi; e la lentezza della democrazia appare un ostacolo. Vuole la cultura democratica capire che è in gioco la più grande conquista di pace e di prosperità succeduta alla Seconda guerra mondiale, l’Europa? E che la parola Europa oggi distingue i democratici dai nazionalisti sovranisti?».
L’Europa oggi è considerata un fattore di crisi, non di prosperità.
«A un certo punto del decollo dell’aereo Europa, sono saliti a bordo quelli che hanno cominciato ad aprire i finestrini».
A chi si riferisce?
«Il gruppo di Visegrád ha rallentato tutte le decisioni. E l’egoismo di certi Stati ha fatto il resto. Ma cosa sarebbe della nostra economia se non ci fosse la Bce? Se non ci fosse l’euro? Ora è in corso un gigantesco processo di disarticolazione dell’Europa. L’esito dell’89 non è la fine della storia, il trionfo della libertà; è una riorganizzazione geopolitica al cui interno l’Europa come continente e mercato unico non è contemplata».
Nel maggio prossimo l’Europa vota. Come deve presentarsi la sinistra?
«La prima cosa che la sinistra deve mettere in campo è la parola Europa. Una parola che le nuove generazioni considerano naturale. Chi ha vent’anni non sa cosa siano la lira o le frontiere. Altiero Spinelli si è inventato la costruzione dell’Europa guardando dalla sua finestra di Ventotene — dove l’aveva rinchiuso il fascismo — un continente in fiamme. Nulla di più utopico. Ci abbiamo messo tanto, siamo passati attraverso il Muro, Jan Palach, Franco, il terrorismo; ma ce l’abbiamo fatta. Se a maggio dovesse prevalere un fronte sovranista e nazionalista, l’Europa finirà. Finirà l’euro. Dazi e muri, Europa divisa e fastidio per ogni diversità. Le ricorda qualcosa?».
Non sarà anche colpa vostra?
«Ci sono parole che la sinistra ha scordato. Parole europee come formazione, ambiente, sicurezza sociale».
Sembrano slogan da convegno.
«No. Sono i cardini del futuro. Devono diventare la nostra ossessione. I nuovi lavori richiederanno un altissimo livello di formazione. Uno Stato che investe su formazione, scuola, ricerca, produrrà forza lavoro; uno Stato che non investe produrrà povertà».
E l’ambiente?
«Sono impressionato dalla scomparsa dell’ecologia dal dibattuto politico italiano. Cosa c’è di più contrastante con l’assurdità del sovranismo nazionalista che non l’ecologia? Si guardi attorno: 12 morti a Maiorca, in Sardegna crollano i ponti, migliaia di migranti sono mossi dalla desertificazione, uragani nel Mediterraneo. Ha visto la foto dell’orso isolato sul triangolo di ghiaccio? È la nostra immagine, la nostra metafora. Noi, a differenza dell’orso, dovremmo capirlo che ci si sta sciogliendo il mondo intorno. Ma il tema viene rimosso o contrastato. Ci sono città che andranno sott’acqua, e noi facciamo dei tweet».
La gente non pensa allo scioglimento dei ghiacci, pensa al lavoro che non trova, al conto in rosso, ai servizi che mancano.
«Pensi quanto lavoro vero darebbe la riconversione ecologica dell’economia. Il lavoro è di nuovo il dramma del nostro tempo. Dalla crisi del ’29 si uscì con il New Deal. E oggi? Non basta erogare fondi, bisogna contrastare la principale minaccia alla qualità della vita: la precarietà. Vuole la sinistra aggredire questo tema? Capire che bisogna creare nuove condizioni di sicurezza sociale? La manifestazione del Pd si intitolava “l’Italia che non ha paura”. Bene, l’Italia che non ha paura deve parlare all’Italia che ha paura. Non penso ai timori suscitati dalle campagne organizzate scientificamente per la diffusione della paura. Sto parlando della paura che c’è in ogni casa: perdere il lavoro, non trovarlo, girare in città dove ci sono più saracinesche chiuse che aperte. Formazione, ambiente, sicurezza sociale: ecco le cose con cui la sinistra potrebbe andare in controtendenza, senza avere paura di essere se stessa. E rilanciando l’idea di una democrazia che decida, veloce, trasparente».
Le riforme istituzionali sono state bocciate dal 60% degli italiani.
«Non è stato bocciato il tentativo di riformare le istituzioni, ma il modo in cui lo si è presentato. Gli italiani non sarebbero contrari a una riforma per cui si danno tempi certi per approvare o respingere una legge, si riduce il numero dei parlamentari, si fanno vivere organismi diffusi di partecipazione. Nelle scuole. Nelle fabbriche. E nei consigli d’amministrazione, dove i lavoratori dovrebbero essere rappresentati».
