Corriere 15.10.18
«Senza vino, sigarette e donne mi consolo davanti alla tv Papà mai a un mio concerto»
Il cantautore: il mio successo? In realtà ho poca autostima
di Roberta Scorranese
Un
pavimento del Settecento. Pietra e legno grezzo che si rincorrono
nell’ampio salone dell’ingresso. Libri. Libri sugli scaffali alle
pareti, sui tavolini bassi, sulle credenze, sulle poltrone delle stanze
larghe e piene di luce cupa, luce degli Appennini.
Guccini, ma in questa casa ci sono più libri che dischi.
«Ha
senso: io ho smesso di fare musica, non di leggere e di scrivere. Posso
fare a meno delle canzoni e della chitarra, ma non della lettura».
Pàvana,
con l’accento sulla prima «a», a due passi da Porretta Terme, ormai
Toscana. Il bar, l’ufficio postale, il verduraio. Francesco Guccini è
tornato a vivere qui negli anni Novanta. Pàvana è la sua Macondo:
inietta vita e magia nelle persone normali, nei romanzi che scrive da
anni ma anche nell’aneddotica quotidiana: le scarpe di quello che vive
giù al fiume, quella volta che Tizio o Caio tornarono ubriachi.
Forse Guccini ha dovuto smettere di essere Guccini per trovare questa vena di realismo magico che irrora i suoi racconti?
«Ma
no, viene dai libri. Da bambino abitavamo qui, una casa più vicina al
fiume. Leggevo tutto quello che trovavo in giro. Pure i fumetti che non
mi piacevano. Rubavo i romanzi d’appendice alla mia prozia, schifezze».
La zia, il nonno, il prozio Enrico che ritorna in «Amerigo». In fondo le sue canzoni sono una Spoon River familiare.
«Ho
sempre vissuto con parenti, genitori, amori. La zia che mi passava i
romanzetti una volta, quando avevo dodici anni, mi portò a conoscere il
mare: insieme al parroco di Pàvana andammo in pellegrinaggio alla
Madonna della Guardia di Genova».
Un po’ come quando, di recente, è
stato ad Auschwitz per la prima volta, nonostante il campo di
concentramento abbia dato il titolo alla sua canzone più famosa?
«No,
ad Auschwitz mi sono davvero chiesto che fine avesse fatto Dio mentre
lì gasavano le persone. Un gigantesco cimitero senza croci: non si può
non pensare alla composizione del concetto di giustizia. Dov’è la
giustizia? Che cosa è davvero? È soltanto una parola?».
Suo padre, che venne internato in un lager nazista, non le raccontava nulla?
«No,
non ha mai voluto parlarne. Però mandò due cartoline, che purtroppo ho
perduto. So che era nello stesso campo di Guareschi, ma non si
incontrarono mai, erano in migliaia. Sa che cosa facevano, alla sera? Si
riunivano e, stremati dalla fame, evocavano il ricordo di quel pollo
con le patate, di quella pasta con il sugo grasso. Poi annotavano tutto
in un quaderno. Carta finissima e inchiostro annacquato, perché non ce
n’era abbastanza. Lo facevano per non perdere la memoria del gusto. Per
non perdere la speranza, dico io».
Il padre. Dalle sue parole sembra sia stato una figura molto importante.
«Lo
è stato. Anche se non è mai venuto ad un mio concerto e anche se, in
tutta la vita, mi ha fatto solo due regali: una volta mi donò il libro
Senza famiglia, di una tristezza assoluta. Un’altra volta, mi diede un
rasoio elettrico».
Lui non era felice del suo successo?
«No.
Mamma diceva sempre che lui avrebbe preferito un figlio giornalista o
un figlio storico, cambiava versione a seconda dell’umore».
E lei? È felice del successo raggiunto?
«Sì,
però non ho grande autostima. Ho studiato per fare il maestro ma ho
insegnato solo tre giorni, una supplenza. Mi sono messo a suonare e a
cantare quasi per caso, a Bologna. Ho fatto cose, certo. Ma non ho mai
avuto la pretesa di incidere sulle coscienze».
Bompiani ha appena pubblicato un libro in cui Gabriella Fenocchio fa l’esegesi dei suoi testi. Mi pare un grande omaggio.
«Persino
esagerato. Però Gabriella era una raimondiana, come me. Entrambi,
all’università di Bologna, siamo stati allievi interni (cioé stretti
collaboratori del docente, ndr) del grande italianista Ezio Raimondi.
Non mi sono mai laureato perché poi mi sono messo a suonare e a cantare.
Però ricordo quelle lezioni. Una volta voleva che imparassi il tedesco
in una settimana per poter studiare un autore».
Però poi le sue canzoni hanno formato una generazione, guidandone l’impegno civile. Forse perché in fondo l’ambizione c’era?
«Ma
va. Ho sempre scritto canzoni per me, mica perché mi credevo un guru.
Che poi, a tutti gli effetti, questo abbia prodotto un mondo nel quale
si sono riconosciuti in tanti, be’, me lo lasci dire: questa è l’arte».
Giusto. L’artista crea una realtà parallela più convincente della realtà stessa.
