il manifesto 25.10.18
La diseguaglianza si combatte migrando
Report.
L’ultimo rapporto Fao studia le relazioni tra migrazioni, sicurezza
alimentare e crescita economica. Dice che solo riconoscendo il diritto a
migrare si può «aiutarli a casa loro»
di Rachele Gonnelli
La
Terra gira. Nel senso che siamo tutti – o quasi – un po’ sfollati, un
po’ migranti. Dei trentuno Paesi analizzati nell’arco quasi di un
trentennio nell’ultimo rapporto della Fao, di pochi giorni fa, più del
cinquanta per cento delle popolazioni hanno dovuto, o voluto,
abbandonare le proprie case – la casa dove si è nati e si è trascorsa la
propria infanzia – per andare altrove almeno una volta nella vita,
anche solo per istruirsi o per un lavoro stagionale. Solo dai Paesi in
via di sviluppo si parla di 1,3 miliardi di persone in spostamento.
D’altra parte anche all’interno dell’Unione europea alla fine del 2016 i
migranti interni erano 20,4 milioni. Questo movimento comporta costi
sociali ma anche benefici, considerando che, come ha ricordato il
segretario generale dell’Onu António Guterres, «c’è uno stretto legame
tra migrazioni e lotta alla povertà e alle diseguaglianze, incluse
quelle tra uomo e donna». Nel rapporto Fao si precisa: «La ripartizione
molto ineguale delle opportunità nel mondo guida le migrazioni interne e
internazionali».
È RIDUTTIVO parlare di «migrante economico»,
tutti lo sono ma le motivazioni sono sempre un mix: la Fao preferisce
parlare solo di «migranti in interni» e «migranti internazionali». Anche
visto che nove rifugiati su dieci provengono da Paesi poveri e per lo
più da aree rurali, non è solo a causa di un aumento della frequenza di
eventi naturali catastrofici come siccità e alluvioni che si spostano.
Lo spostamento delle persone, in via temporanea o permanente, da un’area
agricola a una non agricola è spesso motivata dalla ricerca di un
mercato del lavoro con salari «supposti» più alti, si dice. E anche
dalla ricerca di servizi pubblici «più numerosi e di più alta qualità,
specialmente per quanto riguarda la sanità e l’istruzione».
C’È
POI UN FLUSSO DI RITORNO, sia di rimesse alle famiglie sia di
conoscenze, che modifica in meglio le realtà di destinazione,
specialmente se rurali, portando ad esempio magazzini, frigoriferi,
conoscenze tecnologiche e una migliore programmazione della semina.
Per
capire cosa muove le persone e come si modificano i flussi, bisogna in
sostanza superare la teoria classica basata sulla codifica di push and
pull factor, fattori di attrazione e di repulsione, elaborata da Everett
Lee nel lontano 1966 su cui poggiano le visioni dei flussi migratori
come qualcosa di sostanzialmente negativo e arrestabile – e che ancora
ispira i rapporti di Frontex ndr – ammettendo invece una circolarità
delle dinamiche migratorie e un mix di fattori d’innesco del flusso, che
includono la possibilità di integrazione nell’ambiente sociale, i costi
del viaggio, le distanze da percorrere.
IN QUESTI MOVIMENTI
circolari si determinano trasformazioni strutturali delle società
d’origine, di passaggio e di approdo. C’è da dire che solo una magra
porzione del flusso migratorio dal Sud del mondo è diretto in Europa.
Dal 1990 al 2015 i migranti internazionali sono aumentati
complessivamente da 153 milioni a 248 milioni di persone ma solo il 35% è
indirizzato verso i Paesi più sviluppati, mentre il 38% si è diretto in
altri Paesi in via di sviluppo – la cosiddetta «migrazione Sud-Sud» –
mentre la stragrande maggioranza si è spostata da una regione all’altra
del proprio Paese. Dallo studio Fao emerge però una stretta correlazione
tra le migrazioni interne e quelle internazionali: è più facile che chi
ha già fatto le valigie una volta per spostarsi all’interno del proprio
Paese, magari a causa di un terremoto o dello scoppio di un conflitto
armato regionale – i conflitti interni sono aumentati negli ultimi 10
anni del 125% mentre quelli tra Stati “solo” del 60% e due su cinque
proseguono per almeno vent’anni – decida poi di proseguire oltre
confine.
NON SONO I PIÙ POVERI, comunque, abitanti delle zone
rurali più depresse, ad andarsene. Al contrario molto spesso sono i
giovani più istruiti e dinamici ad essere scelti per incarnare
l’investimento di tutta la famiglia d’origine in un viaggio volto a
migliorare le capacità di protezione della famiglia stessa dai rischi e
in direzione di un miglioramento delle condizioni del gruppo. Perciò,
dice la Fao: «La migrazione rurale continua ad essere un elemento
essenziale del processo di sviluppo economico e sociale».
LE
DINAMICHE FEMMINILI nel fenomeno migratorio colpiscono per la loro
particolarità. La componente femminile rappresenta ormai la metà dei
flussi migratori internazionali e ad esempio dall’Africa subsahariana è
addirittura prevalente tra le ragazzine addirittura pre-quindicenni,
prima dello sviluppo. Le donne migranti sono le meno portate a ritornare
sui loro passi, e non solo nei Paesi di provenienza in via di sviluppo,
anche dagli Stati dell’Europa dell’Est tendenzialmente più patriarcali
come l’Albania. Eppure anche quando non partono le donne sono lo stesso
il fattore di catalizzazione del cambiamento perché spesso destinatarie
delle rimesse con cui, oltre a garantire una vita migliore, una casa più
igienica, accesso all’acqua potabile, alla luce, alla scuola ai figli,
possono intraprendere piccole attività commerciali per integrare gli
scarsi proventi dei campi.
I RIMPATRI FORZATI che piacciono tanto a
governanti nostrani sono invece considerati dall’agenzia per
l’alimentazione in sostanza alla stregua di un ostacolo, di un
impedimento, un costo sociale come le migrazioni forzate. Perché al fine
di incentivare i vantaggi della migrazione occorre che sia «libera e
responsabile» e che i ritorni siano positivi sia per l’individuo
migrante sia per le comunità locali. Solo così il ritorno porterà in
dote i frutti di competenze e esperienze del viaggio.
La Fao
celebrando la Giornata mondiale dell’alimentazione del 16 ottobre e con
la Giornata mondiale di lotta alla povertà del 17 ottobre, ricorda i 17
Sustainable Development Goals per l’Agenda 2030. Tra questi otto
riguardano le migrazioni e impegnano i 193 Paesi delle Nazioni Unite –
naturalmente Italia inclusa – a «facilitare una ordinata, sicura,
regolare e responsabile mobilità delle persone».