lunedì 29 ottobre 2018

Il Sussidiario 29.10.18
Da Agostino ad Heidegger, perché è così difficile "pensare" il tempo?
Fin dai presocratici la filosofia ha cercato di "pensare" il tempo. I greci coniarono una mappa di cinque termini. Charles Péguy lo mise al centro di "Véronique"
di Stefano Arduini

qui

Corriere 28.10.18
Platone, il pensiero politico nei saggi di Adriana Cavarero
La raccolta pubblicata da Raffaello Cortina si concentra sui dialoghi
del pensatore che affrontano il delicato rapporto tra filosofia e polis
di Donatella Di Cesare


Adriana Cavarero, «Platone» (Raffaello Cortina, pagine 199, euro 19)

Nel femminismo italiano non c’è forse libro che ha fatto epoca come Nonostante Platone di Adriana Cavarero. Uscito nel 1990 per Editori Riuniti (quindi pubblicato in inglese dalla prestigiosa Polity Press nel 1995), richiamava l’attenzione sulla parte dimenticata della filosofia, quella femminile, che veniva rivendicata con intelligenza, finezza e decisione già a partire dagli esordi greci. Tra le figure considerate spicca quella di Diotima di Mantinea, la «straniera», a cui nel celebre dialogo Simposio viene attribuita la parte di protagonista. Il che non sorprende: dalla passione per la sapienza alla maieutica, l’arte della levatrice, il femminile permea la filosofia. E in fondo Socrate lo riconosce.
Il capitolo su Diotima di quel fortunato volume viene ora riproposto in una raccolta pubblicata in questi giorni da Raffaello Cortina e intitolata semplicemente Platone (pagine 199, e 19). Si tratta di saggi che coprono un arco di tempo di quarantacinque anni e vanno dal primo testo giovanile Platone e la democrazia, del 1973, all’ultimo che è il testo di una conferenza tenuta a Brighton nel 2017 Per un’archeologia della post-verità. È insomma il libro non scritto di Cavarero su Platone che vede finalmente la luce grazie a Olivia Guaraldo che ha curato la raccolta consentendo così di risalire quasi il percorso filosofico di una delle voci più interessanti della filosofia italiana. Platone nel pro e nel contro. Impossibile articolare il pensiero della differenza sessuale se non partendo dai dialoghi, quei testi classici che nessun filosofo e nessuna filosofa dovrebbero mai aggirare. Si può dire che Platone sia il punto di riferimento costante per Adriana Cavarero che va esemplarmente acquisendo originalità di riflessione in un confronto serrato con il «padre» della filosofia.
Nella raccolta emerge soprattutto la dimensione politica del suo pensiero. Preziosa interlocutrice diventa allora Hannah Arendt che, com’è noto, a sua volta è tornata sempre alle fonti greche. La questione sollevata in alcuni saggi è quella incandescente del rapporto tra filosofia e politica, in particolare nei termini in cui Platone lo delinea nella Repubblica. Quale ruolo spetta nella polis alla filosofia, dopo le innumerevoli sconfitte, la condanna a morte di Socrate, ma anche la tragica avventura di Platone a Siracusa? Se, malgrado tutto, l’una ha bisogno dell’altra, in che modo è possibile recuperare il rapporto tra lo sguardo teoretico dei filosofi e l’agire politico? La pista aperta da Arendt non porta Cavarero verso l’utopia, bensì verso la possibilità di una plurale condivisione della teoria. Se non si può fuggire dalla politica, come ha fatto Platone — è l’accusa di Arendt — non si può neppure fare a meno di quel peculiare «vedere» filosofico.
Si intuisce perché l’interesse di Cavarero, come mostra anche l’ultimo saggio della raccolta, quello sulla post-verità, si concentri sul tema attualissimo della democrazia, sul suo significato, sul suo valore. Impossibile non riprendere da Platone e dalla sua critica a quel regime politico che causa corruzione, manipola l’opinione, provoca demagogia.
Ecco la lezione della filosofia: non dare nulla per scontato. Forse la prossima tappa di Cavarero sarà allora un saggio su questo tema dove ormai all’interno della filosofia si fa sempre più chiaro lo iato tra chi auspica una democratizzazione della democrazia (questa sembra anche la via verso cui s’incammina la filosofa) e chi invece si dispone a una critica più radicale.

Repubblica 29.10.18
Rifondazioni
Libertà e sicurezza sono valori di sinistra
Nel nuovo libro di Marco Minniti che attraversa la politica non solo italiana: come fermare la deriva nazionalista, razzista e populista del governo?
La situazione attuale assomiglia a quella che portò alla marcia su Roma di Mussolini nel 1922
di Eugenio Scalfari


Domani esce il libro di Marco Minniti, intitolato Sicurezza è libertà.
È una riflessione su una serie di temi e problemi trattati con diversi argomenti e descrive la società in cui viviamo e i rischi che comporta l’ipotesi assai pericolosa d’una alleanza al tempo stesso razzista e populista delle forze estremiste, in gran parte italiane, che hanno come finalità non confessata ed anzi ipocritamente negata di sfasciare l’Europa. Il prevalere infatti del nazionalismo – del quale l’Europa dovrebbe essere semplicemente un circolo di discussione – non rafforzerebbe affatto il Continente del quale facciamo geograficamente parte ma lo trasformerebbe soltanto in un luogo di incontro tra le diverse sovranità.
Minniti è ovviamente contrario a questa visione nazionalista ed anti- europea e propone invece un’Europa che dovrebbe coincidere con l’esperienza del suo passato e i propositi che intende attuare nel suo futuro. Ma prima di esaminare questo suo studio sul futuro da un assai interessante passato prossimo, mi viene la voglia di ricordare ciò che avvenne alla fine di ottobre del 1922, più o meno un secolo fa.
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Benito Mussolini, tra il 24 e il 26 ottobre del ’ 22 lanciò da tutt’Italia quella che lui stesso chiamò la Marcia su Roma ( 28 ottobre). Migliaia e migliaia di fascisti si avviarono in corteo verso la capitale del Regno per proclamare una dittatura repubblicana. La marcia avveniva sulle principali strade d’Italia, dal Nord e dal Sud, lungo il Tirreno e l’Adriatico, sulla Cassia, la Flaminia, l’Appia, l’Aurelia affollate da un popolo guidato da capi che Mussolini aveva indicato: Starace, Balbo, Bottai, Farinacci, De Vecchi. Mussolini aspettava a Milano e sarebbe arrivato a Roma 30 ottobre: aveva chiesto di incontrare il Re, Vittorio Emanuele III, che nel frattempo aveva proclamato lo "stato d’assedio" militare, soprattutto schierato l’esercito in difesa della capitale.
Alla fine l’incontro al Quirinale si fece e nacque il governo Mussolini con il suo primo discorso: « Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto » . Due anni dopo fu ucciso in un attentato il leader del partito socialista Giacomo Matteotti. Per molti mesi dopo questa tristissima vicenda Mussolini oscillò tra l’idea di ritirarsi del tutto dalla politica e quella invece di dar luogo ad un governo dittatoriale che avrebbe avuto come ministri soltanto quelli che lui battezzò con la parola "gerarchi" del partito.
Mussolini naturalmente aveva idee assai diverse da quando per la prima volta aveva incontrato il Re. Assunse la qualifica di Duce e le insegne dell’antica Roma il cui impero lo affascinava: i fasci littori divennero l’emblema del fascismo. L’Impero a sua volta nacque negli anni Trenta con la conquista dell’Etiopia.
Tutto questo durò fino al 1943 con continue oscillazioni tra pace e guerre, alcuni provvedimenti economici interessanti e altri disastrosi. Dal punto di vista della politica estera Mussolini aveva il suo partner in Adolf Hitler, il quale lo ammirava perché il Duce l’aveva preceduto di dieci anni nella conquista del potere. Ma c’era una differenza profonda tra i due: Hitler amava la guerra, Mussolini che aveva ingaggiato solo guerre coloniali tentò invece di influire sul führer per far concludere rapidamente il conflitto scoppiato nel 1938. Non vi riuscì e quella guerra da lui temuta e non voluta travolse l’intero continente, l’Italia, il fascismo e ovviamente il Duce che lo aveva creato e guidato. Ho ricordato questo passato perché in qualche modo somiglia all’attuale presente. Naturalmente speriamo di no.
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Il libro di Minniti, intitolato come ho già detto Sicurezza è libertà, comincia con un capitolo che riassume in poche righe il mondo della politica. Lo cito. «Durante l’affermazione del nuovo populismo, sia quello europeo sia quello italiano, c’è l’idea, che non è fondata ma illustra con molta chiarezza ciò che pensano i partiti governanti, che il principio di sicurezza e quello di libertà non possono convivere mentre, per una vera e salda democrazia noi la consideriamo una coppia affascinante ».
Questa visione tipica della coppia Salvini- Di Maio, contiene di fatto l’abbattimento della Costituzione, e separa crescita economica e questione sociale, rafforzamento europeo e sovranità nazionale. Il fatto che l’ottica di Salvini sia principalmente razzista ci fa capire che la libertà è per lui un vincolo completamente negativo. Salvini in realtà non è un populista. Di Maio guida un partito ( che non è più un "movimento") fondato non da lui ma da Beppe Grillo. Questo era allora un movimento populista che non aveva alcun programma salvo la distruzione di tutte le classi dirigenti, qualunque fosse il loro colore politico: destra, centro, sinistra. «Ma poi che cosa farete? » , gli si domandava. Questo chiese Bersani quando cercò di attrarre i grillini avendo ricevuto un incarico di formare il governo dal presidente Napolitano.
Bersani parlò a lungo con i 5 Stelle sperando in un appoggio che solo Grillo poteva accettare. Ma non andò affatto così.
Il populismo spesso si è formato nelle società malgovernate. È una risposta al malgoverno che quasi sempre ottiene il risultato di migliorare la situazione e poi scompare. Ma adesso non è più così: Salvini si vale del populismo perché lo coniuga con il razzismo e con la dittatura nazionale in un’Europa da spaccare in mille pezzi, come in parte sta già avvenendo.
Di Maio invece, che nasce populista, in qualche misura ha ripudiato le tesi ancora oggi affermate da Grillo. I 5 Stelle si chiamano ancora Movimento, ma in realtà sono un partito con una sua politica economica, discutibile anzi molto discutibile, ma che comunque esiste ed è accettata con qualche modifica da Salvini. Per concludere su questo punto, che è della massima importanza, il libro di Minniti esamina a fondo la natura dei due partiti di governo e individua in Salvini il vero avversario. Di Maio, quando era ancora legato a Grillo, raccoglieva all’incirca il 10 per cento dei voti. Quando è salito al 20 e poi quasi al 30 per cento? Quando Renzi ha mostrato evidentemente la sua vocazione per il comando individuale. Non si chiama proprio dittatura, ma in realtà ha dei notevoli tratti di somiglianza, che peraltro un partito con un gruppo dirigente riesce ad utilizzare negli aspetti accettabili e a bloccare in quelli che mettono in crisi il partito stesso.
Da questa situazione culminata nelle elezioni del 4 marzo scorso, Di Maio ha vinto non già per il suo populismo grillino ma perché molti che avevano aderito o comunque votato per il Pd sono rifluiti nel movimento di Di Maio o si sono astenuti dal voto. E questi due elementi, dice Minniti, sono quelli che possono essere recuperati da un partito democratico che abbia dei leader capaci di attirare sia i non votanti sia quelli che ai 5 Stelle si sono affidati soltanto per ammonire il partito di provenienza ad una conduzione realmente democratica, moderna, europeista. Quelli che chiedono, insomma, una sinistra nuova ed efficiente dove la democrazia si fonda sull’esperienza del passato e la previsione concreta del futuro prossimo.
Queste sono le tesi che Minniti delinea mettendo tra l’altro in rilievo che l’Africa ha bisogno dell’Europa ma l’Europa ha altrettanto bisogno dell’Africa. Lui l’ha sperimentato per due anni ed ha fatto su questo terreno dei passi avanti fondamentali. Nel libro li rievoca con molta moderazione perché non vuole fare una auto-peana di se stesso, ma chi ha seguito la sua politica conosce bene il programma Africa- Europa da lui concepito e in parte attuato. Occorre che l’Italia, non certo da sola, investa risorse economiche e sociali nei paesi al di là del deserto libico. Questi interventi creeranno prodotti, lavoro, ricchezza, recupero degli emigrati che fuggono dalla fame. Questa politica si può estendere, nell’esperienza e nel pensiero di Minniti, a tutta l’Africa centrale, da quella che si affaccia sull’Atlantico fino alle coste del Nilo e addirittura del Golfo Arabo. Un partito liberaldemocratico che facesse propria questa politica, che tentasse in tutti modi di rafforzare l’Europa come continente orientato verso la federazione o verso una confederazione molto stretta tra i vari componenti e che abbia come parola d’ordine sicurezza, libertà, uguaglianza, giustizia: questa è l’ipotesi. Per fortuna non è soltanto di Minniti ma di tutto un gruppo di uomini politici che fanno parte del Pd o operano nei suoi dintorni. C’è l’incognita di Renzi ma è di questi ultimi giorni e il libro di Minniti non poteva affrontarla. Ora si è profilata e bisognerà fare i conti con essa. Possono anche essere positivi e lo saranno se il Partito democratico si rilancerà con forza e con risultati.

