Corriere 24.10.18
Meglio non abusare della parola «popolo»
di Giuseppe De Rita
Coltivo
una insofferenza, non so quanto collettivamente condivisa: non ne posso
più dell’eccessivo uso che si fa, nella dialettica politica, della
parola «popolo». Tutto è del popolo (il governo, il premier, la manovra
di bilancio), ma nessuno ha il coraggio di chiedersi cosa ci sia dietro
quel generico «popolo». Per carità, il genericismo è obbligato quando si
vuole dare valore politico a dinamiche sociali complesse, ma rischia di
diventare solo un riferimento retorico (ai poveri, agli esclusi, agli
oppressi), magari con una veloce incidenza nell’opinione pubblica, ma
destinato ad una decrescente incisività nel medio termine.
Mi
permetto allora di sperimentare uno slittamento semantico: cioè di non
parlare di popolo, ma di «popolazione italiana adulta», cioè di quella
maggioranza attiva (fra i 30 e i 65 anni di età) che manda avanti la
ordinaria dinamica dell’economia, che vive più o meno felicemente la
quotidianità del sociale, e che peraltro fa maggioranza elettorale. Per
questo ultimo motivo è comprensibile che in molti ci si occupi di quanto
la popolazione adulta (30-35 milioni di persone) possa ondeggiare verso
contrastanti orientamenti politici. Ma comincia anche ad affermarsi una
attenzione a quanto possa oggi significare l’aggettivo «adulto»
applicato agli atteggiamenti e ai comportamenti di quel maggioritario
segmento sociale. In proposito, lontano dai rimbombi della comunicazione
di massa, si comincia a sospettare che in tali atteggiamenti e
comportamenti non ci sia quella maturità umana che nella storia si è
identificata con il temine «adulto».
Per decenni, se non per
secoli, si diventava adulto quando si erano terminati gli studi; si
cominciava a lavorare; si andava a vivere per proprio conto; si decideva
di comprare una casa; si presagiva una prospettiva di matrimonio; si
coltivava la possibilità di una carriera professionale e di un
avanzamento sociale. Raggiungendo con tutto ciò un equilibrio di vita e
di stabilità nel lungo periodo che potevamo chiamare sia maturità che
età adulta. Questi tradizionali convincimenti non hanno più riscontro
nella realtà dei fatti: il ciclo degli studi non finisce mai; il lavoro
non si trova se non in spezzoni piccoli e senza continuità; è sempre più
difficile lasciare il grembo sicuro dei genitori; si è sempre più
restii a sposarsi ed a fare nuova casa e nuova famiglia (ci si sposa
sempre di meno e addirittura ci si sposa solo se si ha la garanzia di
poter sciogliere il vincolo); l’avanzamento di carriera è sempre meno
possibile, essendosi frenata la mobilità sociale (il cosiddetto
ascensore sociale).
Va quindi preso atto che le dinamiche antiche
del diventare adulto sono sempre più deboli, così la nostra «popolazione
adulta» non ha passato le prove di entrata nella mentalità adulta e
matura. Anzi, in ricerche e sondaggi recenti, riscontriamo una
soggettività così spinta, quasi adolescenziale, da fomentare il sospetto
(almeno in noi più anziani) che ci sia in essa una consistente vena di
immaturità, solo che si pensi che in essa ci sono 6 milioni di persone
che hanno scelto e deciso di tatuarsi, 4 milioni di persone che
consumano cannabis; 3 milioni di persone che usano integratori
alimentari, e oltre mezzo milione che sono patologicamente dipendenti
dal giuoco e dalle scommesse, sono cioè in piena ludopatia.
Ci
troviamo allora in presenza di una figura (la popolazione adulta) che
tende a caratterizzarsi in una differenziata esperienzialità dei singoli
e che difficilmente non può diventarne caratteristica sociale
complessiva, e compattarsi in una netta configurazione di «popolo»
sempre meno quindi utilizzabile.
La cosa, mi rendo conto, è
complicata, ed anche discutibile, specialmente nel mondo dei social; ma è
proprio tale complicazione che ci dovrebbe spingere a un uso non
eccessivo del termine «popolo», sostenendo e stravolgendo un concetto
che sta perdendo di consistenza chiara e forte. Sono lontani i tempi in
cui Moro parlava di un impegno comune di «governo e popolo»; forse non
ci tornerebbe sopra, ma sicuramente non andrebbe indietro ad unificare i
due termini (governo del popolo), il che andrebbe contro la dignità di
due mondi vitali ognuno per proprio conto.