Il Sole Domenica 28.10.18
Apollinaire tra versi e scherzi
Anniversari.
Il 9 novembre 1918 si spegnevaa Parigi l’estroso poeta, amico di
Picasso. Poco prima di morire urlò al medico: «Mi salvi! Ho ancora molte
cose da dire!»
di Giuseppe Scaraffia
Era quasi buio
quando, il 7 settembre 1911, due poliziotti bussarono alla porta di
Guillaume Apollinaire, per fare una perquisizione. Non doveva essere una
visita inattesa: il poeta se l’aspettava fin dal 21 agosto, quando
qualcuno aveva rubato la Gioconda di Leonardo da Vinci dal museo del
Louvre. Benché il quadro non avesse ancora la celebrità che avrebbe
ottenuta grazie al furto, la facilità dell’impresa aveva scatenato la
stampa contro le forze dell’ordine. Come se non bastasse, un giornalista
aveva rivelato l’imbarazzante numero delle opere d’arte sottratte dal
museo: 323.
Mentre la polizia setacciava invano tutti gli
ambienti, dagli irregolari ai muratori italiani che avevano segnalato
per primi la scomparsa, un belga, tale Géry Piéret, era andato al «Paris
Journal» per mostrare una statuina iberica da lui sottratta al Louvre.
Nessuno ancora lo sapeva, ma Piéret aveva fatto sporadicamente da
segretario ad Apollinaire, nascondendo a casa sua altre due statuine
prese dal museo prima di rivenderle al grande amico di Guillaume, Pablo
Picasso, che se ne era ispirato per le orecchie delle Demoiselles
d’Avignon.
Apollinaire era terrorizzato; era straniero e quindi
nel rischio perenne di essere espulso dalla Francia alla minima
scorrettezza proprio nel momento in cui si stava finalmente affermando.
Nella bohème letteraria e artistica tutti conoscevano quel giovanottone
spiritoso e apprezzavano le sue straordinarie poesie e la sua
impareggiabile conversazione, in grado di spaziare tra Buffalo Bill e
Petronio, Fantomas e Picabia. Mentre il magistrato lo interrogava, lui
si chiedeva come l’avrebbe presa la sua fidanzata, la pittrice Marie
Laurencin, molto cauta dietro l’apparente eccentricità. Marie abitava
con la mamma che diffidava di quello strano personaggio che viveva di
lavoretti e romanzi pornografici. Inoltre Guillaume non era un compagno
facile. Amava l’estrosità e il viso irregolare di Marie, di cui era
gelosissimo, ma era anche capriccioso e infedele.
Come se non
bastasse, l’irascibile madre del poeta, la nobildonna polacca Angélique
de Kostrowitzky, malgrado il suo passato movimentato, avrebbe voluto che
il figlio facesse un buon matrimonio. Guillaume, o Wilhelm Apollinaris
come figurava sui documenti, portava il cognome della genitrice, dato
che il padre, il capitano Francesco Flugi d’Aspremont, non l’aveva mai
riconosciuto. Chissà se in quella notte di luna piena, mentre i pesanti
battenti del carcere si chiudevano alle sue spalle, era riandato agli
ultimi giorni prima dell’arresto.
Mentre Piéret continuava a
provocare con rivelazioni e bugie la polizia, ansiosa di dare in pasto
ai giornali un colpevole per il furto della Gioconda, Apollinaire e
Picasso, terrorizzati, avevano discusso sul da farsi. Dopo avere
scartato l’ipotesi di espatriare – Parigi era indiscutibilmente l’unico
posto in cui lavorare – avevano pensato di sbarazzarsi delle statuette
buttandole nella Senna. All’ultimo però non ne avevano avuto la forza ed
erano tornati indietro. Apollinaire aveva sperato di risolvere la
situazione consegnandole al «Paris Journal», ma era riuscito solo a
farsi sospettare di essere a capo di una gang specializzata in furti
d’arte. Convocato davanti al giudice, Picasso, spaventatissimo, prima
aveva negato di conoscere l’amico, poi quando Apollinaire, affranto, era
scoppiato in singhiozzi, aveva iniziato a piangere a sua volta.
Sei
giorni di prigione avevano reso Apollinaire irriconoscibile. Malgrado
l’assoluzione, il suo sorriso abituale era scomparso. Quando gli
chiesero se avrebbe trasformato la sua esperienza in un romanzo, rispose
con una smorfia di disgusto: «Oh! No! Era troppo tremendo!».