Repubblica 29.10.18
La fidanzata di Traini " Luca e i suoi fantasmi la mia vita con lui sull’orlo della follia"
Intervista di Fabio Tonacci,


MACERATA Per otto mesi e mezzo la fidanzata di Luca Traini è stata un fantasma. C’era, ma non c’era. Era mescolata ai giornalisti in Tribunale il giorno in cui è stato condannato a dodici anni per strage aggravata dall’odio razziale, e nessuno se n’è accorto.
«Quando Luca è uscito, ha alzato il pollice... non era un gesto di spocchia, mi stava salutando». È qui, seduta al Caffé Centrale di Macerata, universitaria in mezzo ad altri studenti universitari che la salutano e ignorano di chi sia.
«Pochi sanno della nostra relazione, cominciata nell’aprile del 2017. Finora sono rimasta zitta ma adesso voglio spiegare chi è davvero Luca e perché ha fatto ciò che ha fatto».
Le regole d’ingaggio di quest’intervista Giulia le ha messe in chiaro fin da subito, quando l’abbiamo contattata al telefono dopo alcune dichiarazioni rilasciate sulla cronaca locale del Resto del Carlino. Intende rimanere anonima, niente nome vero, niente foto. «Perché quando uscirà dal carcere, ci sposeremo e ci rifaremo una vita insieme.
Lo amo e non lo considero un delinquente. Si è reso conto del male che ha fatto, il suo pentimento è reale, ve lo assicuro...». Parla col cuore, Giulia. E il cuore la trascina in una missione al limite dell’impossibile: dimostrare che Luca Traini, fascista per convinzione e xenofobo per sentenza, non è un razzista. «È solo una persona confusa, con momenti di matto».
Il 3 febbraio è uscito di casa e ha sparato ai neri. Solo ai neri.
«È stato un gesto orribile che io condanno totalmente. Luca l’ha fatta grossa e deve pagare, però il suo fascismo è solo di facciata.
Ha la croce celtica tatuata sul braccio, sulla macchina teneva un cero di Mussolini (lo stesso che dopo il raid ha lasciato a Pollenza, nel luogo dove era stato ritrovato il cadavere mutilato di Pamela Matropietro, ndr), e sì, faceva il saluto romano, ma era per scherzo, non gli dava l’importanza che gli diamo noi».
Leggeva il Mein Kampf di Hitler.
«Non lo considerava certo la Bibbia. L’ho visto andare due volte ai raduni di Forza Nuova, e a diversi appuntamenti della Lega perché gli piace Salvini: durante la campagna elettorale stava ai gazebo e partecipava alle cene del partito».
Pensa che certi messaggi anti-migranti diffusi da Salvini in quel periodo abbiano avuto un effetto su di lui?
«Secondo me, sì. Non dico che siano stati la causa del raid, ma Luca ne era stato influenzato perché è un ragazzo fragile e condizionabile».
Un fragile e condizionabile fascista che solo per caso non ha ammazzato nessuno.
«Non credo che volesse veramente uccidere. E non conoscete l’intera storia».
Ce la spieghi, allora.
«Ogni tanto mi facevo di cocaina, di canne e di metamfetamina.
Luca era ossessionato da questo, perché c’era già passato con la precedente fidanzata tossicodipendente. Mi teneva ore al telefono per impedirmi di andare ai rave. Una volta mi sfasciò la macchina, spaccando un finestrino con un cazzotto».
L’ha mai picchiata?
«No, mai. Mi disse però che gli spacciatori li avrebbe fatti fuori tutti. In un’altra occasione per la rabbia gettò dal terrazzo il telefono. Dava di matto, ma riuscivo a calmarlo. Mi è sempre stato vicino, è grazie a lui che ne sono uscita. Diciamo che io ho riempito il vaso, Pamela è stata la goccia».
Che successe prima del raid?
«Dopo la notizia del ritrovamento del corpo di Pamela, si infuriò con me. Mi urlava: "Guarda che hanno fatto gli spacciatori". Litigammo furiosamente. Il venerdì sera l’ho chiamato per andare al cinema, ma lui non ha voluto...». (Giulia ritrova su whatsapp la chat con "Lupo", il suo ultimo messaggio è del 2 febbraio alle 19.50: «Allora vado a cena da nonna, te chiamo quando ho fatto. Dai. Buon appetito». Traini risponde: «Ok».)
Lo chiama "Lupo" anche lei?
«Sì, tutti lo chiamiamo così.
Premetto che Luca conosce tanta gente, ma non ha neanche un amico vero. Il soprannome risale a quando a Tolentino faceva la guardia alle case dei terremotati: rimaneva per ore sotto la neve, da solo, di notte. Come un lupo».
Torniamo al sabato del raid.
«Mi ha chiamato alle 9.30 mentre stava andando in palestra.
Voleva incontrarmi per fare la pace, ma io ero ancora indispettita per il rifiuto della sera prima e gli ho attaccato il telefono in faccia. Non dico che la sparatoria sia stata colpa mia, però se fossi andata da lui non sarebbe successa. A mezzogiorno e mezzo mi ha richiamato. Non dimenticherò mai cosa mi ha detto: "Ti lascio.
Non ti posso spiegare. Ho fatto una cosa brutta. Scusa.
Promettimi che non ti butterai più sulla droga. Ti amo". Poi ha staccato il telefono. Non ho realizzato subito, ma quando ho visto in televisione la sua macchina, ho capito che aveva di nuovo dato di matto».
Aveva dato di matto? Lei sta un po’ sottovalutando i fatti.
«Luca soffre di un disturbo di personalità borderline. È bipolare, e me ne sono accorta cercando su Internet. Ha tutti i sintomi di quel disturbo: gli sbalzi di umore, la paura dell’abbandono...».
Veramente la perizia della procura ha escluso la malattia mentale.
«Ho vissuto accanto a Lupo per otto mesi, lo conosco meglio del perito. Quando gli prendono i cinque minuti di matto, gli cambia la voce e la fisionomia del suo volto».
E allora perché non lo avete portato da un medico?
«Non ci è mai voluto andare. A volte ammetteva di avere un problema, altre volte negava. Ma, ripeto, non è un razzista».
In carcere cosa fa?
«Sta bene, ha anche un amico che è stato un brigatista rosso, o qualcosa del genere. Lavora, fa le pulizie e gli danno 200 euro al mese. Ha saputo della morte di Desireé a Roma e mi ha chiesto di fare le condoglianze alla famiglia della ragazza».

Il Fatto 29.10.18
Desirée: dopo il solito spot di Salvini, destra all’attacco contro il divorzio
Cattolici tradizionalisti scatenati: il delitto della sedicenne è il frutto della “dissoluzione della famiglia”
di Fabrizio d’Esposito


L’immane tragedia di Desirée Mariottini, la ragazza violentata e uccisa a San Lorenzo, quartiere popolare di Roma, non è soltanto un infinito spot per l’estrema destra xenofoba del vicepremier Matteo Salvini. A strumentalizzare l’omicidio della povera adolescente della provincia di Latina c’è anche l’ala dura del fronte tradizionalista e fariseo che si oppone al pontificato di Francesco.
Stavolta l’argomento non è securitario, ma riguarda la famiglia. Meglio, il divorzio, storica conquista sociale del Paese dopo il referendum del 1970 voluto dai radicali di Pannella e Bonino. L’equazione, sviluppata in modo tranchant, è questa: sia Desirée sia Pamela – violentata e uccisa a Macerata nella primavera scorsa, sempre da spacciatori africani – sono figlie di famiglie distrutte e disgregate. Colpa della sinistra progressista. Come scrive Francesco Borgonovo sulla Verità: “Se oggi esistono migliaia di ragazzi fragili come Desirée un motivo c’è. Sono i figli, questi, della dissoluzione della famiglia”.
Ancora più esplicita La Nuova Bussola Quotidiana, sito di cattolici salviniani e anti-bergogliani: “Ci si dirà: non vorrete mica rimettere in discussione la legge sul divorzio? Ebbene sì, è proprio questo che intendiamo. È proprio questo che va rimesso a tema. Desirée e Pamela, la loro fragilità è lì a dimostrarci che di questo c’è bisogno”.
Non solo. L’introduzione del divorzio è persino un’istigazione al femminicidio. Testuale: “Anche i cosiddetti femminicidi maturano in gran parte da situazioni di separazione”. Ergo, se ne deduce che una moglie farebbe meglio a stare in silenzio e a tenersi le violenze in casa, anziché volere il divorzio e rischiare quindi di morire. Se questo non è Medioevo, che cos’è? Di certo è il brodo di coltura della nuova destra sovranista che avanza e che ha portato al famigerato ddl Pillon sull’affido condiviso, in cui c’è una stretta sul divorzio, consentito solo a chi se lo può permettere economicamente.

