lunedì 15 ottobre 2018

La Stampa 15.10.18
La biografia di David N. Schwartz sullo scienziato italiano che fuggì negli Stati Uniti
Enrico Fermi, la fisica e nient’altro Il genio che non seppe farsi star
Era interessato soltanto alla sua materia, non alle implicazioni filosofiche delle proprie scoperte
di Paolo Virtuani


Ci sono periodi della storia in cui nascono a pochi anni di distanza una serie di personaggi straordinari nello stesso ambito del sapere. È stato così nel Rinascimento, che ha visto fiorire i più grandi pittori e scultori, oppure tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, quando la musica ha beneficiato di una concentrazione di artisti dal talento eccelso che consideriamo ancora oggi punti di riferimento.
La stessa cosa è avvenuta nei primi due decenni del Novecento con la fisica. Nel giro di pochi anni, grazie ad autentici geni come Planck, Einstein, Dirac, Bohr, Pauli, i Curie, Heisenberg e Schrödinger, la nostra conoscenza dell’infinitesimamente piccolo (l’atomo, il suo nucleo, i quark, i quanti, i neutrini) e dell’incommensurabilmente grande (l’Universo) ha compiuto salti enormi. Tra questi giganti delle scienze fisiche Enrico Fermi occupa un posto di preminenza. A Fermi sono stati intitolati istituti di ricerca, una classe di particelle (i fermioni), un elemento chimico (il fermio, numero 100 della Tavola periodica degli elementi). Eppure, nonostante le sue scoperte che gli sono valse il Nobel nel 1938, colui che rimane il più grande scienziato italiano della storia dopo Galileo Galilei è sì celebrato ma un po’ defilato nella galleria d’onore (in America direbbero nella Hall of Fame) dei personaggi che hanno «fatto la scienza». Anzi, spesso lo si associa a situazioni non propriamente positive, come la realizzazione del primo reattore nucleare, della bomba atomica nel Progetto Manhattan e di quella a idrogeno (benché si fosse pronunciato contro la bomba H) oppure l’iscrizione senza entusiasmo al Partito fascista e la fuga dall’Italia solo dopo la promulgazione delle leggi razziali anti-ebraiche, anche per il timore di conseguenze per la moglie Laura Capon.
A che cosa si deve, quindi, questa «trascuratezza» nei confronti «dell’ultimo uomo che sapeva tutto»? Tenta una risposta David N. Schwartz, autore della più completa biografia sullo scienziato (Enrico Fermi. L’ultimo uomo che sapeva tutto, appunto, Solferino), la prima pubblicata negli Stati Uniti sullo scienziato in oltre 40 anni e ora tradotta in italiano.
Schwartz non è un fisico, è un esperto di scienze politiche anche se ha respirato fisica di alto livello sin da piccolo a casa sua (il padre Melvin ricevette il Nobel nel 1988 per le ricerche sul neutrino, particella il cui nome fu inventato proprio da Fermi). Grazie (o a causa, dipende dai punti di vista) al fatto di non essere un fisico, Schwartz non inserisce nel libro le equazioni che sono alla base degli studi di Fermi ma fornisce una spiegazione sufficiente anche per chi non ha superato brillantemente l’esame di Analisi 3 alla facoltà di matematica. Si concentra nella narrazione della sua vita che non può in alcun modo essere scissa dal suo lavoro e dalle sue scoperte. Le due cose si intersecano fino a diventare una sola, perché è proprio in questo ambito che l’autore trova la risposta all’«enigma» della minore popolarità rispetto a fisici diventati icone, da Albert Einstein fino a Stephen Hawking.
Fermi era «troppo» concentrato sulla fisica in sé e sul suo lavoro. Anzi, era la sola cosa che gli interessava. Fermi non ha lasciato nei suoi diari alcuna nota che non fosse attinente al suo lavoro o alle spese di viaggio, nelle lettere ai colleghi non ha mai accennato ad altro che agli esperimenti e a come si potessero migliorare. Le uniche cose personali le sappiamo grazie ai ricordi scritti dalla moglie dopo la morte di Fermi nel 1954 a soli 53 anni o ai racconti di Emilio Segrè. Il certosino lavoro di Schwartz, che ha parlato con chi conosceva Fermi e ha analizzato tutti i documenti disponibili, colma questa lacuna. La «colpa» di Fermi, secondo Schwartz, è di non essersi mai interessato alle implicazioni filosofiche e cosmologiche delle sue scoperte, al significato profondo e rivoluzionario della teoria dei quanti, della giustapposizione di stati della materia opposti e incompatibili con l’esperienza quotidiana (il più noto è il «gatto di Schrödinger»: chiuso in una scatola è vivo e morto allo stesso tempo, e solo quando lo si va a osservare assume uno dei due stati, e la risposta di Einstein a queste «stranezze» della meccanica quantistica fu «Dio non gioca a dadi!»).
Fermi rimane lontano da tutto ciò non perché non ne comprendesse l’importanza, ma perché lo riteneva irrilevante per il lavoro, come diceva Ugo Amaldi, dell’«ultimo uomo che sapeva tutto» in tutte le discipline della fisica, l’ultimo che ha saputo padroneggiare ai massimi livelli sia la fisica sperimentale sia quella teorica, la relatività e la quantistica.
Oggi è impensabile che, data la complessità alla quale sono arrivati questi settori, uno studioso possa essere interdisciplinare anche solo restando nel campo della fisica. Pure ai tempi di Fermi gli «sperimentali» seguivano altre strade rispetto ai «teorici». Einstein fu un grandissimo teorico ma carente sul piano sperimentale, Marie Curie era un’eccelsa fisica sperimentale ma non brillava nella teoria. La vera marcia in più di Fermi non erano la capacità di analisi e l’intuizione (indicativa la sua scelta «d’istinto» dell’utilizzo della paraffina al posto del piombo per rallentare i neutroni e aumentare la radioattività indotta) ma la capacità straordinaria di capire l’essenza dei problemi ed essere in grado di spiegarlo agli altri.
Fermi fu il più grande maestro della storia della fisica: ben otto suoi allievi o ricercatori legati a lui hanno ottenuto il Nobel e almeno altri due lo avrebbero meritato (Ettore Majorana e Bruno Pontecorvo). Fermi, sottolinea Schwartz, era un uomo metodico e semplice, amava lo sport e la vita all’aria aperta, la sua massima idea di divertimento era una passeggiata in montagna o un ballo in compagnia di amici. Questa sua ritrosia rispetto alla luce dei riflettori in un mondo, anche quello della fisica, affollato di personaggi che scrivono libri e tengono conferenze affollate sul significato ultimo dell’Universo alla luce delle ultime scoperte, gli ha impedito di diventare una star e di avere il suo volto stampato sulle t-shirt come Einstein. Fermi oggi non è un’icona ma, come conclude Schwartz il suo libro, «forse non vedremo mai un altro scienziato come lui».