Da Cacciari a Calenda, si è parlato di presentare alle Europee un fronte che vada da Macron alla sinistra.
«Se è una lista europeista aperta, guidata da personalità indipendenti e autonome, che raccolga insieme con il Pd tante energie della società, la mia risposta è sì. I capilista non devono essere divisi tra le correnti del Pd, ma scelti nel meglio della società italiana. A Strasburgo andavano Bruno Trentin, Giorgio Napolitano, Elena Paciotti, Giorgio Ruffolo, e qualche anno prima Alberto Moravia e Altiero Spinelli. Apriamo porte e finestre; la gente verrà. La domanda di politica e di sinistra c’è. È l’offerta che manca».
Ci spieghi meglio che tipo di lista ha in mente.
«Una lista che assomigli a come immaginavo il Partito democratico: un luogo cui persone, associazioni, movimenti, gruppi potevano aderire, restando se stessi. Le primarie dovevano servire a sintetizzare tutto questo. Poi il Pd è stato prosciugato e occupato dalle correnti; e il meccanismo delle primarie ne ha sofferto».
Lei sosterrà Zingaretti o Minniti?
«Sono anni che non sostengo un candidato. Sostengo un’idea di movimento democratico in Italia, vitale oggi. E credo che questo debba avvenire con una radicale discontinuità e una sincera e inedita unità che persone come Zingaretti, Minniti e Richetti possono insieme garantire. Quando sento dire più volte l’espressione “me ne frego” o “chi si ferma è perduto”, e non nell’accezione dantesca ma in quella ducesca, ripeto a me stesso che le parole contano, che dietro le parole ci sono i fatti. A Lodi i bambini immigrati mangiano in una stanza diversa da quella degli altri bambini. Sono cose enormi. Se non daremo una risposta all’altezza, domani ci sembrerà normale quello che oggi non lo è. I precipizi della storia sono cominciati scendendo gradini, non cadendo in un vulcano. E un giorno i libri di storia scriveranno che, di fronte a tutto questo, a sinistra la parola più pronunciata era “candidatura”».
Cos’è oggi la sinistra?
«Anni fa si discusse perché in un congresso avevo fatto scrivere il motto di don Milani, “I care”: il contrario di “me ne frego”. Ecco la differenza tra sinistra e destra. Oggi la sinistra ha perduto questa intensità, questa capacità di condividere il dolore degli altri. La sinistra dovrebbe essere terra e cielo. Terra: stare nel territorio, nei quartieri, nelle fabbriche, nelle università; condividere e farsi carico del dolore sociale. Cielo: i valori, le grandi idee, i pensieri lunghi, le cose per le quali ciascuno di noi ha deciso di impegnarsi nella vita pubblica. Ma invece di stare in terra e in cielo, la sinistra è evaporata in una grande nube, dove è infuriata la zuffa autoreferenziale tra chi vorrebbe fare il Macron e chi vorrebbe fare il Corbyn».
I 5 Stelle si divideranno?
«I dirigenti non credo. Ma nel loro elettorato c’è malessere. Elettori di sinistra che li hanno votati li ritrovano in un governo il cui capo è Salvini, che sta tradendo tutte le loro promesse elettorali su Ilva, Tap, condono fiscale... E poi il fastidio per le autonomie istituzionali, cardine della democrazia, che o obbediscono o devono tacere».
Si tornerà a votare presto?
«Hanno promesso tutto a tutti. Salvini sa benissimo che le promesse mirabolanti non si tradurranno in realtà: che 500 mila migranti non saranno cacciati e che la povertà non sarà abolita. In quel momento chi appariva contro il potere apparirà il potere. E questo rischia di avvenire nel cuore di una tempesta finanziaria di cui si stanno incoscientemente creando le condizioni. Non escludo che allora si torni a votare. La Lega cercherà di sfruttare l’onda che le promesse hanno suscitato. E il Pd dovrà decidere con chi coalizzarsi».
Scusi, lei non era quello della vocazione maggioritaria?
«Lo sono, non lo ero. La vocazione maggioritaria si declina però in un modo corrispondente al tempo; altrimenti rimane la vocazione minoritaria in cui siamo precipitati. Oggi il Pd deve aprire se stesso e cercare alleati: alla sua sinistra, tra gli ecologisti, nel pensiero liberale, nel cattolicesimo democratico».

