Il Sole Domenica 7.10.18
Karl Kraus. Con questo autore la tradizione della satira incontra quella del sublime, dando forma a una comicità apocalittica
Fenomenologia del filosofo-scrittore
di Alfonso Berardinelli
In questa grande epoca, Karl Kraus a cura di Irene Fantappiè, Marsilio, Venezia, pagg. 101, € 12
C’è,
ci sarà mai, un posto per Karl Kraus nella letteratura, nella
filosofia, nella sociologia del Novecento? Saremo mai capaci di imparare
qualcosa da lui in una cultura dominata dalle specializzazioni e dalle
professioni? Di che cosa era professionista Kraus?
Nato in Boemia
nel 1874 in una famiglia dell’agiata borghesia ebraica, coetaneo di
Rilke, Hofmannsthal e Thomas Mann, vissuto a Vienna fin dalla prima
infanzia, una singolare vocazione di scrittore fece di Kraus il più
famoso, odiato e amato polemista e critico sociale nella capitale
dell’impero austroungarico. Un giornalista nemico del giornalismo, un
borghese antiborghese, uno scrittore più che raffinato ma insofferente
della raffinatezza puramente estetica, un moralista ostile al moralismo e
un satirico dei linguaggi culturali in un centro della cultura europea
come Vienna, nella quale la crisi della civiltà e dell’umanesimo
borghesi produceva nuove forme artistiche, teoriche e filosofiche: la
musica atonale di Schoenberg, la psicologia del profondo di Freud e più
tardi l’analisi filosofico-linguistica di Wittgenstein (ammiratore di
Kraus).
Nel 1899, a venticinque anni, dopo aver rifiutato di
collaborare al più importante quotidiano viennese, la «Neue Freie
Presse», Kraus decide di creare il proprio personale strumento di
espressione letteraria e comunicazione pubblica, «Die Fackel» («La
fiaccola»), scritta quasi interamente da lui e pubblicata a sue spese
grazie al sostegno della famiglia. Figlio di un commerciante della
carta, Kraus divenne con la sua rivista soprattutto un critico della
carta quotidianamente stampata, del giornalismo, la forma scritta più
frequentata e influente del Novecento. Così influente da fargli scrivere
uno dei suoi più famosi aforismi: «In principio fu la stampa, poi
comparve il mondo».
Scrivendo questo modesto articolo in lode di
Kraus, devo essere consapevole di tradire Kraus partecipando alla sua
“neutralizzazione” e riducendolo alla misura di un luogo comune e di una
leggenda ormai ovvia. Il solo modo di evitare questo è leggere Kraus
rischiando di condividere quello che scrive.
In Kraus la
tradizione della satira incontra quella del sublime, dando forma a una
comicità apocalittica. Il Novecento di Kraus si apre così, con la
commedia che si trasforma in tragedia, perché una stupidità
industrialmente iperprodotta produce piccoli orrori destinati a
diventare grandi orrori. La Belle Époque partorì infatti nel 1914 la
Grande guerra e la mancanza di immaginazione spalancò le porte a uno
sterminio bellico inimmaginabile, o meglio colpevolmente non immaginato
da coloro che lo provocarono e lo esaltarono, intellettuali e scrittori
compresi.
L’estrema condensazione della scrittura di Kraus, ora
lampante e ora labirintica, il fluviale virtuosismo dialettico del suo
stile, la passione per la purezza e l’energia linguistica, la feroce
gelosia con cui difese la propria autonomia e solitudine, mostrano che
una rivista come la «Fackel» era stata inventata per difendere una
verità circostanziale sempre da riformulare perché sempre a rischio.
L’inconfondibile creatività polemica del linguaggio e del pensiero di
Kraus rivela quanto in lui pensiero e linguaggio fossero una cosa sola.
Per questo parafrasare Kraus è impossibile: è un filosofo-scrittore la
cui filosofia non esisterebbe senza il suo modo di scrivere. La sua
saggistica è aforistica e teatrale, gestuale e vocale, espone e
coinvolge di continuo come attore la persona del suo autore.
