il manifesto 24.10.18
Popolo costituente e migrante
Il
diritto a emigrare ha radici antiche, teoriche e politiche, che si
scontrano con la miseria xenofoba del presente. Uno stralcio tratto
dall’ultimo numero di «Critica marxista»
di Luigi Ferrajoli
Il
principale segno di cambiamento manifestato finora dall’attuale
sedicente «governo del cambiamento» è la politica ostentatamente
disumana e apertamente illegale da esso adottata nei confronti dei
migranti. Di nuovo il veleno razzista dell’intolleranza e del disprezzo
per i «diversi» sta diffondendosi non solo in Italia ma in tutto
l’Occidente, nell’Unione Europea e negli Stati Uniti, quale veicolo di
facile consenso nei confronti degli odierni populismi e delle loro
politiche di esclusione.
È SU QUESTO TERRENO che rischia oggi di
crollare l’identità civile e democratica dell’Italia e dell’Europa. Le
destre protestano contro quelle che chiamano una lesione delle nostre
identità culturali da parte delle «invasioni» contaminanti dei migranti.
In realtà esse identificano tale identità con la loro identità
reazionaria: con la loro falsa cristianità, con la loro intolleranza per
i diversi, in breve con il loro più o meno consapevole razzismo.
Laddove, al contrario, sono proprio le politiche di chiusura che stanno
deformando e deturpando l’immagine dell’Italia e dell’Europa, che sta
infatti vivendo una profonda contraddizione: la contraddizione delle
pratiche di esclusione dei migranti quali non-persone non soltanto con i
valori di uguaglianza e libertà iscritti in tutte le sue carte
costituzionali e nella stessa Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione, ma anche con la sua più antica tradizione culturale.
Il
diritto di emigrare fu teorizzato dalla filosofia politica occidentale
alle origini dell’età moderna. Ben prima del diritto alla vita formulato
nel Seicento da Thomas Hobbes, il diritto di emigrare fu configurato
dal teologo spagnolo Francisco de Vitoria, nelle sue Relectiones de
Indis svolte nel 1539 all’Università di Salamanca, come un diritto
naturale universale. Sul piano teorico questa tesi si inseriva in una
edificante concezione cosmopolitica dei rapporti tra i popoli informata a
una sorta di fratellanza universale. Sul piano pratico essa era
chiaramente finalizzata alla legittimazione della conquista spagnola del
Nuovo mondo: anche con la guerra, in forza del principio vim vi
repellere licet, ove all’esercizio del diritto di emigrare fosse stata
opposta illegittima resistenza. Tutta la tradizione liberale classica,
del resto, ha sempre considerato lo jus migrandi un diritto
fondamentale. John Locke fondò su di esso la garanzia del diritto alla
sopravvivenza e la stessa legittimità del capitalismo: giacché il
diritto alla vita, egli scrisse, è garantito dal lavoro, e tutti possono
lavorare purché lo vogliano, facendo ritorno nelle campagne, o comunque
emigrando nelle «terre incolte dell’America», perché «c’è terra
sufficiente nel mondo da bastare al doppio dei suoi abitanti».
KANT,
a sua volta, enunciò ancor più esplicitamente non solo il «diritto di
emigrare», ma anche il diritto di immigrare, che formulò come «terzo
articolo definitivo per la pace perpetua» identificandolo con il
principio di «una universale ospitalità». E l’articolo 4 dell’Acte
constitutionnel allegato alla Costituzione francese del 1793 stabilì che
«Ogni straniero di età superiore a ventuno anni che, domiciliato in
Francia da un anno, viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà, o
sposi una cittadina francese, o adotti un bambino, o mantenga un
vecchio, è ammesso all’esercizio dei diritti del cittadino».
Lo
ius migrandi è da allora rimasto un principio elementare del diritto
internazionale consuetudinario, fino alla sua già ricordata
consacrazione nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del
1948. Fino a che l’asimmetria non si è ribaltata. Oggi sono le
popolazioni fino a ieri colonizzate che fuggono dalla miseria provocata
dalle nostre politiche. E allora l’esercizio del diritto di emigrare è
stato trasformato in delitto.