Il Fatto 18.10.18
“Israele applica leggi in base all’origine degli imputati”
Il regista palestinese di nazionalità israeliana è sotto processo per diffamazione per un suo film sui raid a Jenin
“Israele applica leggi in base all’origine degli imputati”
di Roberta Zunini


Mohammad Bakri, uno dei registi e attori palestinesi di nazionalità israeliana più noti a livello internazionale, è in Italia, su invito di Assopace, dove venne la prima volta nel 2003 per recitare nel film di Saverio Costanzo, Private, sulle conseguenze dell’occupazione in Cisgiordania. Il regista italiano assieme a Bernardo Bertolucci, Paolo Virzì e a una lunga serie di colleghi e attori, ha firmato un appello alle autorità israeliane affinchè Bakri venga prosciolto dall’accusa di diffamazione mossagli da un riservista dell’esercito israeliano in seguito alla realizzazione nel 2002 del documentario sulla distruzione del campo profughi di Jenin. Il film fu sequestrato dalle sale israeliane e cinque soldati citarono in giudizio Bakri chiedendo l’equivalente di 600mila euro di danni. Già allora alcuni cineasti italiani, fra i quali Monicelli, Martone e i Taviani si mobilitarono e firmarono un appello in suo favore. I soldati persero la causa nel 2008: il giudice concluse che Bakri aveva diffamato l’intero esercito ma non i cinque soldati. Nel 2005, il regista raccontò la sua vicenda nel film Da quando te ne sei andato. L’anno scorso tuttavia il procuratore generale Avichai Mandelblit ha deciso di sostenere un colonnello riservista che chiede il risarcimento di 24mila euro per ogni proiezione. A distanza di 3 mesi dall’inizio del nuovo processo, la presidente di Assopace, Luisa Morgantini, ha organizzato alcune proiezioni del documentario nelle principali città italiane per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla vicenda e raccogliere nuove firme.
Signor Bakri, il nuovo processo a suo carico si terrà fra pochi mesi, è ottimista sull’esito?
Sono già stato assolto una volta, ma nel frattempo Israele si è spostato sempre più a destra come dimostra la politica di Netanyahu. Purtroppo in Israele le leggi sono più o meno elastiche in base all’origine degli imputati.
Cosa ne pensa delle proteste in corso a Gaza per il diritto al ritorno dei palestinesi nei territori israeliani?
Il fantasma del diritto al ritorno terrorizza le autorità israeliane ma la questione andrà risolta. Di certo i palestinesi che vivono all’estero, che sono nati e integrati nei paesi d’adozione non lasceranno tutto per tornare a vivere nei territori appartenuti ai loro nonni o bisnonni. Diverso è per chi è nato e sopravvive nei campi profughi, in Libano come a Gaza, senza alcun diritto, senza alcuna possibilità di studiare né di trovare un lavoro. Questi profughi devono poter tornare o vivere in un luogo che offra loro un futuro.
Cosa ne pensa della rivalità tra Hamas e Fatah?
Ritengo che Hamas non sia un bene per la causa palestinese. Oggi, per esempio, il ministro della Cultura dell’ANP è un giovane molto preparato, così come altri esponenti di Fatah. In ogni caso le dirigenze passeranno, ma i palestinesi rimarranno. E alla fine otterranno giustizia.
I palestinesi musulmani con nazionalità israeliana, come lei, sono trattati come cittadini di serie B, come molti sostengono?
È così. Noi non abbiamo in partenza le stesse chance degli ebrei israeliani. Se ci accontentiamo ed evitiamo di fare politica, ci consentono di fare una vita apparentemente uguale a tanti israeliani della classe lavoratrice.

Corriere 18.10.18
La carovana dei migranti in marcia dall’Honduras verso l’America di Trump
Il presidente Usa minaccia i Paesi che li fanno passare
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO Hanno tentato di dissuaderli arrestando il loro leader, comunicando loro le parole implacabili di Donald Trump: voi negli Stati Uniti non entrerete mai! Ma la carovana di migranti che dall’Honduras sta marciando da giorni verso nord ha deciso di proseguire, sfidando minacce varie e anche il meteo avverso. Passato il confine con il Guatemala, ora puntano a quello con il Messico, dove pure verranno lasciati passare. Poi verrà la parte più difficile, con l’attraversamento di migliaia di chilometri tra pericoli di ogni genere, fino alle porte del sogno americano, se mai ci arriveranno.
Non sono rare le marce di avvicinamento collettivo verso nord di disperati che lasciano i Paesi centroamericani sprofondati nella miseria e nella violenza, come Honduras, El Salvador, Guatemala e Nicaragua. Stavolta la vicenda ha destato attenzione per i numeri e la caparbietà: sono partiti in 160 venerdì scorso dalla città honduregna di San Pedro Sula e ora potrebbero essere addirittura 3.000, secondo alcune stime.
L’ultima notte l’hanno trascorsa riposandosi nella città di Chiquimula, già in Guatemala, dove grazie alla catena di solidarietà hanno ricevuto acqua e cibo in alloggi di fortuna.
Martedì, non appena passata la frontiera, la polizia di questo Paese ha arrestato Bartolo Fuentes, attivista per i diritti umani ed ex deputato in Honduras, rispendendolo nel proprio Paese. Lo ritiene l’organizzatore della marcia, anche se l’uomo si è difeso dicendo che stava solo accompagnando i migranti. La buona notizia per la carovana è invece il via libera del governatore del Chiapas, il primo Stato messicano sul loro cammino. Potranno passare, ha detto Manuel Velasco, «per ragioni umanitarie, le stesse che noi messicani chiediamo sempre agli Stati Uniti». Sette alloggi sono già stati organizzati per il gruppo nella regione di frontiera di Soconusco.
Dal Chiapas, di norma, i viaggi verso nord proseguono con il treno, il famigerato La Bestia. Chi non ha nemmeno gli spiccioli per pagare il biglietto lo cavalca gratis sul tetto, sottoponendosi a rischi mortali. E questo è solo uno dei pericoli.
I gruppi dei centroamericani in fuga non arrivano mai compatti al passaggio decisivo, dove verrebbero facilmente identificati dalla polizia di frontiera Usa, ma passano nelle mani di organizzazioni criminali messicane che promettono l’arrivo a destinazione. E ce la fa soltanto chi nel frattempo non viene truffato, violentato, ucciso.
Il presidente Donald Trump ha assicurato arresti e deportazioni all’arrivo e minacciato i Paesi della regione con il taglio degli aiuti se non smetteranno di lasciar passare i migranti.

