La Stampa 15.10.18
I migranti di Riace: «Noi restiamo qui»
Il sindaco ai domiciliari: «Le persone non sono merci». L’idea di chiedere aiuto alla Regione
di Fabrizio Caccia
Riace
(Reggio Calabria) «Ma come posso andarmene da qui? — dice Gabriel
Hiffan, 30 anni del Ghana — io mi sono fatto tre anni di inferno in
Libia aspettando che arrivasse il mio turno per salire sul barcone, sono
arrivato a Lampedusa, da due anni sono a Riace con mia moglie e 5 mesi
fa è nata la nostra bambina che abbiamo chiamato Giuseppina. Un nome
italiano, capito? Perché Riace ormai è la mia vita...». Ce ne sono tante
di storie così, qui a Riace, «città dell’accoglienza» come avvertono
pure i cartelli stradali all’ingresso. Il vicesindaco Giuseppe Gervasi,
sotto una bomba d’acqua, è andato a suonare a casa del sindaco, in via
Milano, perché c’è un matrimonio da celebrare e ha bisogno della fascia
tricolore. Domenica amara, per Mimmo Lucano, dal 2 ottobre agli arresti
domiciliari. E solo un poco riesce ad addolcirla la cassata al forno che
gli porge sua figlia Martina: «Ce l’hanno mandata dei compagni da
Palermo, papà». Ma il sindaco dal pugno chiuso ha l’umore sotto le
scarpe. Domani a Reggio Calabria ci sarà l’udienza al Tribunale del
Riesame che deciderà sulla sua libertà. Ma il sindaco non sembra
pensarci troppo: «Sono molto abbattuto — dice — non mi fido più di
nessuno, pronto sempre a combattere sì ma non sono mica un robot, certe
accuse fanno malissimo e restano dentro. Le persone non sono merci, come
può il Viminale pensare di trasferirle, di portarle via da Riace, dove
con pazienza e fatica hanno ricostruito le loro vite? Chiedono i
rendiconti di tutte le spese, giusto, giustissimo, ma lo sanno che le
cose che facciamo qui non sono manco scritte nelle loro linee-guida
sull’accoglienza? Qui noi facciamo il villaggio globale...». S’indigna
Lucano, il nostro «prigioniero politico», lo chiama così il maliano
Daniel, anche lui approdato a Lampedusa su un barcone
L’umore di
tutti qui è plumbeo, anche perché lo Stato ha smesso di finanziare il
progetto Sprar dall’anno scorso e i soldi sono finiti soprattutto per i
rifugiati. Così hanno chiuso i laboratori di ceramica, d’artigianato.
«Io soffro d’asma ma non posso più andare in farmacia», racconta Elvis
Edos, nigeriano. I 35 euro al giorno sono un miraggio da molti mesi, i
negozi qui hanno sempre accettato dei «buoni» sulla fiducia emessi dal
Comune, ma non è più così sicuro che la fiducia continuerà. Il clima è
cambiato: «Con l’immigrazione si diluiscono le identità», ha detto ieri
il ministro Lorenzo Fontana. «La grande paura è quella di dovercene
andare», ammette Tahira, pachistana da tre anni a Riace. Al bar di
Guglielmo e al bar di Alessio, in piazza Municipio, gli unici punti di
raduno per italiani e stranieri, Rino, Renato, Gerardo, muratori che si
fanno una birretta prima di rientrare nelle case, dicono tutti una cosa
importante: «Anche noi siamo stati migranti, anche noi ce ne siamo
andati dal nostro paese — ricorda Antonio —. Io partii a 13 anni perché
qui non c’era lavoro, lo trovai ai canali di Pinerolo, dove guardavo le
mucche. Per 50 anni sono stato via...». Ecco perché i riacesi oggi si
mostrano solidali. «Io fino a quando lavoravo con le cooperative del
progetto Sprar riuscivo pure a mandare qualche soldo a casa — interviene
Elvis, nigeriano — Ora è finita». I vecchietti di via Roma dicono che
«se se ne andranno i migranti, resteremo soli e non avremo più
compagnia. Perché anche i nostri giovani se ne sono andati...».
Una
soluzione, però, ci sarebbe e Lucano in cuor suo ci sta già pensando.
Se domani il Riesame lo rimetterà in libertà comincerà a lavorarci.
Abbandonare il progetto Sprar, ma salvare il «modello Riace». Ecco la
formula: chiedere aiuto alla Regione e farsi finanziare i progetti.
Dopotutto, gli immigrati che stanno qui sono liberi cittadini e con una
casa e un lavoro in regola, con il loro permesso di richiedenti asilo,
avrebbero tutto il diritto di rimanere. Ma serve il lavoro, appunto. Il
lavoro che non c’è più.
Gli immigrati che vivono a Riace non
potranno essere portati via, ma il blocco dei finanziamenti deciso dal
Viminale li lascerà senza sostegno. Per sopravvivere, molti di loro
potrebbero essere costretti ad accettare accoglienza in un altro posto. È
finito in una tagliola il progetto messo in piedi dal sindaco Domenico
Lucano. alle pagine 16 e 17