Il Fatto 15.10.18
Sant’Orsola abbandonata, ferita nel centro di Firenze
Tra
la tribuna del David di Michelangelo, all’Accademia, e lo sfascio
eterno di Sant’Orsola ci sono solo tre isolati: contare i passi che
separano il marketing del passato dalla progettazione del futuro vuol
dire misurare la distanza che separa Vanna Marchi da Giorgio La Pira.
Tutti gli ultimi sindaci di Firenze hanno scelto Vanna Marchi: Matteo
Renzi ne era la reincarnazione, a Dario Nardella ne è toccata la
supplenza. Ma, diciamo la verità: non sono solo i sindaci. Da decenni
questa città “volgare” (Antonio Tabucchi), ha scelto di vivere di
rendita: mettendo a reddito una bellezza che toglie il fiato e perdendo
ogni capacità di prendere in mano il proprio futuro. Sono troppi i
fiorentini che hanno scelto di stare in periferia trasformando la casa
in centro in un albergo di fatto: intere vie sono ora
dormitori-mangifici, in un inquietante “effetto Venezia”.
È
mancata un’idea di città: un progetto, una visione. Hanno sbagliato
tutti: l’università, il tribunale, la banca. Portando le funzioni vitali
fuori dalla città storica l’hanno distrutta, senza giovare alla
periferia. E allora a Firenze non è rimasto che prostituirsi. Pochi
giorni fa l’ultimo cliente: un magnate russo si è preso il Salone dei
Cinquecento per giorni, facendo chiudere il museo e trasformando Palazzo
Vecchio in Las Vegas. È la norma: un film americano chiude le strade,
Renzi prende in ostaggio Michelangelo per il suo “documentario”, addii
al celibato vanno in scena tra i Raffaello di Palazzo Pitti…
Per
questo proprio Sant’Orsola è così interessante, così carica di futuro.
Parliamo di un grande isolato (sono quattordicimila metri cubi), di
proprietà della Città Metropolitana, l’ex Provincia, piantato nel cuore
di Firenze: nel quartiere di San Lorenzo, a un passo dal Duomo. Era un
monastero femminile benedettino, fondato agli inizi del Trecento: ma una
storia travagliata l’ha dato nell’Ottocento alla Manifattura Tabacchi,
fino a un rovinoso abbandono. Negli ultimi anni nulla è successo:
Sant’Orsola era nei “cento luoghi” che Renzi promise di restituire alla
città (promessa finita come quella di ritirarsi dalla politica in caso
di vittoria del no al referendum costituzionale); è stata il set della
grottesca ricerca delle ossa della Gioconda (Lisa Gherardini, possibile
modella di Leonardo, sarebbe stata sepolta lì) inscenata dagli stessi
umoristi che hanno inventato quelle di Caravaggio a Porto Ercole; ha
conosciuto un momento di gloria mediatica quando Andrea Bocelli propose
di istituirvi un’accademia di musica (tramontata prima di sorgere): fino
all’annuncio (maggio 2018) che a salvarla sarebbero stati i Benetton.
No comment.
E ora? E ora le pubbliche autorità non hanno la più
pallida idea di cosa farci. Dopo aver scartato le idee più sensate (la
migliore forse quella di Marco Moretti, presidente del Diritto allo
studio toscano, che proponeva di farci una super casa dello studente che
riannodasse il legame tra universitari e fiorentini), rimane solo il
nulla spinto: niente Rinascimento da vendere, niente lusso estremo o
moda. Ma c’è un ma: e questo ma sono i cittadini di San Lorenzo, che da
anni lottano, denunciano, studiano, documentano, propongono strade per
salvare Sant’Orsola, e intanto riescono a non farla uscire dalla
coscienza collettiva della città. Gli architetti e urbanisti che fanno
parte del comitato “Sant’Orsola project” stimano in 450.000 euro le
risorse necessarie a mettere in sicurezza il piano terra (liberarlo dai
resti della cementificazione operata dalla Guardia di Finanza e da
materiali vari) e fare una convenzione con associazioni giovanili che
potrebbero garantire la guardiania: ma nulla si muove.
Daniela
Tartaglia – una delle migliori fotografe italiane, che vive a pochi
passi da quel gran buco nero – gli dedica un libro, “mossa dall’urgenza
(forse irrazionale) di penetrare l’anima di quel luogo, un tempo spazio
di meditazione ed ora quasi oasi di pace e silenzio rispetto
all’artificialità e alla vetrinizzazione del sistema urbano”.
Interessante è il metodo, moderno e antico, con cui questo libro
nascerà: il grafico livornese Stefano Bianchi ha lanciato il progetto
Crowdbooks, in cui si raccolgono soldi dal basso per finanziare la
pubblicazione di qualità di libri d’arte. Lo si è fatto per secoli col
sistema delle sottoscrizioni preventive, e oggi la rete rende questo
metodo sostenibile e democratico. L’obiettivo non sono soli fondi: ma
libri liberi, senza padrini e senza umani rispetti. Gli scatti di
Tartaglia (alcuni li vedete in pagina) dimostrano che “se amore guarda,
gli occhi vedono” (Carlo Levi). Se un sindaco avesse ascoltato con
altrettanto amore i residenti di San Lorenzo, avrebbe subito capito che
non si trattava di “riqualificare” Sant’Orsola, ma di “restituirla” ai
cittadini. Nel libro si legge il ricordo di Silvana Li, che racconta
come davanti ai suoi occhi di bambina Sant’Orsola “sembrava il paese dei
balocchi: cortili, chiostri e scale dove scorrazzare”. E la stessa
Silvana si chiede: “A chi giova tenere spazio collettivo in queste
condizioni? Vorrei che potesse diventare un’altra volta un posto, magari
più pulito e organizzato, come me lo ricordo: un posto pieno di vita,
con bambini che corrono e giocano, anziani che leggono il giornale e
giocano a carte, ragazzi che studiano e famiglie che ci dormono e ci
vivono”.
Lo vorremmo in tanti, e non solo per quel luogo, ma per
tutta Firenze: di cui Sant’Orsola è metafora e coscienza. E, chissà, un
giorno anche riscatto.