La Stampa 18.10.18
Svolta in Canada, fumare la marijuana diventa legale
di Francesco Semprini


Il Canada diventa il principale mercato potenziale al mondo per la marijuana legale. Da ieri infatti nel Paese nordamericano è entrata in vigore la legge che consente di vendere e consumare erba a scopo ricreativo, grazie alla legge approvata la scorso giugno dal Parlamento. Il Canada è divenuto così il secondo Paese delle Americhe, dopo l’Uruguay, dove il possesso e l’uso di cannabis è legale. In Europa è stata l’Olanda il pioniere della tolleranza seguita molto dopo da alcuni cantoni della Svizzera. Negli Stati Uniti nove Stati hanno approvato la legalizzazione a scopo ricreativo e 30 a scopo terapeutico. Il Canada ha inoltre varato una sorta di amnistia per i reati pregressi derivanti dalla vendita e il consumo di cannabis entro 30 grammi. Il governo guidato da Justin Trudeau ha dedicato gli ultimi due anni per varare una normativa in materia, partendo da quella del 2001 che legalizzava la marijuana a scopo terapeutico.
Il pusher convertito
L’obiettivo è quello di rafforzare la legalità facendo emergere gli operatori in nero contrastare i grandi trafficanti e il pericoloso fenomeno della diffusione delle droghe di sintesi a basso costo. Tom Clarke, per trent’anni «pusher» illegale, è stato tra i primi a chiedere la licenza per la vendita legale aprendo un suo negozio a Portugal Cove, in Newfoundland. «È incredibile, abbiamo atteso questo momento da una vita, sono contento di vivere in Canada e non negli Stati Uniti», ha dichiarato Tom alla Nbc raccontando di aver avuto suo padre come primo cliente.
Ma la marijuana libera è anche un mercato che sta registrando un vero boom. Nel 2017 il commercio mondiale è cresciuto del 37% raggiungendo un valore di 9,5 miliardi di dollari, dove gli Stati Uniti pesavano per il 90%, secondo la sesta edizione del rapporto «The State of Legal Marijuana Markets».
Per il 2022 il mercato Usa raggiungerà i 23,4 miliardi di dollari diminuendo la sua quota di mercato al 73% a favore del Canada che salirà al 17% con 5,5 miliardi di dollari. Secondo le stime più ottimistiche come quelle di Grand View Research, il volume di affari globali entro il 2025 è destinato a toccare quota 146,4 miliardi di dollari. Tutto ciò davanti al proliferare di operatori che si contendono il mercato, solo per dirne alcuni Canopy Growth Corporation, Aurora Cannabis, Maricann Group, Tilray, The Cronos Group. Alcuni titoli sono quotati nelle Borse canadesi, americane e londinese, altri sono scambiati «over the counter» ovvero su mercati secondari.
Quanto si guadagna
Gli analisti attendono un boom anche se potrebbe trattarsi di fiammate non prive di rischi, il primo del quale è il margine di guadagno limitato per i rivenditori. Brenda Tobin e suo fratello Trevor vogliono aprire il loro punto vendita a Labrador City, in Newfoundland, ma già sanno che non c’è molto guadagno: «Vendi 250 mila dollari di erba per intascarne 20 mila». Così sperano di arrotondare in altro modo. «Con gli accessori: cartine, pipe cilum, bong e gadget a volontà».


Corriere 18.10.18
La replica L’autore del libro dedicato a Mussolini risponde all’editorialista del «Corriere»
Raccontare è un’arte non una scienza Così è nato il mio «M»
Scurati: un romanzo ha obiettivi diversi da un saggio
di Antonio Scurati

