il manifesto 6.10.30
Nadia e Denis: il Nobel contro la guerra sui corpi delle donne
Pace.
Il premio alla vittima yazida Murad e al ginecologo congolese Mukwege.
Da anni impegnati contro la violenza sessuale e l’uso dello stupro nei
conflitti: lui ha curato 50mila vittime, lei si batte per la tutela del
popolo yazidi
di Chiara Cruciati
Una vittima e
un medico, due persone che da anni si battono contro la violenza
sessuale e lo stupro come arma di guerra: sono i due vincitori del
premio Nobel per la pace, Nadia Murad e Denis Mukwege.
La prima,
25 anni, la seconda più giovane premiata dal comitato norvegese dopo
Malala, è dal 2015 il volto del genocidio del popolo yazidi in Iraq; il
secondo, ginecologo di 63 anni, ne ha trascorsi quasi 20 a curare le
ferite di almeno 50mila vittime di stupri in Congo, nell’ospedale Panzi a
Bukavu.
Due luoghi distanti, Iraq e Repubblica democratica del
Congo, ma universali come la battaglia che i due vincitori portano
avanti e che coinvolge l’intero pianeta: «Hanno messo la loro sicurezza
personale a rischio per combattere con coraggio crimini di guerra e
garantire giustizia alle vittime», scrive il comitato del Nobel. «Hanno
aiutato a dare enorme visibilità alla violenza sessuale in tempo di
guerra, così che i responsabili possano essere giudicati per le loro
azioni».
L’impegno di Mukwege è di lungo corso: da anni lavora
nell’ospedale che ha fondato al confine con Burundi e Ruanda, 10
operazioni al giorno, 3.500 pazienti l’anno in una terra devastata dai
conflitti armati tra milizie. È qui che «dottor Miracolo» ha aiutato
50mila donne a superare le cicatrici fisiche e psicologiche degli abusi
subiti tramite ricostruzione chirurgica, supporto socio-economico e
sostegno legale.
Il medico congolese Denis Mukwege (Foto Afp)
Quello
di Nadia è iniziato il giorno della sua liberazione: catturata ad
agosto 2014 dai miliziani dello Stato Islamico nel villaggio di Kocho, a
Sinjar, nell’ovest dell’Iraq, con altre 6mila donne yazidi, è passata
di mano in mano, venduta al mercato degli schiavi e sottoposta a stupri
continui, pestaggi, abusi.
È riuscita a fuggire il novembre
successivo, per ritrovarsi da sola: i suoi fratelli e i suoi genitori
sono stati uccisi nell’attacco dall’Isis a Sinjar, otto delle oltre
5mila vittime del genocidio. Da allora gira il mondo per chiedere
giustizia e protezione per il popolo yazidi: è stata accolta
dall’Europarlamento che le ha assegnato il premio Sakharov per la
libertà di espressione, dall’Onu di cui è diventata ambasciatrice, in
Vaticano.
Entrambi, Nadia e Denis, sono portatori di una denuncia
più ampia: l’uso dello stupro come arma di guerra e frammentazione delle
comunità. Perché, come spiega Mukwege, le violenze in Congo avvengono
spesso in pubblico contro giovani donne: una precisa strategia di
sfaldamento dei legami sociali che nella yazidi Sinjar si è tradotta
nella violazione di donne e bambini e la loro riduzione in schiavitù con
l’obiettivo di impedire la ricostruzione comunitaria.
La
decisione del comitato norvegese è stata apprezzata ovunque. Al plauso
delle organizzazioni per i diritti umani, da Human Rights Watch al
Norwegian Refugee Council, si è aggiunto quello di numerosi governi e
dell’Onu che ha salutato con entusiasmo i due vincitori nelle
dichiarazioni ufficiali del segretario generale Guterres e della neo
commissaria ai diritti umani Bachelet.
Si congratulano anche
Kinshasa e Baghdad, nonostante le critiche mosse dai due neolaureati ai
rispettivi governi. Con quello congolese Mukwege non ha avuto vita
facile per aver accusato l’esercito di perpetrare la cultura della
violenza sessuale.
La giovane yazida Nadia Murad (Foto Afp)
Con
quello iracheno Murad non ha avuto rapporti: dopo la liberazione dal
giogo islamista nel novembre 2015 da parte di peshmerga e unità
curdo-siriane legate al Pkk, Baghdad ne ha riassunto il controllo solo
un anno fa.
Ma nulla è stato fatto: la maggior parte degli yazidi
sfollati vive ancora nei campi nel Kurdistan iracheno e chi è tornato
non ha trovato che macerie e fosse comuni. Nessuna ricostruzione né
protezione internazionale, quella che Nadia chiede a gran voce da anni.
Lo
fece anche due anni fa di fronte al parlamento europeo insieme a Lamiya
Bashar, altra giovane yazida con cui ha condiviso identica sorte. In
abiti tradizionali, con la voce ferma ma lo sguardo spento dal dolore,
Nadia puntò il dito contro gli scranni che le stavano applaudendo: «Chi
di noi si è liberata lo ha fatto da sola, senza alcun aiuto. Dopo due
anni non è stato ancora messo in piedi un effettivo sostegno
internazionale. Promettete che farete giustizia. Promettete che non
accadrà più». Un grido rimasto chiuso a Strasburgo.