La Stampa 29.10.18
Caso Desirée,
“Morta perché nessuno ha chiamato il 118”
di Grazia Longo


Poteva essere salvata, ma nessuno ha chiamato i soccorsi quando l’ha vista «nuda in una condizione di completa incoscienza» e dopo quasi tre ore Desirée Mariottini è morta.
Omissione di soccorso o, peggio ancora, favoreggiamento è il reato che potrebbe essere presto contestato a 6 tossicodipendenti presenti nella casa fatiscente a San Lorenzo dove la sedicenne di Cisterna di Latina è stata drogata, violentata e uccisa. Già alle 17.30 del 18 ottobre Asumadu, uno dei testimoni che accusano il branco dei 4 africani arrestati, come si legge nel verbale di assunzione informazioni «aveva sollecitato gli astanti, dopo aver tentato di rianimarla, a richiedere l’intervento di un’ambulanza».
E il bulgaro Radev a verbale dichiara che «alle 20, quando era stata spostata dal container e messa nella casa, dopo altri 20 minuti la toccavo e la sentivo fredda». Eppure il 118 viene allertato solo all’una della notte. Perché tutto questo ritardo? Per paura dei 4 africani o perché il silenzio era stato «comprato con dosi di sostanze stupefacenti»? Proseguono quindi le indagini della Squadra mobile, coordinate dal pm Stefano Pizza e l’aggiunto Maria Monteleone.
Anche per individuare l’italiano, noto come Marco, che avrebbe ceduto le gocce di psicofarmaco usate nel cocktail letale di droga. Desirée aveva nella tasca dei pantaloni un flaconcino mezzo vuoto di Tranquillit e resta da chiarire se l’ha ricevuto direttamente da Marco o dagli extracomunitari. Che l’hanno volutamente stordita per poter abusare di lei. Una testimone, come si legge nell’ordinanza del gip Maria Paola Tomaselli racconta che a «Desirée era stato somministrato un mix di gocce, metadone, tranquillanti e pasticche da coloro che l’avevano stuprata e che questi l’avevano indotta ad assumere tali sostanze facendole credere che si trattasse solo di metadone». Radev racconta inoltre che «un mese fa ho conosciuto Desirée alla stazione Termini e poi siamo andati insieme in via Lucani. Marco non gli ha dato il metadone. È alto 1,85, sulla trentina, fuma anche lui. L’ultima volta che l’ho visto lì dentro era qualche giorno prima della sua morte. Ho visto lì dentro anche dei napoletani che compravano 500 euro di cocaina».
Intanto Barbara Mariottini, 31 anni, madre della ragazzina, assistita dall’avvocato di parte civile Valerio Masci, è devastata dalla disperazione: «Durante le medie la mia Desi è stata in cura da uno psicologo privato perché la bullizzavano chiamandola “la zoppetta”. Ce l’ho portata anche prima dell’estate ma mi aveva detto di stare tranquilla. “Andatevi a fare un viaggio insieme” mi disse. Ma non lo potrò fare mai più».

Repubblica 29.10.18
La solitudine di Desirée "Stava morendo e siamo scappati"
La ragazza di San Lorenzo tradita da tutti anche dalle donne che frequentavano il palazzo "Avevamo paura che la polizia accusasse noi"
di Maria Elena Vincenzi


Roma. Era sola Desy, come si faceva chiamare lì, nel palazzo di via dei Lucani dove è morta. Sola e indifesa. Conoscenti ne aveva tanti, compagni di droga. Amici nessuno. « Si approcciava in maniera troppo insistente e confidenziale con qualsiasi persona potesse offrirle stupefacente » , ha raccontato Muriel, congolese 34enne frequentatrice dell’immobile abbandonato di San Lorenzo. Un posto, raccontano le carte, dove alcuni addirittura passavano la notte. Era successo anche a Desirée Mariottini di dormire lì. Su quei materassi fetidi buttati per terra.
Mentre gli inquirenti stanno ancora cercando altri aguzzini, due sicuramente, oltre al " Marco" di cui parlano tanti testimoni che avrebbe dato alla sedicenne il mix di psicofarmaci che l’ha stroncata, emergono altri dettagli terribili su quella notte. A raccontare agli agenti della squadra mobile, coordinati dal procuratore aggiunto Maria Monteleone e dal sostituto Stefano Pizza, le ultime ore della ragazza sono in molti. Di gente ne passava parecchia in via dei Lucani.
Qualcuno ci aveva persino provato a mettere in guardia Desirée, a dirle che era troppo piccola per stare lì. Aveva tentato Muriel, congolese: « La seconda volta che l’ho rivista era in compagnia di una ragazza di colore che conosco con il nome di "Antonella". Entrambe assumevano crack attraverso un inalatore artigianale, la "bottiglia". Le ho redarguite entrambe, ma hanno continuato senza curarsene». A dirle che era meglio tenersi alla larga da via dei Lucani era stato anche un senzatetto romeno che si definisce suo amico: « Una volta ci siamo andati insieme, in quell’occasione le dicevo di non andare mai più da sola in quel posto perché era chiaramente pericoloso » . Così anche Giovanna, 32 anni, napoletana: « Fin dal primo giorno compresi che era minorenne, mi disse che avrebbe compiuto presto 18 anni. La sua mi sembrò una presenza strana e inopportuna, in quanto, oltre che essere minorenne, era fuori da quel contesto, depressa e sempre alla ricerca di una dose. Più volte ho cercato di dissuaderla, non tanto dal drogarsi, quanto dal frequentare quello stabile in disuso perché frequentato da tossici e spacciatori pericolosi».
Consigli che Desirée non ha ascoltato. E così nella notte tra il 18 e il 19 ottobre in quel maledetto immobile ha perso la vita. Sola come ci era entrata. Nell’indifferenza di quei conoscenti che l’hanno drogata, violentata per poi affrettarsi a sparire nel nulla. « Intorno alle 18, svegliandomi — racconta un testimone ghanese di 35 anni — notavo che all’interno del complesso erano presenti ancora Youssef ( Salia, uno dei fermati), Sisco ( l’arrestato Chima Alinno), Ibrahim (Brian Minteh), Antonella nonché Muriel, ma Desirée non era a vista. Solo dopo alcuni minuti sentivo Muriel chiedere a tutti perché la ragazza fosse nuda, temendo che l’avessero violentata. La stessa, poi, la rivestiva. Solo a quel punto mi affacciavo alla porta del container vedendo che Desirée era sul materasso su cui alcune ore prima l’avevo vista fare sesso con Youssef. Ma appariva incosciente, come profondamente ubriaca. Quindi aiutavo Youssef, Ibrahim e Muriel a portarla fuori dal container ponendola sul pavimento e esortavo tutti a chiamare l’ambulanza, in quanto temevo che si trattasse di overdose. Però Youssef mi bloccava dicendomi che la ragazza stava bene. Ciononostante uscivo su via dei Lucani per cercare qualcuno con un cellulare per chiedere aiuto ma non trovavo nessuno». Il racconto dell’uomo arriva poi alle due di notte quando « mentre parlavo con Giovanna, si avvicinava Ibrahim che, piangendo, ci diceva che Desirée era morta. Io e Giovanna, avvicinandoci a lei, ci accorgevamo che non respirava… Io mi arrabbiavo con Youssef dicendo che, se avessimo chiamato l’ambulanza, la ragazza si sarebbe salvata. Nonostante le mie parole, Youssef, evidentemente agitato e preoccupato, prendeva i suoi vestiti, li metteva nello zaino e si allontanava. Verso le 3 tutti i presenti, ossia Ibrahim, Sisco, Muriel e Giovanna, oltre a me, si allontanavano dall’edificio temendo che la polizia potesse ritenerci tutti responsabili della morte di Desy».

Corriere 29.10.18
Il commento di Lerner e lo scontro con Salvini


Scontro tra il ministro dell’Interno Matteo Salvini e il giornalista Gad Lerner. A scatenarlo il commento postato su Twitter dal giornalista in merito al drammatico caso di Desirée Mariottini: «Dopo Pamela Mastropietro guardiamo attoniti la vita e la morte di Desirée Mariottini: dipendente da eroina, figlia di spacciatore italiano e madre quindicenne, vittima di pusher immigrati. Vicende tragiche, che dovrebbero suggerirci qualcosa di più e di diverso dell’odio razziale». Subito si è scatenata una serie di reazioni. Da un lato c’è chi lo ha attaccato: «Ci manca che scriva “se l’è cercata” o “alla fine vedete che è colpa sua”». Dall’altro c’è stato chi lo ha difeso: «Gad Lerner non ha giudicato, ma vuole farci riflettere sui fatti». Il caso è finito su Dago-spia attirando l’attenzione del leader leghi-sta. Il quale ha postato su Facebook la notizia data dal sito guidato da Roberto D’Agostino, con l’aggiunta di un commento tranchant: «Gad, ma vergognati!». La risposta via Facebook di Lerner non si è fatta attendere. Sul suo profilo ha postato la sua reazione: «Ma come può un ministro della Repubblica, Matteo Salvini, farsi propagandista in palese malafede di una fake news? Chi mai avrebbe scritto che Desirée Mariottini se l’è cercata? Vergognati tu!».

Repubblica 29.10.18
L’analisi
Disuguaglianze e rancore
di Chiara Saraceno


La buona notizia è che le disuguaglianze economiche tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo si sono ridotte, anche se i livelli di vita medi rimangono molto distanti. La cattiva notizia è che in molti Paesi sono aumentate le disuguaglianze interne, in termini sia relativi sia assoluti e si sono contratte le possibilità di mobilità sociale ascendente da una generazione all’altra e nel corso della vita. I due fenomeni sono in parte connessi, nella misura in cui la globalizzazione ha consentito ai mercati, e ai lavoratori, dei Paesi in via di sviluppo di competere con quelli dei Paesi sviluppati. Ma le ragioni dell’aumento della disuguaglianza in questi ultimi è anche dovuto ad altri fattori, di cui si è discusso in un convegno organizzato nei giorni scorsi dalla Scuola Normale Superiore a Firenze. In particolare, accanto alle trasformazioni tecnologiche che hanno reso obsoleti alcuni lavori, ma hanno anche creato nuovi lavoratori "squalificati" e insieme individualizzati ( i lavoratori delle piattaforme tecnologiche), non vanno ignorati la perdita di potere contrattuale dei lavoratori e ciò che qualcuno ha chiamato "capitalismo oligarchico": la concentrazione della ricchezza, del reddito e del potere tra coloro che sono collocati nel quintile più ricco e in particolare nell’1 per cento più ricco. È avvenuto anche nel Paese un tempo più egualitario, la Svezia, che ora è diventato simile alla media europea per quanto riguarda le disuguaglianze di reddito, ma il più diseguale per quanto riguarda la ricchezza, con l’1% più ricco che detiene il 42% di tutta la ricchezza.
Questa concentrazione di ricchezza e reddito ha effetti negativi sulla mobilità sociale, indebolendo il ruolo dell’istruzione nel determinare le capacità di reddito. Conta la famiglia cui si appartiene. E la disuguaglianza è trasmessa da una generazione all’altra. Sia i pavimenti sia i soffitti sono " appiccicaticci", per utilizzare una espressione del rapporto Ocse, A broken social elevator: da una generazione all’altra è difficile mutare il livello di istruzione sia in basso sia in alto. Anche a parità di istruzione, tuttavia, conta moltissimo la famiglia da cui si proviene. L’Italia è uno dei Paesi in cui questo è più evidente: il 50% del reddito di un uomo adulto è spiegabile con il reddito che aveva suo padre. È anche uno dei Paesi in cui vi è una forte concentrazione territoriale di condizioni di vulnerabilità economica. Povertà, salari molto bassi, lavoratori con contratti a tempo determinato sono fortemente concentrati nelle regioni del Mezzogiorno. Le stesse dove alle ultime elezioni si è concentrato il voto per il M5S, a fronte della sistematica sottovalutazione di questa situazione da parte dei partiti tradizionali, incluso il Pd, e anche dei sindacati.
Sul fatto che la crescente disuguaglianza e la concentrazione della ricchezza poco o nulla abbiano a che fare con il merito e presentino rischi per la democrazia il consenso è ampio. Più problematico appare il che fare, non solo sul piano delle politiche economiche, ma su quello della politica in senso stretto.
La combinazione di disuguaglianza crescente, disattenzione, quando non responsabilità diretta per la stessa da parte della politica, indebolimento delle forme di organizzazione e identità collettive, hanno prodotto rancore più che coscienza di classe, per utilizzare un termine forse obsoleto. È il terreno fertile per i movimenti di tutti i tipi, ma anche del populismo, con la sua ricerca di capri espiatori e il rifiuto delle mediazioni. Certo è che ignorare l’insopportabilità della disuguaglianza e il rancore che cova in chi se ne sente vittima apre crepe devastanti nella legittimità stessa di un regime che si vuole democratico.

