il manifesto 3.10.18
Occupazioni a prova di infelicità
«Bullshit
Jobs», un volume dell’antropologo e attivista statunitense David
Graeber per Garzanti. L’autore non ha mai nascosto il suo anarchismo, ma
è vicino a Max Weber, Gabriel Tarde e Marx. Un programma di reddito
minimo eliminerebbe l’ossessione del lavoro: offrirebbe un ragionevole
livello di vita. Il singolo può poi decidere se cercare di guadagnare
ancora
di Benedetto Vecchi
David Graeber è un
antropologo che ha concentrato la sua attenzione di studioso su fenomeni
e comportamenti decisamente metropolitani. Dunque niente esotismo per
le culture tribali o fascino per il «selvaggio». Da alcuni anni a questa
parte ha, infatti, concentrato la sua attenzione sul secolare ruolo del
debito come tecnologia del controllo sociale (Debito. I primi 5000
anni, Il Saggiatore).
Con lo stesso spirito etnografico ha
studiato la burocrazia, fondamentale anello nella catena di comando
finalizzata al dominio della società da parte di una ristretta élite
(Burocrazia, Il Saggiatore); oppure ha passato al microscopio rituali,
consuetudini e convenzioni socialmente necessarie alla democrazia
(Progetto democrazia, Il Saggiatore). Graeber non ha mai nascosto il suo
anarchismo, anche se la sua costellazione teorica contempla Max Weber,
Gabriel Tarde e timidissimi riferimenti a Karl Marx, studiosi lontani
dalla filosofia e antropologia libertaria condivisa.
LA PASSIONE
MILITANTE lo porta spesso a collaborare e scrivere per riviste,
magazine, quotidiani su argomenti legati all’attualità. E questo suo
ultimo libro nasce proprio come evoluzione di una saggio scritto nel
2013 per la rivista online Strike. Il tema del suo contributo doveva
essere la precarietà, la disoccupazione dovuta all’automazione, nonché
l’annunciata scomparsa della classe operaia nel capitalismo. Con un
movimento spiazzante, tuttavia, Graeber lo affronta da un altro punto di
vista rispetto quanto circolava nei gruppi politici radicali dei
movimenti sociali, quello della infelicità per i lavori senza senso, che
alimentano nei singoli un paradosso difficile da gestire: lavorare
impegnando gran parte delle proprie energie fisiche, psichiche e della
propria creatività per poter pagare le bollette e odiare quel lavoro
considerato dall’ideologia dominante l’elemento fondamentale della
propria identità personale, nonché collante della società.
L’ESPRESSIONE
usata da Graeber non è proprio senza senso, perché l’espressione scelta
– bullshit jobs – è ben più colorita, visto che può essere tradotta
come «lavoro di merda»). Il testo ha avuto una diffusione virale e in
molti hanno scritto lunghe e-mail all’autore, raccontando la loro
esperienza lavorativa, condividendo il punto di vista del saggio; o
criticandolo. Graeber ha così raccolto centinaia di testimonianze,
catalogate e archiviate per poi essere rielaborate per comporre una
accurata ricerca antropologica o etnografica sul lavoro dei colletti
bianchi nel capitalismo contemporaneo. In Italia è stata la Garzanti a
tradurla e pubblicarla con il titolo Bullshit Jobs (pp. 396, euro 19,
traduzione di Albertine Cerutti).
La prima chiave di lettura della
ricerca investe le caratteristiche del lavoro manageriale, all’interno
di una struttura gerarchica di tipo feudale. Una piramide dove i
rapporti sono legati da relazioni vis-à-vis e da un complesso e in
divenire, flusso di procedure che definiscono e valutano il lavoro dei
sottoposti. Graeber parla di un feudalesimo manageriale, dove ricatto
del licenziamento, fedeltà al superiore e accettazione silenziosa delle
procedure sono le premesse dalla stabilità aziendale. Anzi, è la
stabilità aziendale, la sua possibilità di riprodursi come
organizzazione la mission del lavoro dei colletti bianchi.
ED È
PROPRIO la costellazione sul lavoro impiegatizio che emerge nella prima
parte del volume. C’è ovviamente il saggio di Charles Wright Mills
(Colletti bianchi, Einaudi), ma anche l’antico Impiegati di Siegfried
Kracauer (Einaudi) e L’uomo dell’organizzazione di William H. Whyte
(sempre Einaudi). E ancora, come già evidenziato, la riflessione di
Weber sulla burocrazia come elemento di costruzione dei rapporti di
potere e di consenso nella società moderna. Ma se queste sono le
«stelle» che orientano la navigazione nel lavoro senza senso, Graeber ha
il merito di introdurre vere e proprie tipologie di figure chiave del
feudalesimo manageriale. Ci sono gli sgherri, i ricucitori, gli
sbarracaselle, i supervisori. Figure che non hanno necessità di
spiegazioni, a conferma della loro inutilità effettuale. Producono carta
straccia, oppure lunghe mail che vengono catalogate e archiviate nella
loro inoperatività. Gran parte del tempo di lavoro è passato nella
finzione di fare qualche operazione dotata di senso. Ma questo produce
stress e una infelicità cronica. Molti rimangono a svolgere il loro
lavoro, perché normalmente è pagato per sopravvivere in un capitalismo
predatorio. Alcuni però rinunciano a quel salario dignitoso e si
inventano o scelgono lavori che hanno una qualche utilità sociale
(insegnanti, infermieri, contadini, sviluppatori di software open
source) anche se pagati poco.
