venerdì 12 ottobre 2018

La Stampa 12.10.18
Caso Cucchi, la famiglia primo argine nella tutela dell’interesse pubblico
di Giovanni De Luna


«Il muro è crollato». La composta esultanza di Ilaria Cucchi si è espressa in una frase di straordinaria efficacia. I muri, soprattutto quelli che nascondono il potere, sono la patologia della democrazia. In passato l’Italia ha pagato un prezzo altissimo all’opacità delle istituzioni, alla mancanza di trasparenza e a un «segreto di Stato» alla cui ombra restavano impunite le stragi e insabbiati i processi. Ma proprio allora, alla fine degli Anni 70, direttamente dalla società civile, era scattata una reazione che oggi trova nell’azione della famiglia Cucchi il suo esito più confortante; nell’inerzia dei partiti, fuori dagli schieramenti ideologici, e proprio per questo estremamente innovativa nel panorama italiano, nacque una forma di mobilitazione che proprio nelle famiglie aveva il suo perno. Famiglie spinte da motivazioni affettive, ma con un’azione collettiva fondata su valori piuttosto che su interessi utilitaristici e con lo scopo di mostrare a tutta la collettività che chiedere giustizia per i loro cari non era solo una faccenda privata. Un «familismo morale» che fu in grado di costruire una «rete» al cui interno il dolore privato si trasformò nella tutela dell’interesse pubblico alla verità e alla giustizia, l’affettività si intrecciò con la cittadinanza, i sentimenti con la ragione. Nove anni è durata la battaglia di Ilaria Cucchi per avere giustizia per il fratello. Così come per anni si sono battute le associazioni dei familiari delle vittime delle stragi (Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Bologna, Ustica, etc…) per sconfiggere depistaggi, manipolazioni, complicità istituzionali. Ilaria Cucchi non ha voluto trasformare suo fratello in un eroe. Ha rifiutato l’icona della purezza del martire per mostrarne anche le fragilità, gli aspetti meno edificanti; pur di far emergere la verità. Oggi, dopo nove anni, l’omertà si è spezzata. Un carabiniere ha confermato che furono altri carabinieri ad uccidere Stefano e altri carabinieri ancora si adoperarono per cancellare il delitto.
Nove anni ci sono voluti affinché il nostro ministro dell’Interno possa avere oggi la possibilità di riconoscere nell’impegno dei familiari di Stefano Cucchi non un attentato alla rispettabilità dell’Arma dei Carabinieri, ma il segno della vitalità della nostra democrazia. I rischi di una deriva autoritaria del sistema politico sono drammaticamente racchiusi nelle pulsioni razziste e xenofobe che sono state liberate nel corpo sociale, nello scatenarsi di egoismi carichi di rancore, nelle intemperanze di chi cerca ossessivamente capri espiatori da immolare. Ma sono rischi che una democrazia matura può controllare agevolmente. A patto che le sue istituzioni, soprattutto quelle a cui lo Stato affida il monopolio legale della violenza, siano consapevoli del loro ruolo di presidio della libertà di tutti; se si dovesse incrinare la tenuta democratica di chi detiene il potere di usare la forza (non solo i corpi di polizia, ma anche l’esercito e la magistratura) il «familismo morale» sarebbe un argine molto fragile, destinato ad essere travolto facilmente.