Kraus
si occupava di inezie con uno spirito profetico? Lo disse lui stesso:
«Il mio rispetto per le cose irrilevanti sta assumendo proporzioni
gigantesche». Veniva rimproverato per i suoi attacchi personali? E
allora scrisse: «Non ho mai attaccato una persona per se stessa, neppure
quando la nominavo. Se nomino qualcuno è solo perché il nome esalta
l’effetto plastico della satira». Sul rapporto fra arte e borghesia:
«L’idea di un’opera d’arte che nutre il filisteo mi fa orrore (...)
Essere digerito dal borghese mi ripugna. Ma anche restargli sullo
stomaco non mi attira. La cosa migliore è non servirgli a niente».
Quanto alla letteratura, può bastare questo: «Ci sono due specie di
scrittori. Quelli che lo sono e quelli che non lo sono». Questi ultimi
«non hanno abbastanza carattere per non scrivere».
Ogni aspetto
della vita quotidiana annunciava e rivelava per Kraus l’intero destino
di una società: dalla morale sessuale alla pubblicità, dalle frasi fatte
all’arte come ornamento, alla retorica del bene pubblico e della
“necessità storica”. Forse il suo capolavoro saggistico è il monologo in
pubblico In questa grande epoca, ora tradotto per la prima volta (con
testo a fronte) da Irene Fantappiè, attualmente in Italia la più assidua
e ispirata studiosa di Kraus. La sua introduzione si apre con queste
parole: «La guerra si capisce solo comprendendo il modo in cui se ne
parla. La guerra si evita solo smettendo di parlarne nel modo in cui al
momento se ne parla». È questa la chiave delle «pagine irruenti,
intricate, paradossali che Kraus legge il 19 novembre 1914 al Wiener
Konzerthaus e pubblica un mese dopo sulla “Fackel” come pamphlet».
Annunciano l’opera che avrebbe reso celebre Kraus, Gli ultimi giorni
dell’umanità, una irrappresentabile opera teatrale, «dramma
documentario» e «allegoria apocalittica» alla cui stesura l’autore
lavorò dal 1915 al 1922. Nell’ibrido genere letterario praticato da
Kraus, si tratta di un testo capitale del primo Novecento, da leggere
accanto e a integrazione di opere come quelle di Proust, Joyce, Kafka,
Eliot, Musil... Un testo sull’autodistruzione novecentesca della civiltà
europea soffocata nella stretta tra frivolezza morale e violenza della
tecnica.
Kraus è stato l’originale e consapevole epigono di una
grande tradizione, quella del pessimismo culturale e sociale moderno,
fra critica radicale illuminista e individualismo romantico. Il suo
culto ossessivo della libertà di giudizio e la sua intolleranza per la
commercializzazione dell’umano hanno fatto di lui uno dei prototipi del
saggismo e pamphlettismo moderni dopo Kierkegaard, Baudelaire, Léon
Bloy, Oscar Wilde. «Solo Baudelaire - secondo Benjamin - ha odiato come
Kraus la saturazione del buon senso e il compromesso che gli
intellettuali hanno concluso con esso» per avere un ruolo. Elias
Canetti, che ventenne aveva assistito entusiasta alle sue letture
pubbliche, lo descrive così: «Era l’uomo più severo e più grande che
vivesse a Vienna (...) La ”Fackel” era come un tribunale in cui Kraus
era l’unico accusatore e l’unico giudice (...) Tutto ciò che scriveva
era esatto fino all’ultima virgola (...) chi avesse voluto trovare nella
“Fackel” un errore di stampa avrebbe potuto rompersi il capo per
settimane».
È ancora attuale Kraus? Direi che la sua attualità è a
disposizione di chi la scopre. Dall’inizio del Novecento all’inizio del
Duemila sono cambiate molte cose. Ma l’incapacità di immaginare quale
futuro annuncia quello che siamo e che facciamo oggi, è rimasta la
stessa.