«Sì,
ecco perché quando qualche amico mi chiama e mi chiede: “scusa
Francesco, ma quella donna di cui parli nella canzone X esisteva
davvero?” mi spiace un poco deluderli, ma è tutto inventato. O quasi
tutto».
Donne. Una moglie, una figlia, ora Raffaella, di trent’anni più giovane, con cui sta da decenni. Guccini è un uomo felice?
«Certo. Non sono mai da solo».
Non ci sa stare da solo?
«No,
è curioso: sono tornato a Pàvana per isolarmi dal caos di Bologna ma
qui già a fine agosto, quando le giornate cominciano ad accorciarsi, mi
intristisco. Voglio la luce in un posto con la luce triste».
Che cosa la annoia?
«Ormai
ci vedo così poco che quel che riesco a vedere mi dà solo gioia.
Soffro, piuttosto: io ho sempre divorato decine di libri all’anno e
adesso faccio i conti con una malattia degli occhi, una maculopatia
bilaterale. Non posso più leggere, così Raffaella o un’altra ragazza che
viene a darci una mano, mi leggono i libri».
Che cosa le stanno leggendo in questo periodo?
«Un
libro su un anziano ebreo che scopre un ex aguzzino tedesco. Avere
qualcuno che ti legge le cose è bello, però, vede, oggi per esempio i
fumetti non li conosco: che faccio, mi faccio raccontare le figure?».
Guarda la televisione?
«Moltissimo
e le dirò di più: guardo anche quei programmi dove c’è gente contraria
alle mie idee politiche per il solo gusto masochista di incazzarmi.
Sento dire cose assurde e comincio a sbraitare, a insultare. Però la tv
mi mette davanti a cose che si muovono. Solo quello mi dà conforto: sono
ancora capace di gioire davanti a persone, macchine, treni, aerei, cose
che si muovono. È l’eredità di una generazione, la mia, cresciuta con
il cinema».
I suoi ce la portavano?
«Macché. Mi portarono sì
e no quattro volte. Una volta, alla prima comunione, io volevo vedere
Buffalo Bill ma mi fecero vedere La stirpe del drago, una cosa su Mao
Tse Tung o simili. Da ragazzino appena potevo scappavo al cinema, da
solo o con gli amici. Vedevo Ombre rosse, ma pure i film con Nazzari,
capirai».
E oggi va al cinema?
«Ma se riesco a malapena a
spostarmi dal salotto al letto. Ho un mucchio di problemi alla schiena e
alle gambe. Che rabbia. Uno come me che saltava i fossi giù al fiume.
Vogliamo parlare del fatto che mi hanno tolto il vino, le sigarette e le
donne? (ride) E lo sa che ieri sera sono andato a letto alle dieci e
mezza? No, dico, a Bologna, tra sigarette e bourbon, facevamo le tre del
mattino. Giocavamo a scopa o con i tarocchi ma non ci siamo giocati mai
nemmeno un caffè. Donne e alcol sì, certo. Erano vizi da contadini. Io
sono un contadino. Mi piace stare qui in campagna perché la cosa più
importante è il meteo. Che tempo farà domani, ecco che cosa conta
davvero qui».
Una natura contadina, la sua, che ha fatto della
«giustizia proletaria» uno slogan. Quella giustizia, alla fine, forse
oggi non ha vinto.
«Certo che non ha vinto. Oggi la politica fa
leva sulle paure, vere o percepite. E guardi la propaganda: è il vero
motore della politica. Però io sono tra quelli che non si meravigliano
che tante regioni o province “rosse” siano diventate leghiste. La
sinistra italiana è lacerata sin dal congresso di Livorno e, anche
quando ha vissuto stagioni migliori, ha sempre avuto una natura
autoritaria, direi intollerante. Insomma, quei comunisti che oggi sono
leghisti, erano leghisti dentro, solo che non se ne accorgevano».
Che cosa le fa più paura oggi?
«La
paura stessa che leggo sulle facce della gente. Siamo un paese
impaurito. Stanco, stremato. Ecco, questo mi spaventa davvero».
Un rimpianto?
«Premesso
che oggi sono molto felice, mi è rimasta l’amarezza di una storia
finita male, in gioventù. Lei era un’americana, che poi ha fatto
carriera politica negli Stati Uniti. Però alla sua famiglia, che
all’epoca stava a Roma, non piacevo. Una volta, a casa sua, la madre e i
fratelli inscenarono una specie di processo: “I don’t like you!”,
urlavano. Per carità, non avevano tutti i torti, però quell’aggressività
mi fece male. Un amore poteva finire meglio».
Un processo, un po’
come quelli che negli anni Settanta si facevano agli artisti: tutti
ricordano il «processo» a De Gregori da parte dell’estrema sinistra.
«A
me non l’hanno mai fatto. Ma una volta ho fatto un spettacolo assieme
Dario Fo alla Palazzina Liberty, a Milano. Siccome non c’era posto per
tutti, molti non riuscirono a entrare. Così si misero a urlare
“fascista” a Fo. Capisce? Dare del fascista a Dario. Lo vede che la
nostra percezione della politica è guasta da anni?».
Un grande amico da sempre?
«Roberto Vecchioni. Ma anche altri».
Infine, Dio è davvero morto o che cosa?
«Vive il dubbio. E nel dubbio ci sono tutte le risposte. Le verità assolute ci rovinano».