Stimo Galli della Loggia e non gli farò il torto di attribuire a sentimenti poco nobili il suo attacco al mio M. Il figlio del secolo . Né mi rifugerò nella sprezzatura di opporre il silenzio alle critiche.
Cominciamo dagli errori. Ci sono e l’onestà intellettuale m’impone di riconoscerli. La data di Caporetto è slittata dall’ottobre a novembre per un refuso con la medesima data di un altro anno menzionata poche righe più sotto. Il cortocircuito tra Pascoli e Carducci è accaduto. Mea culpa. La lettera sulla fiducia al governo Mussolini è autentica, e molto significativa, ma a causa di una svista viene attribuita a Francesco De Sanctis quando, evidentemente, fu scritta dal suo quasi omonimo Gaetano De Sanctis. Ci sono, nel mio libro, questi errori e probabilmente anche altri, nonostante Bompiani abbia sottoposto il testo a doppia revisione da parte di un letterato e di uno storico specialista del periodo. Sono sfuggiti. Non dovrebbe accadere ma l’imperfezione è inevitabile, soprattutto in un libro di 850 pagine che abbraccia un’intera epoca. Io ho studiato per anni per fornire al romanzo una solida base documentale e mi sono impegnato con i lettori a non inserire nessun personaggio, accadimento o discorso liberamente inventati secondo un criterio rigoroso. Confermo di essermi attenuto con il massimo scrupolo a questo criterio, nei limiti delle mie possibilità. Non ho mai sostenuto di essere infallibile.
Da altri errori imputatimi credo di poter essere discolpato. Le telescriventi effettivamente «ticchettavano» nella sala del Viminale la notte della marcia su Roma stando alla testimonianza di Efrem Ferraris che descrive il loro suono inquietante in una pagina delle sue memorie. Soprattutto, però, non è un errore l’aver qualificato Benedetto Croce come «professore». So benissimo che disprezzò per tutta la vita l’Accademia. Gli errori sono la banalità della condizione umana, testimoniano soltanto la nostra fallibilità. Qui, invece, la questione mi pare si faccia più interessante. Qui c’è un equivoco che getta luce sulla differenza tra lo sguardo dello storico e quello del romanziere. Non sono io, autore del romanzo, a qualificare Croce come «professore», ma è Mussolini, suo protagonista. È il disprezzo dei fascisti, dal cui punto di vista il romanzo è prevalentemente narrato, a bollare il grande filosofo con quell’epiteto che loro ritenevano spregiativo. Questa tecnica narrativa, che riferisce il punto di vista dei personaggi ad accadimenti e persone, si chiama discorso indiretto libero ed è una risorsa fondamentale della narrazione letteraria.
Il nocciolo della questione è tutto qui, credo: M, per quanto fondato su una vasta base documentale, è un romanzo, non un saggio storico. Conosco e ammiro il lavoro di ricostruzione puntuale dei fatti svolto dagli storici di professione. Un lavoro senza il quale non potrebbe esistere coscienza storica e senza il quale un romanzo come M non sarebbe nemmeno pensabile. Ma M è un romanzo, gioca un diverso gioco linguistico, riesce o fallisce mirando a un diverso obiettivo, quello di integrare, di completare, magari, il lavoro analitico della ricerca storica con la forza sintetica della narrazione.
Da decenni il dibattito intellettuale contrappone storici e romanzieri mettendoli in competizione. Io, al pari di altri romanzieri europei della mia generazione, credo che la nostra epoca inviti, invece, a una cooperazione tra il rigore della scienza storica e l’arte del racconto romanzesco. Una sorta di nuova alleanza tra storici e romanzieri. Credo sia auspicabile per molti motivi. Il primo tra tutti è l’avvenire delle nostre scuole, lo sforzo comune per contrastare l’ignoranza della storia, e la scomparsa del sentimento di essa, in cui i nostri studenti vanno sprofondando. Un tema, questo, molto caro anche a Galli della Loggia.
Per quel che mi concerne, per anni mi sono sforzato di dare alla smisurata massa documentale riguardante Mussolini una forma narrativa che fosse rigorosa e avvincente, innovativa e rispettosa, appassionata e appassionante, commossa e commovente, un racconto che fosse esigente e popolare, capace di riscuotere quel periodo cruciale dal torpore delle aride elencazioni di date, luoghi e nomi nel quale spesso lo hanno sprofondato le aule scolastiche. E di fare tutto ciò commettendo il minor numero di errori possibile. L’ho fatto nella convinzione che, come sosteneva Ricœur, il tempo crudele che ci annienta divenga «tempo umano» solo quando entra in un racconto e che il racconto del tempo trascorso raggiunga il suo pieno significato solo quando diviene a sua volta parte del nostro sforzo quotidiano di vivere il nostro tempo.
Giudichino pure i lettori se ho fallito, ma sospetto che inchiodare la letteratura — o la vita, se è per questo — ai suoi inevitabili errori sia, a sua volta, un errore.

Corriere 18.10.18
La controreplica Lo studioso ribatte: chi legge deve poter distinguere realtà e finzione
Ma la licenza creativa non autorizza a tradire la verità della storia
Galli della Loggia: dopo Croce saccente, Stalin pacifista?
di Ernesto Galli della Loggia