La Stampa 29.10.18
Assia, crollano i socialdemocratici e la Cdu
Trionfano i Verdi, governo Merkel a rischio
Batosta nel Land di Francoforte, l’Spd minaccia lo strappo: “Alleanza inaccettabile”. Vola la destra dell’AfD
di Walter Rauhe


Le elezioni regionali in Germania si trasformano sempre di più in un calvario per la Grande coalizione di Angela Merkel. Dopo quelle in Baviera due settimane fa, anche alle amministrative di ieri in Assia i partiti di governo hanno subito un drammatico tracollo di voti. I cristiano-democratici della Cdu e i socialdemocratici del Spd hanno perso rispettivamente più di undici punti percentuali attestandosi al 27 e al 20%. Volano invece i partiti che nel parlamento federale (Bundestag) siedono sui banchi dell’opposizione.
Nel Land dell’Assia, centro dell’economia e dell’alta finanza, i Verdi hanno ripetuto il successo di due settimane fa in Baviera e hanno conquistato il 19,6% delle preferenze, quasi il doppio rispetto a cinque anni fa. A profittare del malcontento nei confronti del governo di Grande coalizione della cancelliera Angela Merkel è stata anche la destra populista dell’Alternative für Deutschland (AfD) che è rimasta al di sotto delle sue aspettative ma ha ottenuto pur sempre il 13,2% dei voti e sarà presente d’ora in poi in tutti e 16 i Parlamenti regionali tedeschi.
Grande coalizione in bilico
Il destino di Angela Merkel appare a questo punto sempre più incerto. Sempre più esponenti cristiano-democratici attribuiscono a lei la responsabilità principale di questa serie di sconfitte elettorali. Primo tra tutti il governatore uscente dell’Assia Volker Bouffier (Cdu) che ha parlato di un risultato «amaro e umiliante» per il suo partito e di un segnale di avvertimento al governo di Grande coalizione a Berlino che ora «deve finalmente iniziare a lavorare e smettere di litigare». Suona invece un po’ come una minaccia il commento rilasciato ieri dalla leader socialdemocratica Andrea Nahles che ha definito come «inaccettabile» lo stato attuale della Grande coalizione. «Se le cose non cambiano dovremo seriamente domandarci se la nostra permanenza all’interno dell’esecutivo ha ancora senso», ha detto la Nahles venendo parzialmente incontro alle crescenti pressioni da parte dell’ala sinistra del partito che esige invece da tempo l’uscita immediata dalla maggioranza.
Vertice di maggioranza
Contro Angela Merkel è ormai fuoco incrociato. Oggi la cancelliera incontrerà i leader dei partiti di governo per discutere della situazione. Al momento la cancelliera sembra ancora intenzionata a tirar dritto e a proseguire il suo lavoro ignorando il verdetto elettorale in Assia e in Baviera e anche l’allarmante risultato di un sondaggio diffuso sabato dalla seconda rete televisiva Zdf secondo il quale ben il 73% dei tedeschi è insoddisfatto del lavoro svolto finora dalla cancelliera cristiano-democratica.
In Assia per il suo partito poteva andare ancora peggio. Il governatore uscente Bouffier potrebbe perdere il suo incarico alla guida della giunta regionale con i Verdi perché nel nuovo Parlamento non dovrebbe più avere la maggioranza per un soffio.
A livello nazionale i Verdi si profilano sempre di più come forza decisiva per la formazione di maggioranze, come alternativa per gli scontenti e come nuovo partner «ideale» per il centro-destra.

Corriere 29.10.18
La Sconfitta in Assia
Declini paralleli di Merkel e Spd
di Paolo Valentino


Il voto dell’Assia infligge un’altra dura sconfitta alla Cdu, che resta comunque il primo partito, e indebolisce la Merkel. Meno dieci punti per la coalizione con la Spd. In forte ascesa l’estrema destra di Afd.
BERLINO L’Assia infligge un’altra, dura sconfitta alla Cdu della cancelliera Angela Merkel e ai suoi alleati della Spd. Ma se l’Unione cristiano-democratica rimane tuttavia il primo partito e continuerà in qualche modo a governare il Land, i socialdemocratici subiscono un tracollo storico scendendo addirittura sotto la barra del 20%, il peggior risultato del Dopoguerra. Come in Baviera due settimane fa, la crisi dei due partiti popolari beneficia i Verdi, che registrano una nuova avanzata. In forte progressione anche l’estrema destra di Afd, per la prima volta nel Parlamento regionale. In crescita sia i liberali della Fdp, che la sinistra antagonista della Linke.
Se il terremoto di Wiesbaden non ha la stessa intensità di quello bavarese di due settimane fa, nondimeno il suo sciame sismico si farà sicuramente sentire anche a Berlino. La notizia peggiore per la Grosse Koalition di Angela Merkel viene non dal partito della cancelliera, ma dalla conferma della crisi esistenziale che rischia di travolgere la socialdemocrazia e comunque farà aumentare dentro la Spd la pressione a chiamarsi fuori dal patto di governo.
Secondo le prime proiezioni, la Cdu, che dal 2013 ha governato l’Assia insieme ai Verdi, è poco sopra il 27%, un calo di oltre 11 punti rispetto al 38,3% di cinque anni fa. La Spd scende addirittura dal 30,7% del 2013 al 19,6%, la stessa percentuale attribuita ai Verdi che avevano l’11,1%. Dal 4,1% l’Afd è ora intorno al 12,8%, ma soprattutto con l’Assia completa il grande slam ed è ora rappresentata in tutti i Parlamenti regionali della Germania. La Fdp passa dal 5% a quasi l’8%, la Linke dal 5,2% al 6,4 %.
In base a questi risultati, l’alleanza più probabile, forse la sola possibile nel Landtag è una coalizione «Giamaica» nero-verde-giallo tra Cdu, Grünen e Fdp, ancora sotto la guida di Volker Bouffier, il fedelissimo di Angela Merkel che pur nella sconfitta avrebbe centrato l’obiettivo di rimanere ministro-presidente dell’Assia. I Verdi sarebbero tuttavia in posizione di forza e rivendicherebbero più spazio nelle politiche e nel personale di governo.
«Un risultato storico - ha detto la leader nazionale dei Grünen, Annalena Baerbock -, l’Assia non è mai stata così verde come oggi». «Una sconfitta amara, una giornata difficile», ha ricordato Thorsten Schaefer-Guemble, il candidato della Spd. Bouffier può consolarsi, pur ammettendo la gravità della bocciatura, ricordando che «la Cdu resta primo partito».
Ma è nella capitale che da oggi si gioca la partita vera, iniziata due settimane fa in Baviera e proseguita in Assia. Tragica per la leader socialdemocratica Andrea Nahles, la situazione è seria per Angela Merkel. Le prime analisi del voto dicono che il tentativo della cancelliera di venire in soccorso della Cdu locale, impegnandosi in prima persona nella campagna, non è servito. Segno che il suo brand non funziona più, neppure in un Land con forte tradizione cristiano-democratica. E questo non chiude del tutto la questione se al congresso di Amburgo, in dicembre, Merkel sarà rieletta presidente o se farà un passo indietro in favore della sua protégé, Annegret Kramp-Karrenbauer, attuale segretario generale. Già ieri sera, alcune voci di deputati di seconda fila si sono levate per chiedere «un rinnovamento» della Cdu, che ha bisogno di «contenuti, percorso chiaro e nuove persone».
Quasi irrisolvibile il «che fare?» di Andrea Nahles. «Lo stato del governo è inaccettabile», ha detto la leader Spd, che ha legato il declino del suo partito alle «continue crisi interne» della Grosse Koalition. Nahles ha annunciato che proporrà alla Cdu una road map «chiara e vincolante» fino al prossimo autunno, quando è già in programma una verifica. «Vedremo allora se noi in questo governo siamo al posto giusto». E’ un piano ottimista, un anno è lungo e il tempo non è dalla parte della Spd, che d’altra parte allo stato attuale non avrebbe né i programmi, né i leader, né i soldi per affrontare nuove elezioni.

Repubblica 29.10.18
Intervista allo scrittore ebreo-statunitense Nathan Englander
"Violenza, paura, razzismo dietro l’odio di Pittsburgh c’è un’America al collasso"
di Anna Lombardi


Di che cosa stiamo parlando
Sabato mattina, durante la preghiera dello Shabbat, un uomo poi identificato come Robert Bowers, 46 anni, è entrato all’interno della sinagoga Tree of Life di Pittsburgh armato di fucile automatico e pistole e ha fatto strage di fedeli uccidendo 11 persone e ferendone altre sei. Il più grave attacco antisemita della storia d’America è avvenuto a dieci giorni dalle elezioni di midterm in un clima di avvelenata campagna elettorale.

