Corriere La Lettura 28.10.18
Testimonianze Un patrimonio che include anche ballate preesistenti. Così l’italiano univa le truppe
Vittoria mutilata. Il mito dannunziano sotto processo
Contro la guerra e i comandanti
di Marco Cuzzi e Giordano Bruno Guerri
di Antonio Carioti
Nell’autunno
del 1918 la Grande guerra volge a favore dell’Intesa. In Francia i
tedeschi perdono terreno e i loro alleati austro-ungarici, schierati sul
Piave, sono ormai allo stremo. Ma il 24 ottobre, proprio mentre scatta
l’offensiva italiana che porterà al successo decisivo di Vittorio Veneto
e alla fine del conflitto il 4 novembre, Gabriele d’Annunzio lancia
l’allarme con un intervento in versi sul «Corriere». Il titolo è
Vittoria nostra, non sarai mutilata: l’autore teme che i sacrifici della
patria non saranno compensati al tavolo della pace e inventa uno slogan
formidabile, che diventerà l’insegna delle recriminazioni nazionaliste e
verrà adottato dal fascismo. Per discutere la vicenda abbiamo messo a
confronto due storici: Marco Cuzzi, autore di un saggio sul mito della
«vittoria mutilata», e Giordano Bruno Guerri, biografo di d’Annunzio e
presidente del Vittoriale degli italiani.
MARCO CUZZI — Quello
slogan non è una «voce dal sen fuggita». D’Annunzio usa l’espressione
«vittoria mutilata» a ragion veduta, come un’arma politica. E, dopo
Vittorio Veneto, gli stessi negoziatori italiani alla conferenza di pace
di Parigi, il capo del governo Vittorio Emanuele Orlando e il ministro
degli Esteri Sidney Sonnino, sposeranno la sua impostazione, reclamando
per l’Italia non solo le terre promesse dall’Intesa con il patto di
Londra del 1915, ma anche la città di Fiume, la cui annessione non era
prevista nel trattato. Ma il poeta e i politici si sono svegliati tardi:
tra il 1915 e il 1918 lo scenario è cambiato. La Russia è uscita dal
conflitto con la rivoluzione d’Ottobre e c’è la necessità di contenere
l’influenza bolscevica. Sono entrati in guerra gli Stati Uniti, il cui
presidente Woodrow Wilson non ha firmato il patto di Londra e chiede di
rispettare il principio di autodeterminazione dei popoli. Si è
costituito un comitato jugoslavo, che avanza rivendicazioni territoriali
sull’Adriatico. Occorreva muoversi in modo accorto a livello
diplomatico: gridare alla «vittoria mutilata», proprio mentre si stava
per coglierla, significava delegittimare i governanti italiani e
restringere i loro spazi di trattativa.
GIORDANO BRUNO GUERRI —
D’Annunzio fa una scelta politica precisa: vuole che l’Italia ottenga il
massimo possibile. Del resto raccoglie un sentimento diffusissimo nel
Paese, sintetizzandolo in una frase evocativa di grande presa. Se la
gestione delle trattative a Parigi non fu felice, la responsabilità va
attribuita a una classe politica di cui il poeta aveva compreso
l’inadeguatezza.
Ma aveva senso insistere per ottenere la Dalmazia, abitata in netta maggioranza da popolazioni slave?
MARCO
CUZZI — Gli stessi vertici militari, a cominciare dal comandante
supremo Luigi Cadorna, avevano ripetuto più volte che sotto il profilo
strategico annettere la Dalmazia non serviva, anzi era pericoloso. Le
Alpi Dinariche erano popolate da slavi e i porti sull’Adriatico si
sarebbero trovati in una posizione vulnerabile. Invece d’Annunzio non si
mostra consapevole del problema etnico: è vero che, quando occuperà
Fiume con i suoi legionari tra il 1919 e il 1920, concederà nelle scuole
l’insegnamento delle lingue diverse dall’italiano (poi vietate invece
dal fascismo), ma sottovaluta le difficoltà che comporta acquisire sotto
la sovranità del nostro Paese mezzo milione di slavi, tra croati e
sloveni.