COSÌ VIENE INTRODOTTA la distinzione
tra «lavori di merda» e «lavori senza senso». I primi fanno parte della
grande schiera degli impieghi precari, sottopagati, esposti
all’intermittenza. Possono riguardare il settore industriale, come
quello dei servizi, ma sono forme di lavoro variamente analizzate.
Quelli senza senso, invece, poco o nulla sono stati indagati. Il primo
merito del libro di Graeber sta proprio nell’essere un volume di
inchiesta, seppur poco militante e molto accademico.
Infelicità,
stress, insensatezza delle relazioni personali. Ci sono quelli che
studiano, scrivono romanzi, sceneggiature, schiattano sui social media,
altri provano testardamente a proporre nuove modalità lavorative che
diano senso alle ore passate in ufficio. La partecipazione, con nickname
che non celano il vero nome, a Facebook e a Twitter ha la funzione di
socializzare la propria condizione lavorativa, cercando conforto e
rispecchiamento sulle tristi passioni dell’impresa contemporanea. Ma
anche in questo caso non prelude a nessuna autorganizzazione né
sindacale né di autocoscienza. Si tratta solo di sfoghi, che possono
assumere tonalità rabbiose, di risentimento e di teorizzazione di
pratiche opportunistiche. Elementi, secondo Graeber, che spiegano la
crescita delle formazioni politiche populiste e xenofobe.
GRAEBER
LO ESPLICITA chiaramente che l’afflato polemico del libro è contro le
retoriche, dominanti nel mondo anglosassone, della «classe creativa»,
dei «knowledge workers», del «lavoro immateriale» sia nelle loro
declinazioni conservative che progressiste, convergenti nell’indicare
nel «lavoro senza senso» una centralità nei rapporti sociali di
produzioni. Una convinzione smentita sia dalle statistiche che dai
racconti raccolti.
Oltre alle narrazioni, sono interessanti anche
le statistiche, in particolare quelle che mettono in evidenza che, oltre
il 60% degli occupati nel management sono inutili, servono solo a
costruire il consenso a un regime di accumulazione capitalistica in
deficit di legittimazione a causa dei movimenti sociali globali e delle
ricorrenti crisi finanziarie, sociali e ambientali. Illuminante è la
frase di Obama riportata nel volume. L’ex-presidente degli Stati Uniti
nel dire che la mediazione sulla riforma sanitaria aveva incontrato poca
passione nel suo elettorato, dà una spiegazione abbastanza brutale e
indica quei milioni e milioni di posti di lavoro nelle compagnie
assicurative private che si sarebbero trovate senza lavoro. Obama
aggiunge che non avrebbe certo potuto dare il via a programmi di
investimenti per lavori socialmente utili che riassorbissero la
disoccupazione. Per questo, era meglio mantenere milioni di lavori senza
senso e un’assicurazione sanitaria penalizzante per chi ha salari bassi
piuttostoche avere il coraggio di immaginare un nuovo new deal.
È
su questo crinale che il libro compie, figurativamente, una vera
svolta. Graeber richiama discussioni antiche sul lavoro produttivo e
improduttivo, sulla teoria del valore-lavoro. Da buon anarchico prende
le distanze dalla vision marxiana della teoria del valore-lavoro ed è
più indulgente verso la centralità della divisione del lavoro in Ada
Smista, sulla teoria di Davide Riccardo del lavoro, degli artigiani in
Proudon o Riccarda Sennett. Ma è anche avvertito osservatore
partecipante ai movimenti sociali. Graeber è stato, ad esempio, una
presenza costante durante il movimento no-globali e di Occupy Wall
Street arrivando a maturare la convinzione che occorre partire dai quei
lavori che hanno una finalità sociale per trasformare i rapporti di
potere nel capitalismo.
DA QUI LA TERZA CHIAVE di lettura del
volume, che lo chiude. Si tratta dell’automazione che cancella lavori,
compresi quelli senza senso. Quindi cosa fare? Certo, sviluppare
iniziative produttive e lavorative autogestite finalizzate a produrre
beni e servizi socialmente utili. Ma per questo occorre un reddito
minimo garantito su base universale. Non quella carità dei redditi di
inclusione o dei sussidi di disoccupazione progettati in Europa e negli
Stati Uniti (l’ultimo in ordine di tempo è la proposta del governo
italiano leghista e grillino) come una inferriata da aggiungere alla
gabbia del lavoro salariato, bensì un reddito universale che consenta di
vivere, sperimentando appunto forme di lavoro sociale.
Graeber
non nasconde la difficoltà di questa proposta e i rischi che comporta
nel rafforzare il ruolo di controllo sociale esercitato dalle
istituzioni statali, le uniche immaginate per erogare il reddito minimo
garantito. Ma sono rischi che vanno corsi, per evitare che le stigmate
del lavoro senza senso e di merda colpiscano la maggioranza della
popolazione. Ritorna così centrale la distinzione tra il 99% della
popolazione depredata dalla ricchezza prodotta da parte dell’un per
cento, cara a Occupy Wall Street. Non è un ritorno al passato, ma
l’angolo prospettico per immaginare un futuro e un presente di libertà.