il manifesto 4.10.18
Tory diviso sulla Brexit, con la paura di Corbyn
Gran
Bretagna. La premier Theresa May chiude il congresso di Birmingham
promettendo la fine dell'austerity. Ma il partito è spaccato
sull'accordo per l'uscita dall'Ue e Boris Johnson è l'ultimo dei suoi
problemi
Birmingham, il balletto di Theresa May al congresso Tory
di Leonardo Clausi
LONDRA
Per sdrammatizzare la tetraggine che aleggiava nella sala dove avrebbe
tenuto il suo discorso di chiusura del congresso dei conservatori a
Birmingham – sembrava più che altro una fiera del fratricidio politico –
Theresa May non aveva altra scelta che ricorrere allo spettacolo. Ci
voleva un coup de theatre, anzi, de cabaret. Così ieri è entrata in
scena ironizzando sulle sue scarse doti di ballerina – derise online in
occasione di una recente visita di stato in Kenya – sulle note di
Dancing Queen degli Abba, già singolo del nostalgico modernariato
europop frettolosamente innalzato nell’olimpo dei classici.
Una
pregevole capacità autoironica, che però non sorprende nemmeno tanto in
una premier il cui mandato si poggia interamente sull’incapacità dei
suoi colleghi di scegliere qualcuno che a) sia meno divisivo di lei; e
b) sia disposto a sacrificare la propria ambizione carrieristica
sull’altare del fenomeno più tellurico – istituzionalmente,
economicamente, geo-politicamente, culturalmente – della storia
britannica recente: la famigerata British Exit. Ed è in buona sostanza a
questo, oltre alla quasi religiosa devozione al ruolo del tutto aliena
al suo rivale numero uno, Boris Johnson (che nella sua interminabile
attesa di salire al trono continua a fare il giullare di corte
rispolverando vecchie frasi a effetto), che deve l’essere ancora al suo
posto Theresa May.
Solo che degli Abba avrebbe fatto meglio a
scegliere Mamma Mia, o Sos, e per una serie nutrita di ragioni. Breve
riassunto dei disastri precedenti: il suo partito ricorda una frattura
scomposta, i lealisti nordirlandesi del Dup, che la tengono al potere
per il rotto della cuffia, minacciano di far cadere il governo qualora
le sue aperture all’Ue aggravino il rischio di un ritorno del confine
fisico con l’Irlanda del Nord; le elezioni anticipate da lei azzardate
(male e controvoglia), nel 2017 hanno galvanizzato il Labour; poi quel
discorso di chiusura dell’anno scorso, in cui tutto, ma proprio tutto, è
andato storto. E ora questo congresso, istantanea di una spirale
divisoria, fossilizzato nel disaccordo su come/se uscire dall’Ue mentre
il tempo si fionda verso il 29 marzo. Essenzialmente il duello fra due
fazioni: da una parte l’impossibile mediazione di opposti nel cui segno
May ha concepito l’accordo Chequers; dall’altra, le trombonate
tory-neoliberal-nazional-atlantiste irte di latinorum con cui Johnson ha
criticato nel suo discorso di martedì lo stesso accordo.
Ma
Johnson pare davvero l’ultimo dei problemi di May. Non è alternativa che
suoni credibile a tutto il partito, il suo momento pare passato ed è
una figura strettamente spettacolare («la sua cocaina è l’attenzione dei
media» ha detto recentemente un suo ex-collaboratore). A volte apre
bocca ed escono cose nefaste, come quel fuck business (con cui settimane
fa aveva terrorizzato il… business) e di cui patisce ancora i danni. Il
problema reale di Theresa May e della platea che l’ha mestamente
applaudita nel suo “coraggioso” discorso è appunto Corbyn, il leader di
un partito socialista mai come oggi così credibilmente vicino al potere.
Che si tiene volutamente – pur se con fatica – vago su Brexit, mentre i
Tories ne sono dilaniati.
Secondo un calcolo di Bloomberg,
durante questo congresso, sedici prominenti Tories hanno citato Corbyn
per 36 volte nei loro discorsi, in testa il moderato Cancelliere Hammond
(sei volte) seguito dal Brexit secretary Dominic Raab (quattro). Per
questo, dopo aver ribadito il ruolo mercatista e liberista dei Tories –
back (non fuck) business ha esortato, in mezzo al rumoroso sollievo
della sala – May si è inoltrata nel territorio “sociale” nel quale il
New Old Labour di Corbyn ha prefigurato i più inquietanti e promettenti
terremoti – nazionalizzazioni, azionariato operaio, investimenti
pubblici – annunciando la fine dell’austerity che da otto anni
attanaglia il paese.
Fermo il prezzo della benzina per il nono
anno di seguito allora, promesse di edilizia popolare e altre misure che
rappresentano quanto di più vicino al “populismo” i Tories riescano ad
andare. Ma insufficienti a un partito il cui elettorato, confuso
dall’avventurismo di certi suoi esponenti, continua a invecchiare e che,
a differenza del Labour, non sa rivolgersi ai giovani che lo
identificano con una Brexit che non comprendono e rifiutano. Per quanto
abbiano accusato Corbyn di paleontologia politica, i conservatori si
scoprono a loro volta un partito con tante vecchie idee, un elettorato
di anziani e vecchie, dolciastre canzoni pop.