giovedì 25 ottobre 2018

il manifesto 25.10.18
Cucchi, «questa storia è costellata di falsi». Altri indagati nell’Arma
Processo bis. Il pm Musarò deposita gli atti dell’inchiesta sul depistaggio. Tra gli accusati anche il comandante del Gruppo carabinieri Roma. Il Guardasigilli Bonafede, in udienza, incontra Ilaria: «Giustizia presto»
di Eleonora Martini


«Questa storia è costellata di falsi, iniziata dopo il pestaggio e proseguita in maniera ossessiva anche dopo la morte di Stefano Cucchi». È un vero e proprio sistema illegale finalizzato al depistaggio, quello descritto dal pm Giovanni Musarò in apertura dell’udienza di ieri del processo bis a carico di cinque carabinieri imputati a vario titolo per la morte del giovane geometra romano.
Un’udienza particolarmente significativa, a cui ha assistito in parte anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede – nell’ambito di «un ciclo di visite a sorpresa nei luoghi della buona giustizia» – che si è fermato a parlare con Ilaria Cucchi asserendo di voler lavorare affinché casi come quello di Stefano possano avere «giustizia in tempi brevi», anche senza la caparbietà e la determinazione dimostrate dalla famiglia della vittima.
UN SISTEMA INTERNO all’Arma, quello di cui ha parlato ieri il pm Musarò, che si starebbe rivelando via via che prosegue l’inchiesta integrativa aperta dalla procura di Roma dopo la denuncia di uno dei militari imputati, Francesco Tedesco, e dopo le ammissioni fatte davanti alla stessa Corte D’Assise di uno dei carabinieri della caserma di Tor Sapienza a cui venne ordinato di falsificare il suo verbale, Francesco Di Sano.
Dagli atti depositati ieri dal pm, emerge la lista degli ultimi indagati: sarebbero cinque uomini dell’Arma, compreso un colonnello, e un avvocato. Il più alto in grado – al momento – è il tenente colonnello Francesco Cavallo, all’epoca capo ufficio comando del Gruppo carabinieri Roma. Perché è da lì che sarebbe partito l’«ordine gerarchico» di cui parlava Di Sano e che sarebbe poi passato al tenente colonnello Luciano Soligo, comandante della Compagnia Talenti Montesacro dalla quale dipendeva la stazione di Tor Sapienza, a capo della quale c’è il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola.Tra gli indagati, oltre ai nomi appena fatti, ci sarebbe anche l’avvocato Gabriele Giuseppe Di Sano.
«La “regia” in quel momento veniva dal Gruppo di Roma, circostanza confermata dal fatto che Soligo non cambiò i files delle due annotazioni sul posto (cioè presso il comando di Tor Sapienza) ma i files furono trasmessi al Gruppo e tornarono modificati dal Gruppo», è la testimonianza, raccolta negli atti, di Gianluca Colicchio, uno dei carabinieri che tennero in custodia Cucchi nella caserma di Tor Sapienza, e che racconta di aver ricevuto anch’egli l’ordine da Cavallo di cambiare la sua annotazione di servizio, ma dice di non aver obbedito.
GLI INQUIRENTI HANNO POI trovato riscontro della riunione «tipo alcolisti anonimi» (così l’ha definita Colombo Labriola, interrogato a lungo nei giorni scorsi) che si sarebbe svolta il 30 ottobre 2009, otto giorni dopo la morte di Cucchi, al comando provinciale di Roma, convocata dal generale Vittorio Tomasone (non indagato).
Alla riunione presero parte i comandanti di tutte le caserme coinvolte e quelli gerarchicamente competenti: oltre a Colombo Labriola – che racconta – c’erano «il comandate del Gruppo Roma Alessandro Casarsa, il comandate della compagnia Montesacro Luciano Soligo, il comandante di Casilina Paolo Unali, il maresciallo Mandolini e tre-quattro carabinieri della stazione Appia. Da una parte c’erano il generale Tomasone e il colonnello Casarsa, mentre gli altri erano tutti dall’altra parte. Ognuno a turno si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che avevano avuto nella vicenda Cucchi. Ricordo che uno dei carabinieri di Appia, che aveva partecipato all’arresto, aveva un eloquio poco fluido, non era molto chiaro. Un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto – ha concluso Colombo – Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore certamente non si sarebbe spiegato con un magistrato».
Dalle intercettazioni emergerebbe anche una frase impressionante pronunciata da uno degli imputati, Vincenzo Nicolardi (accusato di calunnia) che disse: «Magari morisse, li mortacci sua», riferendosi a Cucchi che lamentava forti dolori mentre era rinchiuso in una cella di Tor Sapienza e, «all’ospedale non può andare per fatti suoi». Condizioni di salute, quelle di Stefano, confermate ieri in udienza dal medico di Regina Coeli, Rolando Degli Angioli, che visitò Cucchi e ne prescrisse il ricovero immediato in un ambulatorio esterno. «Rimasi allibito – ha testimoniato il medico – quando seppi che era tornato dal Fatebenefratelli con due vertebre rotte, senza che gli avessero fatto le radiografie che avevo prescritto».