Il Fatto 3.10.18
Dopo le due piazze c’è vita a sinistra? Sì, ma troppo poca
di Silvia Truzzi
Le
due manifestazioni che si sono svolte in contemporanea a Roma e Milano
domenica scorsa sarebbero in teoria una buona notizia. E in parte lo
sono. Non tanto per il consueto balletto di cifre sull’adesione (è
incredibile che non esista un sistema che conta le persone con
ragionevole certezza) quanto perché testimoniano che a sinistra esiste
ancora qualche forma di vita. O meglio, qualche forma di vita fuori
dalla scatola magica della tv dove resiste una “narrazione” largamente
nostalgica. A Roma il Pd prova a ripartire dalla piazza più equivoca che
esista: piazza del Popolo. Sembra una barzelletta perché il guaio della
attuale classe dirigente democratica (non solo Renzi e compagnia) è la
siderale distanza dai ceti più marginali della società e dai loro
problemi di sopravvivenza. Si parla, non a caso, di congresso non come
momento di riflessione (e dibattito, come succedeva quando esistevano le
tesi congressuali) ma come scontro di potere tra correnti, più o meno
dichiarate. Di un segretario come di un leader, non come il
rappresentante di un’idea di mondo, di società. Da marzo a oggi – e
sembrava un’impresa impossibile – il Pd continua a scendere nei sondaggi
(l’ultima rilevazione effettuata lunedì da Swg per il Tg di La7 lo dava
al 15,7%).
A Milano,invece, piazza Duomo era tutta colorata di
rosso per una manifestazione indetta da Anpi, Aned e Sentinelli,
l’associazione nata nel 2014 in contrapposizione alle ultracattoliche
“sentinelle in piedi”. Si protestava contro i messaggi d’odio e razzismo
del governo a trazione leghista. I valori sono certamente un buon
terreno su cui fondare la protesta e l’opposizione, specialmente mentre
le opposizioni “istituzionali” appaiono smarrite. E qui, sul terreno del
disorientamento, bisogna chiamare in causa non solo il Pd, ma anche
tutto quello che si è aggregato, scisso e poi di nuovo riunito a
sinistra del Pd. Non basta, a nessuno, urlare al pericolo fascista, al
regime, al colpo di Stato autoritario ogni cinque minuti. Non basta
nemmeno dire che bisogna fare autocritica o che la gente non ha capito
le cose fatte dagli esecutivi di centrosinistra. L’idea che siano gli
elettori a essere incolpati è l’ultima frontiera del tafazzismo
irresponsabile. La penultima era il popcorn di Renzi. Un’ideona: sempre i
sondaggi svelano che i consensi delle forze di governo superano, dopo
cinque mesi, il 62%.
C’è sicuramente un’opinione pubblica di
sinistra che non si vuole più turare il naso e che non si accontenta di
dire che sono tornati i fascisti (che per ora non sono tornati). E
questo accade perché i valori civili, l’unico terreno su cui la sinistra
ha lavorato negli ultimi anni, non sono la prima preoccupazione di una
gran parte della popolazione che si sente abbandonata.
Qualche
giorno fa la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima un pezzo del
Jobs act, la parte in cui fissava un indennizzo fisso per il
licenziamento ingiusto (il giudice dovrà decidere caso per caso). Lo
ricordiamo qui perché abolire l’articolo 18 (diritto al reintegro) è
stato un suicidio per una sinistra che ha deciso di adottare le parole
d’ordine di quelli che un tempo erano nemici: non più tutela del lavoro,
ma flessibilità; meritocrazia (concetto vuoto) al posto
dell’uguaglianza. Il guaio è che, a lungo andare, non è possibile
organizzare un’area politica attorno al programma “andare a braccetto
coi manager multimiliardari, ma anche coi disoccupati e chi guadagna
1.200 euro al mese” (e, in caso di problemi, tenersi stretti ai primi).
Com’è noto i secondi e i terzi contano meno, ma sono di più: il che
tende ad avere una certa rilevanza quando si aprono le urne.