NEW YORK Ero a Pittsburgh, proprio nel quartiere dov’è avvenuta la strage, solo il giorno prima. Ho passato l’intero sabato sera a cercare di capire se le persone che ho conosciuto lì erano vive: sono sconvolto». La voce di Nathan Englander s’incrina. Lo scrittore newyorchese, 48 anni, che ha raccontato al grande pubblico l’esperienza ebraico-americana in libri come Il ministero dei casi speciali e Di cosa parliamo quando parliamo di Anna Frank, è appena atterrato a New York per prendere una pausa dal tour del suo ultimo romanzo, Una cena al centro della Terra, in Italia pubblicato da Einaudi. «Dopo quel che è successo avevo bisogno di tornare dalla mia famiglia».
L’attacco di Pittsburgh è il più devastante mai compiuto verso la comunità ebraica d’America.
Cosa sta risvegliando l’antisemitismo?
«In America l’odio antiebraico c’è sempre stato. Mia madre, convinta che ci sarebbe stato un nuovo Olocausto, ci ha cresciuti nella paura: anche se vivevamo a Long Island, New York. Ricordo bambini in bici sotto la nostra finestra che inneggiavano a Hitler.
L’umiliazione della svastica disegnata sulla nostra porta una mattina di Halloween. Le volte che ho fatto a botte reagendo agli insulti. Oggi le cose sono cambiate: i giovani indossano senza paura i simboli della fede. Ma dopo il balzo progressista che la società americana ha fatto con Barack Obama oggi c’è chi vorrebbe fare 20 passi indietro».
Le elezioni imminenti contribuiscono al clima di odio?
«Ieri Donald Trump, che non si è nemmeno preso la briga di sospendere per qualche ora la campagna elettorale, ha condannato violenza e antisemitismo. Ma subito dopo ha attaccato i democratici facendo i nomi di Hillary Clinton ed Elizabeth Warren: persone a cui un suo sostenitore ha mandato bombe solo tre giorni fa. Le ha trasformate in obiettivo di odio. E questo è irresponsabile»
Ecco: 14 pacchi bomba ad altrettanti leader democratici, 11 morti a Pittsburgh. E in Kentucky un bianco ha tentato di irrompere in una chiesa afroamericana dopo aver ucciso due neri. Che cosa sta succedendo in America?
« L’America è arrivata al collasso.
Quando si incita alla violenza è questo che succede. L’odio non viene dal nulla. E si somma all’emergenza nazionale legata alla diffusione delle armi. Un problema che c’è sempre stato ma che si aggrava man mano che le armi diventano più moderne».
Il killer non era un sostenitore di Trump, anzi: lo accusava di essere amico degli ebrei…
«Ormai ciascuno ha la sua narrativa a secondo del canale che segue o del social che frequenta.
C’è molta confusione riguardo a quel che fa Trump. All’interno alleato con suprematisti e neonazi. Ma amico di Israele quando si tratta di politica estera. La confusione c’è anche nella comunità ebraica americana: divisa fra chi sostiene Trump per il riconoscimento di Gerusalemme e chi lo teme per quel che disse un anno fa dopo la marcia dei suprematisti a Charlottesville».
Prima della strage quell’uomo aveva farneticato su un’invasione di migranti alle porte.
«Anche per questo dobbiamo cambiare narrativa. Pittsburgh non è solo un attacco antisemita. È un attacco a cittadini americani di fede ebraica. Una delle tante comunità sotto attacco. La mia famiglia è in America da cinque generazioni: più di quella di Trump. Sono attacchi all’America. E partono dal vertice: da chi contribuisce con le sue parole a propagare quell’odio che poi le semplificazioni dei social trasformano in radicalismo».
Trump ora invoca la pena di morte.
«Un modo per far passare quella gente come pazzi isolati. Una negazione della realtà come quella che la diffusione delle armi non c’entra. Ma come può essere normale che il killer avesse legalmente 21 pistole a nessuno lo controllava?».
Lei ha vissuto a lungo in Israele: dove, ha raccontato, si convive talmente con la paura da accettarla come parte normale della vita. Accadrà anche qui?
«Ieri mi ha scritto un parente da Gerusalemme per chiedermi se stavo bene. Di solito sono io a mandargli quel tipo di messaggi, mi ha colpito. Ma ormai anche da noi nei luoghi di culto, nelle scuole, la gente impara come mettersi in salvo in caso di attacco armato».
Dov’era in quelle ore terribili?
«Al Jewish Book Festival di Rochester. Presidiato dalla polizia come non avevo mai visto. Se fosse stato un evento solo mio lo avrei cancellato. Abbiamo cercato di trasformarlo in un momento per stringerci e riflettere. Quello a cui assistiamo è un rigurgito di antisemitismo, certo. Ma radicato in un clima di odio che riguarda tutti».
Il sangue di tanti innocenti peserà sul risultato del voto?
«Non voglio pensare a quelle vittime in chiave elettorale. Io voterò. E spero che tanti lo faranno. Scegliendo valori di tolleranza ed empatia. Per tornare a essere una democrazia funzionale, dove non ci si accusa reciprocamente. Non si vive nel terrore che aveva mia madre. Dove davanti a qualcosa di terribile la gente è unita. Più forte della paura».

Repubblica 29.10.18
La strage di Pittsburgh
L’uomo bianco semina l’odio
di Vittorio Zucconi


E arriva il giorno nel quale si scopre che il nemico siamo noi e contro di noi siamo disarmati. In 72 ore della scorsa settimana, " bravi ragazzi" bianchi e americanissimi fanno strage di americani bianchi e americanissimi come loro in una sinagoga di Pittsburgh, abbattono a freddo due clienti afroamericani in un supermarket del Kentucky, spediscono lettere bomba a personalità ed ex presidenti del Partito democratico e non ci sono alibi di fanatismo religioso, ombre di diabolici sceicchi, complotti di servizi deviati per spiegare. C’è soltanto il frutto sanguinoso dell’albero dell’odio, che torna rigoglioso, concimato dal cinismo del nazional- populismo razzista.
Non ci sono risposte militari o poliziesche capaci di fermare il terrorista fra di noi, perché nessuno di questi stragisti che fanno massacri da un hotel di Las Vegas, che irrompono in una chiesa di Charleston e uccidono nove fedeli di colore, che falciano almeno undici vite in una sinagoga per punire gli ebrei « che finanziano e profittano dall’immigrazione clandestina», sono i vicini, i commessi dei negozi, i militanti ai comizi. Uomini, sempre uomini per ora, che vivono al confine sottilissimo fra la passione politica e la patologia mentale, oltre il quale li spinge la predicazione del suprematismo razziale e della demonizzazione dei diversi da loro.
Il solo antidoto efficace, anche se non istantaneo, non sono le guardie armate che Donald Trump vorrebbe piazzare in ciascuno dei 350 mila luoghi di culto, chiese, moschee, sinagoghe, aperti negli Stati Uniti, trasformando istituzioni di accoglienza e di fraternità per definizione in campi armati, tra giaculatorie e Kalashnikov. Non si possono pattugliare miliardi di farneticazioni scritte sui social network, dove spesso il " nostro" terrorista esterna il proprio odio, perché sarebbe fisicamente impossibile interrogare di persona i milioni di individui che esprimono i propri rancori in un momento di ira.
L’antidoto si trova al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, alla Casa Bianca, dove risiede per almeno quattro anni la persona alla quale la nazione affida, in una funzione insieme amministrativa e mistica, la cura dell’unità nazionale e della coesistenza fra culture ed etnie diverse incardinata nella Bibbia laica, la Costituzione. Ma in questo 2018, l’antidoto è divenuto il veleno. E il custode del tempio dell’American religion è quel Trump che ha fatto del settarismo più sfacciato lo strumento del proprio successo. Il candidato incendiario, che ha messo a ferro e fuoco gli avversari invocando cori di «mettetela in galera» contro la sua avversaria, che usa espressioni staliniane definendo la libera informazione «nemici del popolo», non risulta molto credibile quando si presenta come infermiere nella settimana di sangue.
Non è stato certamente Trump a seminare la pianta dell’odio suprematista né della violenza politica, che non è affatto nuova né sconosciuta nella storia di una repubblica che ha visto, e continua a vedere, il ribollire di tentazioni violente. Gli Stati Uniti come li conosciamo oggi nascono, dopo la rivoluzione e l’indipendenza, da un bagno di sangue fratricida che costò 650 mila vite e impedì la secessione. Il rifiuto dell’eguaglianza razziale produsse il Ku Klux Klan e migliaia di linciaggi e assassinii, come la rivolta armata era l’ideale delle Black Panther e il dissenso politico a volte è a portata di mano come il fucile Mannlicher- Carcano imbracciato da Lee Harvey Oswald, Né è prerogativa della destra, essendo stato un fan di Bernie Sanders l’uomo che sparò due anni or sono al deputato repubblicano Scalise, mentre giocava a baseball.
Ma quando il culto del nazionalismo diventa l’instrumentum regni, quando la nostalgia per un’America bianca ed etnicamente omogenea dove gli immigrati sono "stupratori e spacciatori" e i neri sono "mangiatori a sbafo" esce dai saloon e dalle roulotte dove viveva uno dei terroristi ed entra alla Casa Bianca, la violenza si sente legittimata, il razzismo si fa linea politica mainstream. E il Presidente perde quella funzione rassicurante che nei momenti più tragici dovrebbe assumere. Il «rimboccare le coperte dell’America al momento di dormire», come diceva Ronald Reagan, che sapeva muoversi fra la politica di parte e il ruolo semi paterno del Capo della nazione.
Trump non ha inviato bombe o tirato raffiche in sinagoga. È prigioniero della trappola che è stata la rampa di lancio del suo successo, quella del populismo del rancore oggi rampante ovunque, della collera degli sconfitti che bevono la predicazione violenta contro gli " altri", causa di tutti i loro mali, gli immigrati, i non bianchi, i "vermi" progressisti, i negatori della ( mia) vera fede, i gay, gli immancabili ebrei alfa e omega del razzismo, ma quando arrivano al governo scoprono che gli " altri" esistono. Che non sono stati cancellati con qualche scheda elettorale. Che il nuovo pontefice laico deve governare anche per loro e non si può amministrare una nazione "contro" l’altra metà.
I pazzi non sono coloro che impugnano le armi o spediscono ordigni, perché nella loro azione c’è il segno della coerenza: se l’avversario è il "Male", come disse Trump, il Male va soppresso. Il pazzo, o meglio l’irresponsabile, è colui che scioglie i cani rabbiosi dell’odio e del fanatismo e poi si meraviglia se non tornano più docili a cuccia.

La Stampa 29.10.18
Con la carovana di migranti in fuga da violenze e miseria
“Non siamo terroristi”
In diecimila partiti dall’Honduras si dirigono a piedi verso Città del Messico La meta sono gli Stati Uniti: “Non abbiamo paura dell’esercito di Trump”
di Paolo Mastrolilli