GIORDANO BRUNO GUERRI — Senza dubbio d’Annunzio non
considerava la questione da un punto di vista strategico e militare, ma
emotivo e storico. Voleva un Adriatico interamente italiano come ai
tempi della Repubblica di Venezia e non si curava d’altro. Ma non era
contrario all’integrazione culturale, che a Fiume cercò di realizzare,
come osservava Cuzzi, con la Carta del Carnaro. Era favorevole a
un’italianizzazione della Dalmazia, ma certo non nelle forme violente
attuate dopo il 1945 dagli jugoslavi di Tito contro i nostri
connazionali in Istria. Del resto era convinto che serbi, croati e
sloveni non sarebbero riusciti a unirsi, quindi giudicava secondario il
problema nazionale jugoslavo.
MARCO CUZZI — Il dato fondamentale è
però che la denuncia della «vittoria mutilata», da parte di d’Annunzio,
si fondava su due presupposti deboli: che l’Italia avesse combattuto da
sola contro l’Austria-Ungheria e che il suo sforzo fosse stato
superiore rispetto a quello degli alleati britannici e francesi. Sono
affermazioni smentite dai numeri. L’Italia ebbe circa 10 militari caduti
ogni cento mobilitati contro 12 per la Gran Bretagna e 17 per la
Francia. E gli aiuti dell’Intesa alle nostre forze armate furono
consistenti: a parte le tre divisioni britanniche e le due francesi
mandate sul Piave dopo Caporetto, importanti ma non decisive, pesò
soprattutto il sostegno in mezzi e materiali giunto dagli Stati Uniti.
Forse avevamo fatto da soli nella prima parte del conflitto (del resto
solo nell’agosto 1916 avevamo dichiarato guerra anche alla Germania), ma
nel 1918 la situazione era del tutto diversa. Certo, resta sempre
difficile valutare quanti chilometri quadrati valevano i nostri 650 mila
morti.
Ma allora la «vittoria mutilata» era una specie di fake news?
GIORDANO
BRUNO GUERRI — Non parlerei di fake news. Direi piuttosto che era uno
slogan enfatico per insistere sulla necessità che l’Italia annettesse
quelle terre. Una parola d’ordine alla quale il poeta fece seguire fatti
molto concreti quando prese Fiume nel settembre 1919. Quell’azione in
un primo tempo rafforzò la posizione del governo italiano che
rivendicava la città in sede di trattative internazionali, ma alla lunga
lo indebolì, perché era chiaro che d’Annunzio andava per conto suo, era
incontrollabile. Le accuse di viltà, con l’epiteto ingiurioso di
«Cagoia» rivolto dal poeta al presidente del Consiglio Francesco Saverio
Nitti, successore di Orlando, evidenziavano l’impotenza delle autorità
italiane al cospetto degli altri Paesi.
MARCO CUZZI — L’impresa di
Fiume ha molti aspetti. D’Annunzio dichiarò: «Ardisco, non ordisco». Ma
l’azione ebbe anche un aspetto di congiura. I legionari non erano solo
giovani volontari romantici e un po’ sventati. Anzi in netta prevalenza
erano militari ammutinati contro le scelte del loro stesso governo. Il
poeta dimostrò la capacità di incanalare la rivolta con il suo carisma,
ma di fatto comincia qui la lunga sequela dei settori deviati dello
Stato che vanno fuori controllo: comportamenti che tanti danni hanno
prodotto in Italia.
Quindi d’Annunzio si fece strumentalizzare da
chi voleva colpire le istituzioni liberali? E l’ammutinamento di Fiume
alimentò l’eversione violenta?
GIORDANO BRUNO GUERRI — Non vedo
complotti oscuri: l’iniziativa partì dal basso, da ufficiali di rango
inferiore che trovarono sostegno nelle autorità civili di Fiume. E non
credo che quell’azione abbia attizzato il clima da guerra civile causato
in Italia dai conflitti di classe e dallo scontro tra socialisti e
fascisti. A Fiume non ci furono atti gravi di violenza fino al Natale
1920, quando le truppe regolari cacciarono i legionari dalla città con
la forza. Come ha scritto Claudia Salaris, d’Annunzio mise in scena «la
festa della rivoluzione». Però l’impresa fiumana dimostrò che l’esercito
italiano non era completamente affidabile e che lo Stato liberale
poteva essere sfidato. Una lezione involontaria di d’Annunzio, della
quale avrebbe approfittato il ben più abile Benito Mussolini.
