domenica 7 ottobre 2018

Il Sole Domenica 7.10.18
Nelson Mandela. Nei 27 anni di carcere ha scritto alla famiglia, agli amici, allo Stato: un prezioso epistolario che ci restituisce l’autentico Madiba
Militanza vergata nelle lettere
di Tommaso Munari


Per prima cosa, sgombrate la mente. Cancellate l'immagine del volto di Nelson Mandela riprodotto su miliardi di t-shirt, mug, screensaver e ogni altra superficie, reale o virtuale, colonizzata dalla cultura di massa. Cancellate soprattutto l’immagine del volto di Morgan Freeman che lo ha impersonato in uno dei film più sottilmente reazionari di Clint Eastwood (Invictus, 2009). Cancellate le parole e le melodie delle canzoni che gli hanno dedicato gli Specials, gli U2, i Simple Minds e Tracy Chapman. Cancellate perfino le varie citazioni dei suoi discorsi estrapolate dal loro contesto e degradate a slogan dai politici di turno. Cancellate, insomma, l’icona, il simbolo Nelson Mandela.
Ora aprite le sue Lettere dal carcere, curate amorevolmente da Sahm Venter, ricercatrice della Fondazione Nelson Mandela con un passato di giornalista all’Associated Press, e pubblicate contemporaneamente in undici lingue nel centenario della nascita dell’ex presidente sudafricano. Avete sotto gli occhi il ritratto più intimo e autentico dell’uomo Nelson Rolihlahla Mandela («Dalibunga» per i suoi familiari), ripulito da patine, polvere e ogni altra incrostazione posteriore.
Come sempre i documenti, e in particolare le lettere, ci riportano a una sorta di grado zero della conoscenza. È un viaggio intellettuale disintossicante e spesso necessario, soprattutto se coinvolge figure storiche divenute oggetto di un culto della personalità.
Nel caso di Mandela questo viaggio comincia nel 1962. Il giovane esponente dell’African National Congress (Anc) è appena rientrato in patria da un Grand Tour dell’Africa, nel corso del quale ha visitato i nuovi Stati indipendenti, ha raccolto fondi per la causa dell’Anc e si è sottoposto a un addestramento militare. Dopo il massacro di Sharpeville (21 marzo 1960), infatti, Mandela si è persuaso che il solo mezzo per sconfiggere il regime di apartheid sia la lotta armata. Ma il 5 agosto 1962 viene arrestato nella cittadina di Cedara e il 7 novembre condannato per aver organizzato il grande sciopero del maggio 1961 ed essere uscito dal paese senza passaporto.
È l’inizio di una prigionia lunga 10052 giorni, trascorsi per la maggior parte nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, al largo di Città del Capo. Ventisette anni e mezzo di reclusione in cui il suo solo contatto con il mondo, a parte le rare visite consentite, sono le lettere che invia e riceve. Lettere, per inciso, contingentate, censurate e spesso neppure recapitate.
I destinatari di Mandela sono essenzialmente tre: la famiglia, gli amici, lo Stato. Al primo gruppo appartengono le lettere ai figli Kgatho, Maki, Zeni e Zindzi e alla moglie Winnie, oggetto di un amore assoluto che cresce nutrendosi dell’assenza (e che forse per questo non sopravviverà alla scarcerazione di Mandela). Ma Winnie non è solo l’adorata compagna di vita, è anche un’indomita compagna di lotta («ogni tuo più piccolo osso, ogni etto di carne e ogni goc¬cia di sangue, il tuo intero organismo è stato ottenuto da un blocco di granito», 20 giugno 1970).
Le lettere ai figli e ai numerosi nipoti, incentrate sull’importanza della scuola e dell’istruzione, fanno pensare a quelle di Gramsci ai piccoli Delio e Julik. Due padri a cui la condizione di carcerati non impedì di alternare all’affetto la predica. Ma quanta dolcezza nella severità delle parole con le quali, dopo l’arresto di Winnie, Mandela prepara le figlie Zeni e Zindzi alla vita di solitudine che le attende, stimolando in loro l’orgoglio di avere una madre che combatte per il suo popolo!
Lo Stato è impersonato, di volta in volta, dall’ufficiale in comando a Robben Island, dal commissario per le Carceri, dal ministro della Giustizia e da altre figure istituzionali che incarnano il monopolio politico della minoranza boera. Ogni lettera destinata a loro è una lezione di rigore. Esemplari quelle del 23 ottobre 1967 e del 22 aprile 1969 in cui Mandela ripercorre la propria vicenda politica, riconfermando l’adesione al nazionalismo africano d’ispirazione socialista e la legittimità del ricorso alla violenza in determinate condizioni storiche, come dimostrava persino la recente guerra anglo-boera.
Gli amici sono invece attivisti e militanti anti-apartheid come il presidente dell’Anc in esilio Oliver Tambo (a cui Mandela scrive lettere in codice indirizzandole alla moglie Adelaide), la scrittrice di origini indiane Fatima Meer (autrice della prima biografia autorizzata di Mandela) e la parlamentare progressista Helen Suzman (una delle molte donne pubbliche sudafricane celebrate in questo epistolario). È nelle lettere agli amici con cui condivide l’esperienza della militanza che emerge con maggior chiarezza un dato della vita carceraria di Mandela da lui continuamente negato: il suo essere fatalmente rivolto al passato, al ricordo, nonostante il suo spirito disponga di «potenti ali» (31 gennaio 1970).
Ma l’aspetto più affascinante di questo epistolario è senza dubbio il suo plurilinguismo. La maggioranza delle lettere è scritta in inglese, un inglese terso e preciso come una lama (tradotto in un italiano talvolta zoppicante), di cui Mandela dimostra di conoscere anche la letteratura citando a memoria versi di Shakespeare, Wordsworth e Tennyson. Alcune sono scritte in afrikaans, la lingua della minoranza bianca che il prigioniero studia per poterla utilizzare come arma contro i suoi carcerieri. Altre in xhosa, la lingua materna a cui ricorre quando deve esprimere riconoscenza e affetto. E qua e là, a seconda dei destinatari, inserisce tessere in zulu, sesotho, setswana, gujarati…
Ma è una parola in lingua xhosa a ricorrere continuamente in questo prezioso epistolario: l’intraducibile nangamso, che esprime il senso di profonda gratitudine verso una persona che ha fatto per gli altri più di quanto fosse suo dovere. Una persona, per intenderci, come Nelson Mandela.
Lettere dal carcere Nelson Mandela
a cura di Sahm Venter, traduzione
di Seba Pezzani, Il Saggiatore,
Milano, pagg. 816, € 26