«I mafiosi volevano il pizzo dal mio negozio, ma io non avevo più i soldi per pagarli. Allora un giorno sono entrati e hanno sparato a mia moglie Marta, che stava al bancone. Sei colpi in faccia, per sfigurarla».
E poi? «Durante il funerale sono venuti da me, e mi hanno detto: “Julio, questo è solo l’inizio. Se non paghi, la prossima volta tocca ai tuoi figli”. Così, quando ho saputo della carovana, ho raccattato quattro cose e sono scappato a piedi con i miei bambini».
La storia che Julio Garcia mi racconta davanti al municipio di San Pedro Tapanatepec, dopo aver camminato per oltre mille chilometri dal Guatemala fino allo Stato messicano di Oaxaca, è uguale a tante altre che senti dai disperati della carovana in viaggio verso gli Stati Uniti. Una sfida politica a Trump, senza dubbio, magari anche un po’ manovrata, ma certamente il grido di dolore di una regione arrivata davanti ad un punto di non ritorno.
La carovana è partita circa un mese fa in Honduras, e lungo la strada ha raccolto poveracci da Guatemala, Nicaragua, Salvador e altri Paesi dell’America Centrale. Bartolo Fuentes, un politico honduregno di sinistra, ha ammesso di averla organizzata, ma non può dipendere tutto da lui. L’amministrazione Trump sospetta il Venezuela di averla finanziata, e persino i democratici, che però così si sarebbero sparati nei piedi, rilanciando l’emergenza delle migrazioni proprio alla vigilia del voto Midterm del 6 novembre. Il presidente poi, senza fornire prove, ha detto che in questo esodo di circa diecimila persone «si nascondono dei mediorientali», cioè presunti terroristi che sperano di penetrare gli Usa infiltrandosi tra gli stremati in cerca di asilo.
Per raggiungere la carovana parto da Tapachula, la cittadina al confine col Guatemala dove i migranti hanno attraversato la frontiera. La polizia messicana al principio ha cercato di fermarli, ma poi ci ha rinunciato. Percorrendo in auto gli stessi trecento chilometri che loro hanno fatto a piedi, tra le montagne del Chiapas che un tempo erano il regno della guerriglia zapatista del Subcomandante Marcos, incontro almeno sette posti di blocco fissi di polizia ed esercito. In tre vengo fermato e fotografato, mi chiedono i documenti e dove vado. In altre parole, se il presidente Peña Nieto avesse voluto bloccare la carovana avrebbe potuto, ma ha scelto di non farlo. Primo, perché non voleva scontri che avrebbero infangato l’immagine del suo Paese; secondo, perché non ritiene di poter negare il diritto delle persone a spostarsi, emigrare, cercare una vita migliore. Quindi ha proposto il programma «Estas en Tu Casa», che offre permessi di lavoro temporanei e assistenza ai migranti che restano in Messico, negli Stati di Chiapas e Oaxaca. Meno di mille hanno accettato, e ancora meno sono tornati indietro.
Julio Garcia spiega perché il compromesso è impossibile: «Ma come fa Trump a dire che noi siamo gli invasori? Con tutto il rispetto, suo nonno è immigrato illegalmente dalla Germania un secolo fa, mentre la mia famiglia vive in America da quando abbiamo memoria». Lui conosce queste dinamiche perché è cresciuto a Los Angeles: «Guidavo i camion, ma una volta mi hanno beccato che avevo bevuto. Allora sono tornato in Guatemala per farmi una famiglia. Ho una bambina e un bambino di un anno e tre mesi. Gestivo con mia moglie un negozio che vendeva biancheria di Victoria’s Secret, fino a quando non l’hanno ammazzata».
Juan Rodriguez è venuto a piedi dall’Honduras, portando la moglie e il figlioletto Jonathan di un anno. Ma perché esporre un bambino a rischi così grandi? «Nel mio Paese - risponde - gli unici posti di lavoro disponibili sono quelli con i trafficanti di droga. La violenza governa. Non ne potevamo più, non c’erano alternative a fuggire». Juan storce la bocca, quando gli ricordo che Trump accusa i narcos di aver infiltrato la carovana: «Ma vi sembra possibile che per consegnare le loro dosi facciano duemila chilometri a piedi? Dai, solo un disperato fa come me».
Jeff Valenzuela, leader dell’organizzazione Pueblo Sin Fronteras, smonta invece il sospetto dei mediorientali: «Giuro di non aver visto neppure un musulmano, da quando ho iniziato a accompagnare la marcia. Ma poi non avrebbe alcun senso. Vi pare che i terroristi, dopo aver addestrato uno di loro per una missione negli Usa, lo mettano a rischio facendolo andare a piedi per duemila miglia verso il confine? Sperando cosa? Di entrare nascosto tra la gente di una carovana che sta attirando l’attenzione di tutto il mondo?». Sulla storia dei criminali, invece, il portavoce Alejandro Martinez del Nicaragua ha una sua teoria: «Alcuni sono pagati per infiltrarsi, creare problemi, e metterci in cattiva luce. Ieri sera, per esempio, si è diffusa la voce che un ragazzo aveva cercato di rapire un bambino. C’è stata una rissa, ma non era vero. Intanto però noi abbiamo fatto la figura dei delinquenti».
Nessuno dice chi ha organizzato la marcia, e tutti giurano che è stata spontanea. Infatti un’altra si è già messa in cammino dal Guatemala ed è arrivata al confine. Molti gruppi però la stanno accompagnando, un po’ per aiutarla, e un po’ per usarla a scopi politici. Jeff Valenzuela giura che «noi siamo tutti volontari e nessuno ci paga. Pueblo Sin Fronteras è un’associazione che ha sede negli Usa e in America Latina, nata con lo scopo di aiutare i migranti. Non rivendichiamo di aver organizzato la carovana, ma la sosteniamo». Poi ci sono i rappresentanti dell’Ufficio per i diritti umani del governo messicano, e i volontari della Secretaria de Salud, come il medico Manuel: «Forniamo l’assistenza sanitaria a chi ne ha bisogno. Le patologie prevalenti fra i membri della carovana sono fratture, ferite, malattie respiratorie e problemi gastrointestinali». Il sole poi brucia dalla mattina alla sera, sulle montagne verdi tra Chiapas e Oaxaca, e quindi «dobbiamo garantire che i bambini siano idratati. Altrimenti si muore». Il cibo, invece, lo dona la gente dei villaggi attraversati: tacos, tamales, quello che c’è sulle tavole delle loro case.
Poco prima di mezzogiorno si riunisce il comitato che decide le prossime mosse, e Martinez annuncia: «Domattina alle tre ci rimettiamo in marcia, per andare a Santiago Nilpetec», un paesino circa cinquanta chilometri a Nord di qui. Valenzuela spiega: «L’obiettivo è arrivare a Città del Messico, per una discussione con il governo riguardo le politiche dell’immigrazione e l’accesso al confine con gli Stati Uniti. Alcuni forse accetteranno le offerte di asilo messicane. Gli altri poi decideranno se proseguire verso la California, l’Arizona o il Texas».
Julio Garcia non teme i soldati che Trump minaccia di mandare alla frontiera: «E cosa faranno? Al massimo ci spareranno addosso. Ma questo già succede a casa nostra con i mafiosi, e quindi non abbiamo nulla da perdere a provarci». Julio poi aggiunge in perfetto inglese: «Sono cresciuto in California, e capisco che il presidente usa la nostra carovana a scopi politici, per mobilitare la sua base in vista delle elezioni Midterm con la paura dei migranti. Ma io ero uno di loro, e intorno a me vedo solo poveracci in cerca di una vita decente. Riuscirà Trump a resistere a tutte le pressioni interne e internazionali, quando noi arriveremo al confine? Magari allora ci penserà il Canada a salvarci, e gli Stati Uniti faranno di nuovo la figura mondiale del paese fatto di immigrati, ma senza cuore verso i migranti, come è già successo quando hanno internato i bambini separati dai loro genitori alla frontiera. Quanto durerà Trump, così? Fino a quando la maggioranza degli americani continuerà ad appoggiarlo, capendo che non c’è alcuna minaccia da parte nostra? Non siamo né terroristi, né narcotrafficanti, né stupratori, tranne qualche criminale pagato per rovinare la nostra immagine. Poveri sì, ma persone decenti che vogliono solo lavorare onestamente, per dare alle loro famiglie un futuro. Come tutti i cittadini americani, che in un modo o nell’altro sono tutti figli o nipoti di immigrati illegali, incluso Trump. Lui si comporta in maniera crudele contro persone che cercano un’esistenza migliore, perché così guadagna voti. E vuole anche ridurre l’immigrazione legale, quando gli Usa ne avrebbero bisogno». Maria Ramirez, portavoce di un gruppo di donne partite dall’Honduras, stringe la «Sacra Biblia» e abbraccia sua figlia: «Dateci un percorso legale per entrare, e vi dimostreremo chi siamo. Oppure aiutateci a contrastare violenza e povertà nei nostri Paesi, e resteremo. Ma dite a Trump che stiamo solo inseguendo il nostro sogno».

Il Fatto 29.10.18
Gentile: il pavido tentativo di salvare Paul Kristeller
Alle preoccupazioni del 28enne tedesco già fuggito dal nazismo il professore replicava: “Vi esorto a non pensarci troppo”. Ma gli dispiaceva
Gentile: il pavido tentativo di salvare Paul Kristeller
di G. Me.


“Carissimo, ho parlato giorni addietro a Gabetti di un valentissimo giovane, il Dott. Cristaller [sic] che accetterebbe volentieri un lettorato tedesco in Italia. (…) È ebreo, ma appoggiatissimo da Heidegger, di cui è allievo”. È il 2 ottobre 1933, mancano cinque anni alle leggi razziali ma – con buona pace del partito “non volevano ma Hitler…” – essere ebreo in Italia è già un dannato problema. Paul Oskar Kristeller ha 28 anni e ha lasciato la Germania: uno dei primi atti del nazismo è cacciare gli ebrei dall’Università. È un raffinatissimo studioso di filosofia. È ebreo ma bravo. Cinque anni dopo sarà bravo ma ebreo. Il professor Ernesto Codignola segnala il giovane al suo maestro Giovanni Gentile che se lo prende alla Scuola Normale di Pisa, di cui è direttore. Gentile è un fascista della prima ora, ministro dell’Istruzione e artefice della riforma della scuola. Un grande intellettuale che naviga nella dura realtà politica. Non condivide le teorie razziste ma tace. Aderirà alla repubblica di Salò e nel 1944 sarà ucciso da partigiani comunisti.
Kristeller, secchione patologico, a Pisa sembra felice. “Posso constatare, non senza commozione, che il suo paese mi dà un’ospitalità e un aiuto amichevole che mi ha rifiutato la mia propria patria”, scrive a Gentile, ma forse è solo diplomazia. Un collega della Normale, Luigi Baccolo, lo intuisce: “Tutti vedevamo nascere l’alba di una nova epoca, ma solo Kristeller vedeva il sangue di quell’alba”. Si prepara per Kristeller un nuovo esilio, e Laura Grazioli, studentessa di chimica alla Normale, ricostruisce la sequenza drammatica di paura e vigliaccheria.
Gentile incita Kristeller a ottenere la cittadinanza italiana, va a Roma per intercedere presso il Duce che gli dice no. Il 14 luglio 1938, viene pubblicato il Manifesto della razza. Kristeller è angosciato: “Sono parecchio preoccupato per ciò che leggo adesso sui giornali, Vi sarei grato di sentire il vostro parere in proposito”. Il filosofo dell’attualismo minimizza: “Vi esorto a non pensarci troppo”. Ma al vicedirettore della Normale Gaetano Chiavacci scrive: “Vedi come cresce la marea antisemita? Mi dispiace pel povero Kristeller”. Ad agosto l’editore Sansoni respinge la monografia di Kristeller su Marsilio Ficino perché è arrivato il divieto di pubblicare autori ebrei. Chiavacci pone a Gentile la questione delle teorie razziali: “Dovremo assistervi passivi?”. Gentile risponde con l’attualismo. Il 29 agosto ottiene udienza da Mussolini, gli chiede di chiudere un occhio sul filologo ebreo. Si illude. Scrive trionfante: “Per intanto Kristeller non si tocca. Ho parlato anche con Mussolini”.
Ma arrivano le leggi razziali. L’8 settembre Gentile scrive al Duce: “Eccellenza, nel colloquio che lunedì scorso Vi compiaceste di accordarmi, mi diceste di non toccare a Pisa il Kristeller. Questi invece mi pare ricada sotto il decreto di ieri, che espelle dal Regno tutti gli stranieri di razza ebraica (…). Vi prego vivamente, per mia norma, di farmi sapere se posso o no trattenere, e nel caso positivo in che modo, questo povero diavolo come lettore di lingua tedesca nella Scuola Normale Superiore. Vogliate scusarmi. Vostro Giovanni Gentile”. Gli risponde il sottosegretario all’Interno Guido Buffarini Guidi, pisano: “In relazione alla lettera da Voi diretta al DUCE in data 8 settembre u.s., Vi comunico che, giusta Superiori disposizioni, è stato consentito al Prof. Kristeller, israelita straniero, di risiedere in Italia fino alla scadenza del termine massimo stabilito dal R.D.L. 7.9.1938, n° 1381. Il DUCE, inoltre, ha disposto che al medesimo venga elargita la somma di L. 5000 per metterlo in condizione di sostenere più agevolmente le spese di trasferimento”. Kristeller va in America. Gentile pensa alla Normale e cerca un docente che lo sostituisca. Scrive a Codignola: “Spero bene che non sia né israelita, né antinazista. Mi premerebbe avere un altro Kristeller, ma senza il punto nero che mi diede sempre tanto da fare”. Kristeller se ne va col suo punto nero a insegnare alla Yale e alla Columbia. Morirà a 94 anni lasciandoci una negazione quasi beffarda dell’attualismo gentiliano: “Il passato resta reale anche dopo che è scomparso dalla scena. È compito dello storico tenerlo vivo e dare giustizia anche a sconfitti e dimenticati”.