Apprezzo la sincerità con cui Antonio Scurati riconosce gli errori (non tutti) contenuti nel suo libro. Non mi convince però — ed è forse la vera questione di fondo — quanto egli dice sulla differenza tra lo sguardo dello storico e quello del romanziere. Non mi convince proprio considerando le sue righe su Benedetto Croce.
Contrariamente infatti a ciò che Scurati sembra credere per giustificare il suo uso del termine «professore», almeno fino al 1924 Benedetto Croce non fu per nulla specialmente inviso ai fascisti. I quali quindi non avevano alcuna ragione particolare per disprezzarlo o bollarlo con una qualifica da alcuni di essi ritenuta spregiativa. Da alcuni di essi, ho scritto, perché in realtà, anche se a noi oggi piace dimenticarlo, i ranghi fascisti, specie quelli di provenienza nazionalista, erano pieni zeppi d’intellettuali e di professori autentici: Giovanni Gentile, Alfredo Rocco, Maffeo Pantaleoni, Gioacchino Volpe, Alberto De Stefani, per dire quelli che mi vengono subito alla mente, non erano proprio gli ultimi arrivati. E di certo, se si fossero sentiti dare del professore in tono burlesco non l’avrebbero fatta passare liscia a nessuno. Dunque non si capisce proprio che c’entri in questo caso il presunto punto di vista fascista espresso dalla creatività del romanziere.
(Sorvolo peraltro sul fatto che le sole due volte in cui nel libro di Scurati Croce è citato come professore dal contesto non si evince affatto che l’attribuzione del titolo sia riferibile ai fascisti o a Mussolini: una volta, ad esempio, a rivolgersi a lui chiamandolo professore è addirittura Luigi Russo).
Mi rendo ben conto, ripeto, che storia e letteratura sono due ambiti diversi, con esigenze e prospettive di un ordine altrettanto diverso: la seconda, la letteratura, potendo contare fra molte altre cose sulla grande risorsa rappresentata dalla «forza sintetica della narrazione». Ed è indubbio — anche se per limitarmi alla storiografia italiana del Novecento, una tale forza non fa difetto pure in molte pagine di Croce stesso o di Volpe o di Angelo Tasca, a proposito della nascita del fascismo — è indubbio, dicevo, che difficilmente uno storico potrà dipingere Kutuzov e la strategia di logoramento messa in campo dai russi contro Napoleone meglio di quanto ha fatto Lev Tolstoj, o descrivere le giornate parigine del 1848 con più verità di quanto si legga nell’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert.
Ma può tutto questo autorizzare il romanziere a contraffare, fino a caricaturizzarli, i tratti di importanti protagonisti storici realmente esistiti, senza peraltro che il lettore abbia modo di capire che quanto sta leggendo è qualcosa che poco o nulla ha a che fare con la realtà? Perché questo è il punto! Capisco ad esempio, anche se ne ignoro i motivi, che Benedetto Croce (sempre lui!) stia particolarmente sulle scatole a Scurati. Ma dipingerlo come «saccente», come uno che posava a «uomo di mondo che ne ha viste di ogni colore» o come un «maestro di cinismo eterno», mi pare un tradimento odioso della verità che neppure a un romanziere dovrebbe essere permesso. Se no al prossimo romanzo storico potremmo tranquillamente aspettarci, in nome dello specifico letterario, che so, uno Starace protettore delle arti o uno Stalin pacifista. Almeno questo non sembrerebbe anche a lei un po’ troppo, caro Scurati?

Repubblica 18.10.18
Letteratura in podcast
Il Duce smascherato da Paolini e Scurati
di Marco Belpoliti