MARCO
CUZZI — D’Annunzio non era un politico. E rimane spiazzato da Giovanni
Giolitti, che era tornato a capo del governo e approfitta di alcune
mosse sconsiderate del poeta. Quando l’«ufficio colpi di mano» istituito
a Fiume prende d’assalto una nave con materiale bellico destinato ai
russi antibolscevichi, le autorità di Roma agitano lo spauracchio
sovversivo e convincono gli alleati occidentali e gli jugoslavi ad
accettare le condizioni italiane in cambio dello sgombero di Fiume. Il
risultato è il trattato di Rapallo del novembre 1920, piuttosto
vantaggioso per l’Italia, che Mussolini accetta e d’Annunzio rifiuta.
GIORDANO
BRUNO GUERRI — In questo passaggio contarono molto gli umori personali.
Nel 1915 l’interventista d’Annunzio aveva definito «boia labbrone»
Giolitti, contrario all’ingresso in guerra dell’Italia, esortando il
popolo a impiccarlo. Però anche lo statista liberale sbagliò evitando di
coinvolgere nei negoziati con la Jugoslavia il poeta, che a sua volta
sbagliò più gravemente impuntandosi contro il trattato di Rapallo.
MARCO
CUZZI — Intanto però d’Annunzio aveva prodotto la Carta del Carnaro,
una costituzione per la città Stato di Fiume che andava oltre i confini
tra destra e sinistra, ben più ricca e interessante dell’iniziale
programma fascista di San Sepolcro, velleitario e destinato a un rapido
abbandono. Invece la Carta dannunziana è un tentativo di unire
patriottismo e socialismo umanitario, in sintonia con alcune posizioni
massoniche dell’epoca.
Dunque è sbagliato presentare d’Annunzio come un precursore del fascismo?
GIORDANO
BRUNO GUERRI — Certo, è un errore: lo spiego nel libro che sto
preparando su Fiume. D’Annunzio era davvero, come disse, al di sopra
della destra e della sinistra, mentre Mussolini cavalcò la sua impresa,
si appropriò di riti e slogan inventati a Fiume, ma in sostanza tradì il
poeta e lo emarginò mentre puntava alla conquista del potere.
MARCO
CUZZI — Già nel settembre 1919 Mussolini censurò le accuse di pavidità
che d’Annunzio gli rivolgeva in una lettera al suo giornale, «Il Popolo
d’Italia». Ma certo il fascismo mutuò un certo lessico dannunziano
contro la classe dirigente liberale, bollata già allora come «casta» dal
poeta, che fu per certi versi un antesignano dell’antipolitica.
Ovviamente bisogna tenere conto dell’atmosfera brutale creata dalla
guerra, che portava a demonizzare i nemici e contagiava un po’ tutti, ma
certo d’Annunzio esagerò con il nazionalismo. Parlava di «ciucoslavi»,
«porcilaia serba», «pidocchieria greca», «banche giudaiche». Non fu il
battistrada del fascismo, ma ebbe delle responsabilità nell’introdurre
forme d’ingiuria molto aspre nel dibattito politico.
GIORDANO
BRUNO GUERRI — Attenzione, non incolpiamo il solo d’Annunzio per
l’esasperazione generale prodotta da una guerra atroce. Non è che,
firmato l’armistizio, dopo anni di stragi, gli ex combattenti diventino
agnelli. Al contrario sono tutti lì con il sangue agli occhi, pronti a
proseguire il conflitto sul piano interno. Ma a Fiume c’è dell’altro,
oltre al nazionalismo. Per esempio l’invocazione dannunziana originaria
era «eia, eia, viva l’amore, alalà», poi i fascisti la cambiarono
togliendo il richiamo all’amore. Il poeta diede un’impronta
multiculturale alla Carta del Carnaro, eliminò i gradi militari tra i
legionari, faceva raccogliere fiori per infilarli nelle canne dei
fucili. Più che del fascismo fu un anticipatore del Sessantotto. Non c’è
niente di più dannunziano dell’immaginazione al potere.