mercoledì 3 ottobre 2018

il manifesto 3.10.18
Alla sinistra del Pd, ma ciascuno a casa propria
di Antonio Floridia


«A che punto è la notte?», è la domanda che è inevitabile porsi se si guarda allo stato delle cose della sinistra in Italia.
Cominciamo dal Pd, anche perché, è inutile negarlo, piaccia o non piaccia, molto è legato a quello che accadrà a questo partito. Il Pd, come è stato giustamente detto, al momento è parte (e una parte enorme) del problema, non la soluzione. Lo stato di incertezza, in quel campo, è notevole, e non investe solo i gruppi dirigenti, ma anche gli osservatori e i commentatori. Ad esempio, qualche settimana fa, una persona stimabile come il filosofo Roberto Esposito, in un suo intervento, aveva mostrato una disarmante ingenuità: vanno benissimo le critiche al Pd, anche quelle più dure, ha detto; ma facciamo anche qualcosa di concreto: iscriviamoci al partito!
Ma a fare che?, gli si poteva obiettare. Si ha un’idea di cosa concretamente sia oggi il Pd? È forse un luogo in cui si possa discutere, valorizzare le competenze intellettuali, tradurre le analisi in azione politica? Al massimo, chi ne ha voglia, potrà andare al gazebo, quando sarà il momento. Ed infatti, pochi giorni fa, lo stesso Esposito è arrivato ad un’altra conclusione: il Pd, così com’è, non regge, meglio una “separazione consensuale” tra un “polo repubblicano” e un “polo socialista”. Non è il solo: l’idea che, oramai, non abbia più senso “riformare” il Pd si sta facendo strada; ma stenta ancora a farsi strada la piena consapevolezza di come questo partito sia “intrappolato” nelle sue stesse regole e di come siano profondamente cambiate le sue stesse “ragioni sociali”: cos’è, effettivamente, oggi, la “base” di questo partito? Quale platea sarà realmente coinvolta nelle cosiddette “primarie”?
A dire il vero, nei mesi scorsi, si era levata qualche voce per chiedere un “vero congresso”: ma qualcuno se ne sta preoccupando? In verità, qui è il nodo scorsoio che lascia poche speranze a questo partito. Per fare un “vero congresso” occorrerebbe azzerare le attuali regole, puntare su un vero confronto tra tesi e mozioni, in cui sia scritto nero su bianco che idea che si ha di questo partito, del suo profilo ideale e programmatico, della sua strategia; e, soprattutto, farla finita con l’impianto plebiscitario dell’elezione diretta del segretario, ed eleggere piuttosto degli organismi rappresentativi, a tutti i livelli, che scelgano, poi, a loro volta, il segretario. L’opposto di quanto accade oggi, e di quanto accadrà se restano le attuali regole: oggi, sono i candidati-segretario che “fanno eleggere”, trainandoli, i membri degli organismi (attentamente selezionati tra le correnti, le sub-correnti, i notabili e i vari potentati locali), non sono questi ultimi ad eleggere un segretario.
Ma basta enunciare queste ipotesi per rendersi conto di quanto esse siano improbabili, e per un semplice motivo: dovrebbero essere gli attuali organismi a decidere questa “sospensione” delle vecchie regole, e in questi organismi è tuttora molto elevato il potere di veto che Renzi continua ad esercitare. Non deve sorprendere il ritorno sulla scena di Renzi, e dei suoi bagni di folla in qualche festa di partito (che è un’offesa alla memoria continuare a chiamare de “l’Unità”): in un partito oramai rattrappito, Renzi conserva intatto il suo appeal presso una quota di aficionados, convinti davvero che la sconfitta sia frutto del “fuoco amico”. Quello che sorprende piuttosto è il modo con cui si stanno muovendo i suoi oppositori. Tutto si sta svolgendo dentro il perimetro sempre più asfittico di quello che oramai è diventato il Pd: si pensa davvero, in questo modo, di poter appassionare alla disputa sul segretario del partito le centinaia di migliaia di elettori e militanti che se ne sono già andati? E quali ragioni potrebbero mai avere per tornare ai “gazebo”?
L’impressione è che si attenda il casus belli, per poter finalmente prendere atto che quello strano esperimento avviato dieci anni fa è fallito, e che raddrizzare questo “legno storto” è oramai impossibile: sarebbe una liberazione per tutti, se ognuno potesse prendere la strada che ritiene più giusta. Innestare uno scontro sulle regole (ma, in realtà, sull’idea di partito che si ha in testa) potrebbe essere risolutivo, e potrebbe portare a quel chiarimento che, stando così le cose, non sembra proprio alle viste.
Quello che avviene nel Pd sta producendo effetti paralizzanti anche fuori dal Pd, alla sua sinistra. Il “processo costituente” che, da Leu avrebbe dovuto portare alla nascita di un nuovo partito, è sul punto di arenarsi. Quel che è peggio, non vi è un dibattito pubblico che permetta di capire quali opzioni si stanno realmente misurando. Intendiamoci, le differenze politiche non mancano: ma quale è l’alternativa ad un processo inclusivo, che provi finalmente a unificare e riorganizzare un’area di forze oggi disperse, e sempre più sconsolate, che si trovano a sinistra del Pd? Non sarebbe di gran lunga più salutare costruire un partito (retto e garantito da solide regole democratiche) in cui anche le diverse opzioni strategiche possano meglio confrontarsi? O è meglio che ciascuno se ne rimanga a casa propria, a rimuginare tra quei (pochi) amici e compagni che la pensano allo stesso modo?
Quel che è certo è che una posizione “attendista” che guardi solo a quel che accade nel Pd, è una posizione assai debole; e questo vale quali che siano gli scenari che si profilano. Sia nel caso di una benefica “implosione” del Pd, sia nel caso di un Pd “riformato”, un partito della sinistra, capace di proporre e costruire una propria autonoma identità politico-culturale, ci vorrebbe comunque, e sarebbe essenziale alla ricostruzione di un campo democratico, per dare una spinta innovativa a questo processo. Ma ci vorrebbe anche coraggio e generosità, e un po’ di lungimiranza.