Il Fatto 29.10.18
Gli studenti di Pisa ricostruiscono le vite dei prof ebrei nel ’38
La Sant’Anna e la Normale si sono messe alla ricerca della memoria perduta: i venti docenti cacciati da Mussolini per la difesa della “razza ariana” nei lavori degli allievi di oggi
di Giorgio Meletti


Giulio Racah è un genio della fisica. Nel 1937, a 28 anni, va in cattedra all’Università di Pisa. Scrive al rettore Giovanni D’Achiardi: “Di famiglia toscana, e attaccato alle glorie della tradizione toscana, mi sento particolarmente fiero della nomina”. Pochi mesi dopo D’Achiardi lo sospende dall’insegnamento “ai sensi” del Regio Decreto 5 settembre 1938, n. 1390 “sulla difesa della razza”. Racah si crede fiorentino ma il fascismo lo classifica ebreo. Se ne va alla Hebrew University di Gerusalemme con quattro lettere di raccomandazione firmate da (in ordine alfabetico): Niels Bohr, Albert Einstein, Enrico Fermi e Wolfgang Pauli. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Bottai festeggia la bonifica degli atenei: “Da questa improvvisa amputazione né la scienza, né l’insegnamento soffriranno; rapidamente i vuoti saranno colmati, forze tenute lontane fino ad oggi avanzeranno finalmente sulla strada sgomberata”.
Prima gli ariani? Sì, ma dura poco. Dopo la guerra il nuovo rettore Augusto Mancini chiede a Racah di tornare. Riceve un fermo no: “Il mio posto di lavoro è oggi qui, per cooperare alla ricostruzione del Paese che mi accoglieva a braccia aperte nel 1939”.
La memoria è spietata e necessaria. La storia di Racah è stata ricostruita da Simona Grazioli, studentessa di biotecnologie alla Scuola Superiore Sant’Anna. Michele Emdin, docente di cardiologia, ha proposto agli studenti della Sant’Anna e della Normale di studiare la storia dei venti professori ebrei che nel 1938 furono cacciati da Pisa: “I protagonisti ormai vengono a mancare e dobbiamo trasferire il testimone del ricordo ai giovani, in particolare agli allievi delle due scuole di eccellenza”. Sotto la guida degli storici professionisti Michele Battini, Barbara Henry e Ilaria Pavan, gli studenti si sono sottoposti a una terapia maieutica, scoprendo il senso spaventoso del razzismo dalle proprie indagini anziché da un professore. E riproponendo – in una intensa giornata di studio voluta dalle tre Università pisane – il variopinto mosaico di una storia vergognosa.
Purtroppo è tornato di attualità il bisogno di rimarcare che gli ebrei, come gli immigrati, non sono alieni. Michele Pajero, studente di scienze politiche, ricorda che Piero Sraffa (l’amico di Antonio Gramsci a cui si deve il salvataggio dei Quaderni del carcere), già nel 1932 cominciava a sentire una brutta aria: “Oggi, o si è ebrei, o non lo si è – non c’è via di mezzo”. Primo Levi ha consolidato il concetto: “Se non ci fossero state le leggi razziali e il lager, io probabilmente non sarei più ebreo, salvo che per il cognome. Invece questa doppia esperienza, le leggi razziali e il lager, mi hanno stampato come si stampa una lamiera”.
Naftoli Emdin, nonno di Michele, allontanato nel 1938 dal suo insegnamento di medicina legale, se l’è studiato Vincenzo Castiglione. Originario di Gomel (nell’attuale Bielorussia), si forma a San Pietroburgo, si ammala di tubercolosi, cerca di spostarsi a Mosca ma gli viene vietato perché è ebreo, finisce al sanatorio di Nervi e poi a Pisa dove si laurea in medicina, si sposa con una ragazza toscana e insegna all’Università. Il 5 settembre 1938 Vittorio Emanuele III firma la prima delle leggi razziali nella tenuta di San Rossore, appena fuori Pisa. Emdin deve spiegarle a Ruben di 15 anni e Rafael di 13, due ragazzi pisani e però ebrei. Scrive ai figli una lettera sulla paura, sulla dignità e sulla loro patria, l’Italia: “Non vorrei che questo smarrimento e questa angoscia lasciasse in voi quel senso d’inferiorità ch’è così molesto, doloroso e dannoso e che potrebbe pregiudicare la regolarità e la dirittura del vostro cammino su quella via della vita che per noi è sempre stata difficile e che ora minaccia ad essere ancora più difficile in Italia per la vostra generazione (…) Dignità ci vuole e non il rancore, forza e non l’odio (sono i deboli quelli che si fanno comandare dal solo odio) (…) Camminate sulla vostra strada (…) amando chi vi ama, commiserando chi sputa su di voi la sua bava velenosa, ripagando con riconoscenza ed affetto la Terra che vi ha dato i natali e gli uomini che vivono accanto a voi, anche se oggi li dicono di razza differente”. Emdin cerca di rifugiarsi in America ma non ci riesce e vivrà gli anni della guerra praticamente alla macchia. Ma quasi gli è andata bene, e invecchierà a Pisa.
Le leggi razziali non sono state solo una questione di cattedre universitarie tolte alla razza inferiore e date a professori ariani che non le restituiranno neppure dopo la caduta del fascismo. La squadra del cardiologo Emdin (tra loro anche Silvia Barbiero, Chiara Borrelli, Lorenzo Mangone e Giorgio Motisi, con Davide Guadagni dell’Università di Pisa in regia) ha fatto i conti con la storia di Bruno Paggi, grande chirurgo originario di Scansano (Grosseto), che lascia a Pisa moglie e sette figli e vive per dieci anni in Venezuela commerciando carburanti.
Lo studente Alberto Aimo ha ricostruito la tragica parabola di Ciro Ravenna. Le leggi razziali lo abbattono alla vigilia del cinquantesimo compleanno. Originario di Ferrara, come molti ebrei è anche un buon fascista. Ha partecipato da volontario alla Grande Guerra. Dal 1924 è professore ordinario e direttore della prestigiosa Scuola agraria pisana, dal 1932 è iscritto al Partito nazionale fascista. È anche abbonato sostenitore del giornale pisano Idea fascista. Chiede di limitargli le restrizioni delle leggi razziali per i suoi meriti di guerra e di buon fascista oltre che per le indubbie benemerenze scientifiche. Ma la contabilità fascista gli mette in conto l’essere celibe e senza prole. Torna a Ferrara dove campa con lezioni private e insegnando nelle scuole ebraiche. Il 15 novembre 1943 viene arrestato dalla polizia di Salò.
All’inaugurazione dell’anno accademico 1945-46 il rettore Mancini dedica a Racah, Kristeller, Ravenna e gli altri il pensiero imbarazzato di un corpo docente pavido, compattamente pavido sulla scia del suo guru accademico, Gentile: “Un ricordo particolare, poiché di essi, quasi vitandi, non era lecito parlare, è dovuto a quei colleghi che furono allontanati dall’insegnamento per motivi razziali”. Furono materialmente allontanati dai colleghi. Comunque Mancini cerca notizie di Ravenna e in pochi mesi le ottiene. Il sindaco di Ferrara gli scrive che “il Prof. Ciro Ravenna e familiari sono stati deportati in Germania e del Professore non si hanno avuto più notizie”. Pisa ha dedicato a Ciro Ravenna una stradina periferica. Sotto il suo nome, su un targa arrugginita, c’è scritto “agronomo”. Sulla memoria c’è molto da fare. Siamo solo all’inizio.

Il Fatto 29.10.18
La lezione più bella di Nicolini, il docente che riempiva le piazze
Un libro e un film ricordano la sua “Estate romana” degli anni 70 e 80
di Furio Colombo


La Facoltà di Architettura dell’Università di Roma Tre ha finalmente dedicato un’aula al nome e alla memoria di Renato Nicolini, che vi ha insegnato poco (la cattedra romana gli è arrivata tardi, Nicolini è stato a lungo docente ordinario a Reggio Calabria) ma ha lasciato molto, molto più di altri docenti considerati “maestri”. Adesso un libro importante (Un romanzo d’architettura del 1934 a Roma, Libria Editore) e un film molto bello di Nicolini che narra (non ancora disponibile in dvd) hanno celebrato l’evento. Molti lettori non avranno incontrato prima d’ora il mondo immensamente creativo di Nicolini. Per molti di più, specialmente fra i non giovani, il nome evocherà il ricordo gradevole di una iniziativa nota non nel mondo come “l’Estate Romana” (anni 70-80 dell’Era post Sessantotto). Non vivevo a Roma in quegli anni, ma è stato il poeta americano LeRoi Jones (che aveva appena cambiato il suo nome “anglo” con il nome africano di Amiri Baraka, ed era reduce da una serie di letture delle sue poesie e del suo teatro in piazze romane gremite di ragazzini) a raccontarmi la sua “esperienza” (la cultura per le strade come una festa) e a chiedermi “But who is that guy, Renato Nicolini? Come gli riesce di far nascere eventi di cultura che riempiono piazze e strade con poesie e cinema, come in nessun altro Paese?” Gli scritti e conversazioni e annotazioni di Nicolini raccolte in questo libro (mentre lui era assessore alla cultura del Comune di Roma e dopo) rispondono alla domanda di Amiri Baraka nel modo che era tipico dell’architetto, docente, organizzatore e sognatore che è stato Nicolini. Il suo rapporto con l’Architettura era colto, realistico, degno di un buon maestro, ma anche narrazione visionaria. Nel senso che lui vedeva, narrava e inventava (lo fa in questo libro, e lo fa nel film che spero sia presto distribuito) quel grande esperimento che è la città di Roma, dai suoi ruderi al fascismo, alla modernizzazione radicale del 900, e dopo, tra angosce di abbandono e colpi di scena che spesso diventano grande spettacolo. Nicolini è un narratore malinconico e scanzonato, allo stesso tempo pensoso e spensierato. Affronta con grazia il peso del grandioso esperimento che sta narrando, ma solo “il bello” di esso. É uno spettacolo non facilmente dimenticabile, ma è anche una grande lezione, lasciarsi guidare da Nicolini in questa conversazione lieta e profonda su “che cosa è la città, e in che senso incredibile lo è Roma”.
Dobbiamo augurarci che la Facoltà di Architettura di Roma Tre ci dia presto il libro con il film. Sarebbe un dono non da poco per una città maltrattata.