Benito Mussolini, scrive Antonio Scurati a un certo punto del suo romanzo M. Il figlio del secolo (Bompiani), «è stato il primo ad aver capito di poter sfruttare il rancore per la lotta politica, il primo a essersi messo alla testa di un esercito d’insoddisfatti, declassati e falliti». Certo, prima di lui c’erano state quelle che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk chiama le banche del rancore e dell’odio, la Chiesa cattolica e i partiti socialisti e comunisti; queste banche il rancore l’amministravano e lo indirizzavano verso il Paradiso o il Sol dell’avvenir. Con Mussolini il rancore diventa il principale motore della lotta politica; ha un immediato sfogo nella realtà e nulla è più rinviato al futuro. Un tema assai attuale: subito! Ed è anche per questo che la nuova iniziativa di Repubblica, da oggi sul sito — un grande personaggio del teatro impegnato italiano, Marco Paolini, che legge in podcast, e in dieci puntate settimanali, estratti del libro di Scurati — acquista un significato ancora più profondo.
Nel primo volume dei tre annunciati sul tema, lo scrittore racconta la nascita del fascismo, la sua ascesa, la conquista del potere, dal 1919 al 1924, dal dopoguerra all’assassinio Matteotti. Ma non c’è solo Mussolini ad attirare oggi l’attenzione, anche la figura di Hitler sembra tornare d’attualità, o almeno il periodo che va sotto il nome di Repubblica di Weimar, in cui incuba ed esplode il nazismo e il piccolo caporale austriaco prende inaspettatamente il potere in uno dei paesi più moderni, complessi e culturalmente avanzati del mondo. Com’è possibile che sia accaduto? E poi, ci si domanda, accadrà di nuovo? L’attenzione verso il libro di Scurati nasce da qui, oltre che dalla capacità che dimostra di saper tradurre in narrazione la storia del Duce.
Un libro scritto in modo sincopato, teso, epico, una cavalcata al trotto che in 838 pagine porta dai Fasci di combattimento di piazzale San Sepolcro al discorso parlamentare in cui nasce la dittatura mussoliniana.
L’appassionata lettura di Marco Paolini delle pagine del libro, in esclusiva per il sito di Repubblica, restituisce questo ritmo. La prosa scandita, al limite del paratattico, di Scurati tende a eliminare i giudizi storici generali per narrarne la polpa dei fatti minimi. In un passaggio in cui si parla della visione d’insieme di Giolitti, che non distingue le minuzie e perde di vista i dettagli, l’autore di questa monumentale romanzografia spiega in cosa consiste il proprio racconto: attenzione spasmodica ai dettagli.
La narrativa si distingue dalla storia, proprio per questo. Non solo perché narra — lo fa anche la storia ovviamente — ma perché pone attenzione ai dettagli, li accentua e li esalta.
Il clima politico in cui stiamo vivendo oggi in Europa porta l’attenzione degli scrittori su questioni epocali che sembravano obliate. Ritornano i grandi personaggi, quelli che sembrano fare la storia con la loro sola presenza. Mussolini è uno di questi. Lui e il suo imitatore tedesco, Adolf Hitler, sono gli uomini nuovi che spazzano via le élite tradizionali, facendo saltare i rapporti di forza delle vecchie classi dirigenti, in Italia come in Germania. Gli adepti, leader piccoli e grandi di questi movimenti, sono degli apprendisti stregoni che vengono dal nulla, una classe politica inventata dalle mosse spregiudicate e ciniche dei due capi. La giovinezza del fascismo è quella degli ex combattenti della Prima guerra mondiale, una classe di genialoidi, playboy piccolo-borghesi, irregolari, nottambuli, pregiudicati, incendiari, disperati, sfaticati, nullatenenti. Sono loro i barbari che seguono un leader che non possiede alcun credo politico certo, che lotta solo per la propria affermazione, per il potere: un dilettante di genio.
Il libro di Scurati è uscito in un momento in cui alcuni tratti del passato sembrano riproporsi nella crisi delle democrazie europee, e l’antifascismo tradizionale, collante della Repubblica, appare in crisi. Ricordare il passato, riavvolgere il nastro delle vicende e di nuovo svolgerlo davanti ai lettori, diventa un compito importante. E, nel caso della lettura in podcast di Marco Paolini, anche piacevole: un bel mix tra letteratura, teatro e digitale. Bisogna però ricordare che non bastano i grandi leader a fare la storia; sono i contesti generali a rendere possibili le ascese di uomini umanamente modesti, di uomini vuoti come questi.
Scurati con un felice anacronismo attribuisce a Mussolini l’invenzione dell’individualismo, non una sua tendenza personale, ma lo stigma del nuovo secolo, il Novecento («l’individualismo è la modernità»). Si tratta di una retrodatazione di un fenomeno che è venuto dopo, con l’avvento dell’americanismo nel secondo dopoguerra. Senza dubbio il Duce, come Hitler, era uno spasmodico narcisista, tuttavia era un’eccezione in un mondo in cui narcisisti erano gli artisti, non certo le masse. Il narcisismo di M è quello che nasce dall’assenza di personalità per assumerne una più forte e piena che scaturiva dal riconoscimento delle masse.
Mussolini usava il corpo, il Führer la voce. Era l’identità prodotta dalla folla. Un passato-futuro su cui riflettere.

Repubblica 18.10.18
Dieci puntate per unire alle parole la magia della voce
Pagine da ascoltare e da cliccare.

Paolini legge M è lo speciale a cura del Visual Lab che raccoglie il nuovo podcast di Repubblica: dieci puntate, realizzate in collaborazione con Bompiani, in cui estratti del libro di Antonio Scurati M. Il figlio del secolo (edito proprio da Bompiani) vengono letti da un grande interprete, Marco Paolini (nella foto). La prima puntata è disponibile da questa mattina, all’interno dello speciale pubblicato sul nostro sito. A seguire, ogni giovedì dalle 17 si potrà ascoltare un nuovo episodio anche su iTunes o su altre app per podcast. Su Repubblica. it sarà a disposizione dei lettori un contenitore con l’audio della puntata, la trascrizione e una sezione dedicata ai personaggi citati in ciascun episodio. Per parlare del romanzo e dello speciale l’autore Antonio Scurati sarà in diretta su Facebook, sulla pagina di Repubblica, oggi alle 14 con Giulia Santerini

Repubblica 18.10.18
L’eterno ritorno di Pompei cantiere dei misteri
di Francesco Erbani