Poco
a poco sembrò tornare quello di un tempo, ma gli intimi sentivano che
quella ferita non si sarebbe più rimarginata. Tuttavia, malgrado il
disastro che Piéret gli aveva combinato, rimase in contatto con lui per
molti anni. Tra il 1911 e il 1918, Apollinaire riempì giornali e riviste
di un fiume di articoli. Pollop, come lo chiamavano gli intimi, si
divertiva di tutto; per ispirarlo gli bastano una frase sentita al
caffè, un oggetto, un incontro. Perennemente incline alla meraviglia,
avvolgeva gli emblemi della modernità, dalle auto al cinema, in
un’incantevole rete di malinconia. «Qui persino le automobili sembrano
antiche». Inseparabile dalla pipa a forma di palla da rugby, recitava
male le sue meravigliose poesie, come aveva capito il giorno in cui il
progresso gli aveva offerto un’occasione inaspettata, sentirsi declamare
Le pont Mirabeau: «L’amour s’en va comme cette eau courante / L’amour
s’en va / Comme la vie est lente / Et comme l’Espérance est violente».
Stenografo
diplomato, si vantava di scrivere alla stessa velocità con cui pensava.
Mentre componeva canticchiava sempre lo stesso motivo. Sotto il suo
sguardo le parole formavano le immagini dei calligrammi. Mentre
componeva canticchiava sempre lo stesso motivo.
Quando era
scoppiata la prima guerra mondiale, Apollinaire aveva deciso di
arruolarsi per cancellare la macchia di quell’arresto. «La guerra durerà
solo tre anni e la cosa migliore è fare il soldato». Affascinato dal
rigore della vita di caserma, contemplava amorevolmente il suo cannone,
che gli sembrava un’arma bella, forte e dolce come i suoi versi. Gustava
i fuochi d’artificio delle bombe, intrecciandoli con due amori
paralleli: la sfuggente Lou e la dolce Madeleine. Apollinaire si
innamorava con la stessa sensuale golosità con cui divorava i piatti
preferiti. Nelle lettere a Lou rievocava nostalgicamente la volta in cui
«mi sono vendicato in modo così cocente sulle tue deliziose, amate
natiche». Con Madeleine si abbandonava a fantasticherie voluttuose,
pregustando gli incontri futuri. Gli scriveva anche la povera Marthe,
un’ex-amante legata a Ungaretti: «Ho appena ricevuto una poesia da
Ungaretti, che mi ama e che trovo sporco e privo del minimo talento».
Poi,
lentamente, il tono dei messaggi si era appannato. «Vi faccio grazia di
cos’è la guerra, il suo orrore, il mistero e la selvaggia bellezza sono
incomprensibili». Si era nascosto sotto un pezzo di tenda: «Ero
convinto che quella stoffa ondeggiante al vento offrisse una protezione
alla quale nessuno aveva ancora pensato». Ma, alle 16 del 17 marzo 1916,
una scheggia di granata squarciò l’elmetto di Apollinaire, colpendo
alla tempia sinistra il corpulento ufficiale che stava leggendo
placidamente l’ultimo numero di una rivista letteraria, il Mercure de
France.
Dopo un’operazione al cranio, Apollinaire accolse
allegramente gli amici in ospedale. Appena finito un secondo intervento,
per scongiurare un inizio di paralisi, aveva cominciato a tamburellare
con le dita sul tavolo operatorio. Presto era ricomparso nei caffè
letterari con la fronte bendata, pavoneggiandosi nell’uniforme azzurro
cielo con la croce di guerra. Appoggiandosi al bastone da passeggio con
il pomo a testa di nero, eco del suo interesse per l’arte primitiva,
raccontava, ridendo, come era rimasto ferito.
La vita, per
Apollinaire, sembrava riprendere con gli amici, le mostre cubiste, i
balletti russi. Pubblicava racconti, poesie, drammi. Poi, con una
rapidità degna dei suoi versi, aveva finalmente incontrato e sposato la
sua donna ideale, la rossa Jacqueline. Apollinaire era superstizioso;
frequentava attivamente chiromanti e cartomanti e faceva attenzione a
non passare sotto una scala. Una sera di cinque anni prima il poeta si
era macchiato dell’unica violenza della sua vita. Quando un suo amico,
il poeta Max Jacob, il pince-nez incastrato nelle orbite, gli aveva
letto il futuro – «Vedo una vita breve e la gloria dopo la morte» –
Apollinaire, estremamente superstizioso, l’aveva schiaffeggiato, ma poi
se ne era pentito. Otto giorni prima di morire si era preoccupato molto
quando, durante una cena, era stato versato del sale sulla tovaglia. La
spagnola, che avrebbe mietuto più vittime della guerra appena finita, lo
sorprese in piena rinascita. Poco prima di spegnersi, cento anni fa, il
9 novembre 1918, aveva gridato al medico: «Mi salvi, dottore, ho ancora
tante cose da dire!».