Il Fatto 29.10.18
Vergogna firmata a San Rossore


Le leggi razziali fasciste sono un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi applicati a partire dal 1938, con l’obiettivo di colpire soprattutto la minoranza ebraica residente in Italia. Benito Mussolini le annunciò il 18 settembre di quell’anno durante un comizio a Trieste; il 5 settembre, il re Vittorio Emanuele III aveva firmato la prima legge in difesa della razza nella tenuta regia di San Rossore, a Pisa. Con queste norme la popolazione ebraica fu gradualmente estromessa dai diritti sociali e civili: insegnanti, impiegati e dirigenti della pubblica amministrazione furono licenziati; gli studenti vennero esclusi dalle scuole e si stabilì il divieto, per tutti gli ebrei, di sposare persone “di razza italiana”. Le leggi impedivano anche agli imprenditori discriminati di possedere aziende con più di 100 dipendenti, oltre che di avere la proprietà di terreni e fabbricati che superavano certe dimensioni. Le leggi razziali, precedute, come contesto culturale, dal Manifesto della Razza, restarono in vigore fino al 1944.

La Stampa 29.10.18
Via le pensioni agli ebrei vittime delle leggi razziali e ai perseguitati dal fascismo per motivi politici
di Andrea Carugati


Il decreto fiscale spazza via il sostegno dello Stato per perseguitati politici e razziali, oltre che per i pensionati di guerra. Un taglio da 50 milioni al Fondo istituito al ministero dell’Economia, con effetto immediato.
E così, a ottant’anni esatti dalle leggi razziali, la maggioranza giallo-verde taglia gli assegni previsti fin dal 1955 per chi aveva subito la persecuzione fascista perché di religione ebraica o per le idee politiche. Assegni di modesta entità, circa 500 euro al mese, destinati a persone nate prima del 1945, dunque sopra i 70 anni. Si tratta di alcune migliaia di cittadini, che rischiano di non vedere già gli assegni di novembre e dicembre. Persone che hanno avuto diritto a questo vitalizio come «gesto riparatore» per aver perso il lavoro o il diritto di andare a scuola dopo il 1938, o perché costretti a fuggire all’estero.
La decisione è contenuta in un allegato al decreto fiscale, insieme ad altri tagli che riguardano il sostegno alle famiglie e alle imprese. Una sforbiciata che rientra nella spending review che il governo ha attuato per fare cassa e trovare le coperture per la manovra. Ma che colpisce per il suo valore simbolico. Anche perché - questo il fondato timore dell’Unione delle comunità ebraiche italiane - non si tratterebbe di una riduzione dell’assegno, ma di una vera e propria cancellazione. La legge varata nel 1955 porta il nome del senatore comunista Umberto Terracini, e per circa trent’anni ha riguardato prevalentemente i perseguitati politici. Poi, dal 1986, grazie a un intervento della Corte costituzionale, nella commissione governativa che eroga gli assegni è stato inserito anche un rappresentante delle Comunità ebraiche. Da allora l’accesso a questo istituto si è diffuso anche tra gli ebrei italiani, sia quelli che hanno vissuto gli anni delle persecuzioni sia -in via indiretta- i coniugi e gli orfani con un reddito annuo sotto i 17 mila euro.
Una procedura non semplice. Gli aventi diritto devono fare domanda alla commissione e documentare gli atti persecutori che li hanno colpiti, come ad esempio le lettere delle scuole che li hanno esclusi dopo il 1938. Documenti vecchi di decenni e difficili da reperire.
Tra gli ebrei italiani la notizia ha suscitato un forte sconcerto. La presidente dell’Ucei Noemi Di Segni ha scritto al premier Giuseppe Conte, al ministro dell’Economia Giovanni Tria e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, che ha la delega per i rapporti con le confessioni religiose e per le attività dedicate alla memoria. Di Segni ha anche chiesto di poter essere sentita dalla commissione Finanze del Senato che da oggi esaminerà il decreto fiscale.
L’obiettivo di questo «appello morale» è arrivare a un ripensamento da parte della maggioranza, almeno in fase di esame parlamentare del decreto. C’è tempo infatti fino a Natale prima della definitiva conversione in legge. E per evitare che partano le raccomandate in cui lo Stato informa i perseguitati che, dal 2018, non si sente più in dovere di riparare l’immenso danno che hanno subito. Neppure con un piccolo assegno.

Corriere 29.10.18
Anticipazione Esce domani per Adelphi il nuovo volume dello scrittore e saggista
La sapienza di Browne
Un medico come guida tra i segreti degli Egizi
Ermetismo e geroglifici, il percorso tracciato da Roberto Calasso
di Emanuele Trevi


Nella schiera degli immortali di cui conviene sfogliare i libri almeno una volta nella vita, Thomas Browne sembra occupare, con tutto l’inconfondibile splendore della sua prosa, la sua nobiltà d’animo, la sua prodigiosa cultura, un luogo sorprendentemente defilato. Bisogna ammettere che la sua grandezza può apparire, a prima vista, secondaria e derivata, come di chi guarda il mondo nella lente di ciò che altri, prima di lui, ne hanno detto o scritto, la citazione prevalendo sull’esperienza diretta, sull’invenzione. Ma basta un po’ di consuetudine con le pagine di questo medico inglese, vissuto tra il 1605 e il 1682 in filosofica armonia con se stesso e con il prossimo, perché la nostra idea della letteratura si arricchisca e si modifichi in modo irreversibile: così come, per citare un suo contemporaneo, la visione di un quadro di Velázquez potrà sconvolgere nel modo più propizio ciò che fino a quel momento intendevamo per pittura.
Quanto a Browne, in una pagina di suprema e abbagliante eloquenza, si mostra del tutto immune dall’illusione di durare nella memoria dei posteri: di «incorruttibile», infatti, c’è solo... «l’oblio», e non esiste «nulla di rigorosamente immortale, a parte l’immortalità», la quale, come si sa, non rientra nelle nostre prerogative. Eppure, l’albo d’oro degli ammiratori di Browne non ha nulla da invidiare a quelli di Shakespeare o di Milton: se esistono molti «scrittori per scrittori», Browne sembra appartenere alla cerchia più ristretta degli «scrittori per grandi scrittori».
Limitandomi ai primi esempi che mi vengono in mente, ricorderò Edgar Allan Poe, Herman Melville, che definiva lo scrittore inglese un «arcangelo», e Jorge Luis Borges, che in un appassionato saggio giovanile (raccolto nelle Inquisizioni del 1925) vedeva nell’opera di Browne «un dono di bellezza» del quale desiderava sdebitarsi, e che non smise mai di rileggerlo e citarlo. Tra gli autori più recenti, non si può omettere il ricordo di un capolavoro della prosa contemporanea come Gli anelli di Saturno di Winfried Georg Sebald, che è forse lo scrittore che è stato più capace di ispirarsi all’erudita sublimità, al ritmo maestoso della prosa di Browne. Non so quanto fondata, ma molto suggestiva, è anche l’ipotesi di Sebald che ha creduto di riconoscere Browne (che aveva studiato medicina in Olanda, dopo essere passato per Montpellier e Padova) in uno degli studenti della Lezione di anatomia di Rembrandt.
Un classico rimane tale fin tanto che c’è qualcuno che ci lavora sopra, non importa se praticando la più severa filologia o adoperando gli strumenti meno sicuri dell’empatia e della fantasia. E un posto di rilievo nella lunga fortuna di Browne spetta di sicuro anche a Roberto Calasso, che dieci anni fa ripubblicava nella «Biblioteca Adelphi» la Religio Medici, capolavoro giovanile composto da Browne intorno ai trent’anni e apparso nel 1643. L’edizione, arricchita da un poderoso commento di Vittoria Sanna, era introdotta dallo stesso Calasso, che per l’occasione aveva rispolverato la parte iniziale della sua tesi di laurea, discussa a Roma con Mario Praz nel 1966.
Ora quella stessa tesi di laurea viene ristampata integralmente con il titolo I geroglifici di Sir Thomas Browne (Adelphi). È una lettura a volte ardua, ma avvincente, che una volta ammessa la straordinaria qualità stilistica della scrittura di Browne la sottrae al sospetto dell’esercitazione gratuita e della laboriosa inezia da topo di biblioteca, rivelando un’impalcatura di pensiero e un metodo di vertiginoso rigore.
Chi ama i libri di Calasso potrà riconoscere in questo lavoro giovanile anche l’omaggio precoce a un maestro di cui si è perfettamente appresa la lezione. La prima difficoltà che l’interprete di Browne deve affrontare è quella di definire esattamente gli argomenti e i propositi di un’opera che sembra sempre procedere in maniera obliqua se non tortuosa, accumulando un numero inverosimile di dettagli come se ogni pagina fosse la vetrina di un museo di curiosità storiche e naturali.
Saggi o meditazioni che li si voglia definire, questi testi sono la manifestazione concreta di un atteggiamento mentale a cui si addice perfettamente la definizione di «ermetismo». È lo stesso Browne, nella Religio Medici, a richiamarsi alla «filosofia di Hermes», intesa come una disposizione a riconoscere, in ogni minimo dettaglio dell’universo visibile, la cifra o ancora meglio il «geroglifico» di una realtà superiore, di per sé inattingibile dai sensi. Tutto ciò che esiste, dunque, è una scrittura arcana, la cifra paradossale di una realtà trascendente che si manifesta in una labirintica proliferazione di enigmi, simboli, prodigi che divengono eloquenti agli occhi capaci di vedere e alle orecchie disposte ad intendere.
Se Thomas Browne afferma con tanto orgoglio, fin dal titolo della sua opera maggiore, la sua condizione di medico, ciò si deve al fatto che, se il destino dell’uomo è quello di interpretare con sempre maggior sottigliezza i segnali capaci di condurlo a un livello superiore della realtà, lo scienziato è il carattere mistico supremo. Con tutto il suo dichiarato rispetto per l’ortodossia anglicana, questa preminenza spirituale dell’osservazione naturalistica sulla speculazione teologica è un tratto di indiscutibile, profetica modernità del pensiero di Browne. Non sono forse i fisici e i biologi i veri intelletti metafisici dell’umanità odierna?
È pur vero che i più grandi profeti sono anche i più fedeli figli del loro tempo, e il suo tempo fornisce all’autore della Religio Medici un modello formidabile di indagine «spirituale» nella materia. Mi riferisco all’alchimia, capace di rovesciare con i suoi procedimenti l’angoscia del deperimento e della mortalità nella più luminosa delle speranze, che è quella di un destino da rintracciare nell’oscurità e nel caos dei fenomeni e delle loro cause.
Agli occhi del medico, tutto ciò che esiste non è altro che un’immensa, irreparabile combustione, ma la cenere che ne deriva è l’oro del mondo, vita che si afferma nel cuore della morte, perpetua rigenerazione delle forme nella dissipazione dei corpi che transitoriamente le contengono. L’uomo, afferma Browne con una delle sue indimenticabili definizioni, è un «processo dissolutivo» che però non conduce al Nulla, ma all’«ultima e gloriosa quintessenza» che attende imprigionata nella materia.
Ogni frase di Browne è come un bacino in cui convergono molti fiumi di sapienza, antichi e moderni. E nessuno meglio di Roberto Calasso è in grado di guidarci nei segreti di un metodo che fa di ogni minimo dettaglio del visibile la cifra, il geroglifico dell’invisibile, e di ogni aspetto perituro della vita «la dimora degli Angeli».