Siamo perciò di fronte a una
contraddizione gravissima, che solo la garanzia del diritto di emigrare
varrebbe a rimuovere. Il riconoscimento di questa contraddizione
dovrebbe non farci dimenticare quella formulazione classica, cinicamente
strumentale, del diritto di emigrare: perché la sua memoria possa
quanto meno generare – nel dibattito pubblico, nel confronto politico,
nell’insegnamento nelle scuole – una cattiva coscienza
sull’illegittimità morale e politica, prima ancora che giuridica, delle
nostre politiche e agire da freno sulle odierne pulsioni xenofobe e
razziste.
QUESTE POLITICHE crudeli stanno avvelenando e
incattivendo la società, in Italia e in Europa. Stanno seminando la
paura e l’odio per i diversi. Stanno screditando, con la diffamazione di
quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è
in pericolo di vita. Stanno fascistizzando il senso comune. Stanno, in
breve, ricostruendo le basi ideologiche del razzismo; il quale, come
affermò lucidamente Michel Foucault, non è la causa, bensì l’effetto
delle oppressioni e delle violazioni istituzionali dei diritti umani: la
«condizione», egli scrisse, che consente l’«accettabilità della messa a
morte» di una parte dell’umanità. Che è il medesimo riflesso circolare
che ha in passato generato l’immagine sessista della donna e quella
classista del proletario come inferiori, perché solo in questo modo se
ne poteva giustificare l’oppressione, lo sfruttamento e la mancanza di
diritti. Ricchezza, dominio e privilegio non si accontentano di
prevaricare. Pretendono anche una qualche legittimazione sostanziale.
Un
secondo effetto è non meno grave e distruttivo. Consiste in un
mutamento delle soggettività politiche e sociali: non più le vecchie
soggettività di classe, basate sull’uguaglianza e sulle lotte comuni per
comuni diritti, ma nuove soggettività politiche di tipo identitario
basate sull’identificazione delle identità diverse come nemiche e sul
capovolgimento delle lotte sociali: non più di chi sta in basso contro
chi sta in alto, ma di chi sta in basso contro chi sta ancora più in
basso. È un mutamento che sta minando le basi sociali della democrazia.
Una politica razionale, oltre che informata alla garanzia dei diritti,
dovrebbe muovere, realisticamente, dalla consapevolezza che i flussi
migratori sono fenomeni strutturali e irreversibili, frutto della
globalizzazione selvaggia promossa dall’attuale capitalismo.
DOVREBBE
anzi avere il coraggio di assumere il fenomeno migratorio come
l’autentico fatto costituente dell’ordine futuro, destinato, quale
istanza e veicolo dell’uguaglianza, a rivoluzionarie i rapporti tra gli
uomini e a rifondare, nei tempi lunghi, l’ordinamento internazionale. Il
diritto di emigrare equivarrebbe, in questa prospettiva, al potere
costituente di questo nuovo ordine globale: giacché l’Occidente non
affronterà mai seriamente i problemi che sono all’origine delle
migrazioni se non li sentirà come propri. I diritti fondamentali, come
l’esperienza insegna, non cadono mai dall’alto, ma si affermano solo
allorquando la pressione di chi ne è escluso alle porte di chi ne è
incluso diventa irresistibile. Per questo dobbiamo pensare al popolo dei
migranti come al popolo costituente di un nuovo ordine mondiale.
*
SCHEDA: Una rivista che legge le trasformazioni
Il
testo integrale di Luigi Ferrajoli – con il titolo: «La questione
migranti: Italia incivile, Europa incivile» – apre dopo l’editoriale di
Aldo Tortorella sulla fase politica («San Giorgio, il drago e i
mostriciattoli di turno») il n. 5 della rivista «Critica Marxista», dove
alcuni temi di attualità sono affrontati da Tiziano Rinaldini («Il
“decreto dignità” e i gravi ritardi
della sinistra sul lavoro») Alberto
Leiss («Il baratro di Genova»), Francesco Garibaldo («Fca e Fca Italia
dopo Marchionne: un’eredità difficile»), Romeo Orlandi (La sinistra, la
Cina, la globalizzazione), infine E. Igor Mineo («Le sinistre e la crisi
dell’Unione europea»). Il «Laboratorio culturale» è aperto da un saggio
di Ida Dominijanni sul dibattito femminista in Occidente («Femminismo
in/addomesticabile»), mentre Daniele Caputo scrive su «Il regresso
oligarchico». Riccardo Bellofiore ricorda la figura e il pensiero di
Lucio Magri («Provarci ancora, fallire di nuovo, ma fallire meglio»