La scoperta del graffito che cambia la data dell’eruzione è soltanto l’ultimo enigma. Tra terremoti, archivi scomparsi e dubbi sulla fondazione, il racconto di Fabrizio Pesando, che da anni studia la città sepolta
Intervista di
Poche parole vergate con il carboncino sulla parete di una domus rilanciano Pompei quale luogo d’indagine e non solo di spettacolare suggestione. Nella città vesuviana si è continuato a scavare anche quando i muri impregnati d’acqua venivano giù e rimbalzavano gli allarmi. "Pompei crolla", si diceva. Intanto silenziosamente le indagini sondavano questioni rimaste in sospeso, come la data precisa dell’eruzione, e altre ne aprivano.
Ma quali sono le frontiere dell’archeologia pompeiana?
Quali i punti da chiarire, quali, se ci sono, i misteri? Fabrizio Pesando insegna archeologia classica all’Orientale di Napoli, ha diretto scavi a Pompei e ha pubblicato decine di saggi, compresa la più documentata guida della città (con Maria Paola Guidobaldi, Laterza).
Cominciamo dalla data dell’eruzione: questione che dura da tempo, vero?
«La fonte è Plinio il Giovane, che a Tacito racconta gli eventi in cui morì lo zio, Plinio il Vecchio. Ma i codici che tramandano la lettera non concordano sulla data, fissandola alcuni all’agosto del 79, altri a ottobre. Tutti indicano comunque il giorno 24».
Quindi l’incertezza è antica?
«La maggior parte dei filologi proponevano l’agosto per altri dettagli della lettera che facevano pensare all’estate. Si diceva che Plinio il Vecchio era reduce da "bagni di sole". Poi le questioni climatiche si sono complicate. Si è accertato che la stagione calda si prolungava oltre agosto.
Risaltavano questioni paleobotaniche, come il recupero di tracce di melograno. Furono trovati alcuni bracieri».
Mancavano documenti espliciti. O no?
«Occorre però segnalare un graffito in una villa a Torre del Greco. È un preventivo di spesa per la tinteggiatura di un piccolo ambiente fissata a fine novembre.
Trattandosi di un lavoro di pochi giorni è presumibile che l’iscrizione risalga a non molto prima di novembre. Ecco di nuovo l’ottobre».
E arriva il graffito presentato martedì a Pompei.
«Attendiamo la conclusione dello scavo. Certamente viene avvalorata l’ipotesi di ottobre. La svolta vera su questo argomento può venire da Ercolano più che da Pompei».
Perché?
«Da Pompei non sono mai giunte documentazioni scritte in grado di chiarire questo mistero. O sono finite bruciate oppure furono asportate e distrutte o, in caso di bronzi, fuse. Se a Ercolano si potesse scavare l’area del Foro, compresa fra il decumano massimo e il teatro, potremmo accedere agli archivi pubblici della città, al tabularium.
Verrebbe sì individuata la data dell’eruzione, ma sarebbe una scoperta di poco conto rispetto a una documentazione che può riscrivere la storia romana e del diritto romano. Ma siamo di fronte a problemi difficilmente sormontabili senza tecnologie raffinatissime».
Quali problemi?
«Sopra quell’area giace la Ercolano moderna».
Altre questioni pompeiane ancora aperte?
«Indicherei gli scavi avviati da alcuni decenni e intensificati ora grazie ai finanziamenti europei per individuare le origini di Pompei».
Non si conoscono?
«La Pompei che vediamo risale al II secolo avanti Cristo. Ma sfogliandola in profondità si sta individuando quel che c’è sotto questo strato, vale a dire un insediamento che rimanda al VI secolo. Se ne cominciano a percepire la dimensione e la diffusione. Recentemente i colleghi dell’università di Bologna hanno trovato strutture arcaiche sotto la
casa di Obelius Firmus, in una zona periferica».
Diventa interessante non solo la fine, anche l’inizio di Pompei.
«Esattamente. La nuova frontiera consiste nello scavare sotto il visibile e non solo per rinvenire strutture architettoniche, anche per documentare antichi apparati decorativi, meno pregiati, ma indicativi di uno stile ordinario».
È comunque la dimensione urbana l’oggetto d’indagine a Pompei, più che il singolo manufatto?
«Pompei va studiata e ristudiata alla scala urbana. Altrimenti si finisce per cercare quelle che i latini chiamavano curiositates ».
E dunque come orientarsi?
«È importante capire come si organizzava il territorio circostante la città. Nella zona di Scafati, che confina con Pompei, si sta ricostruendo il paesaggio agricolo d’epoca imperiale popolato di fattorie. Occorre studiare bene questi edifici che occupano l’area verso il Vesuvio e la valle del Sarno, perché nella campagna risiedeva una spina dorsale dell’economia pompeiana, soprattutto dopo l’80 avanti Cristo, quando Pompei diventa colonia romana».
Dall’archeologia alla vita sociale, dunque?
«Sì. Ma aggiungerei un ulteriore argomento. Ci si è sempre interrogati sul perché a Pompei vi fossero tante locande, botteghe, luoghi dove si offriva ospitalità. E persino lupanari. Perché a Pompei e non a Ercolano o a Ostia?»
Me lo dica lei.
«Una delle spiegazioni sulle quali si lavora è che a Pompei ferve la ricostruzione dopo il tremendo terremoto che la sconvolge sedici o diciassette anni prima l’eruzione…»
…è incerta anche la data del terremoto?
«Secondo alcune fonti accade nel 62, secondo altre nel 63».
Torniamo alla ricostruzione.
«Come abbiamo potuto verificare anche nei recenti terremoti, per ricostruire una città arrivano maestranze da fuori, che hanno necessità di trovare alloggi temporanei e anche luoghi d’incontro e di ristoro. Pompei in quegli anni è un gigantesco cantiere. Lo si è potuto accertare da tanti elementi. Forse è possibile comprendere anche questo».