il manifesto 24.10.18
Migranti d’America, la carica dei 7.500 sfida quattro governi
La
ultima frontera. La carovana degli honduregni in Messico dopo 10 giorni
di marcia. Destinazione Usa. Trump: «Emergenza». E c’è una seconda
carovana in arrivo. La presenza dei media offre la protezione che di
solito qui manca. Ma molti finiscono comunque in arresto
di Fabrizio Lorusso
León
(Messico). È UN ESODO INEDITO per la quantità di persone che si sono
unite per inseguire il “sogno americano” e, dopo dieci giorni
consecutivi di marcia, gli ultimi tre in Messico tra Ciudad Hidalgo e
Tapachula, gli integranti della carovana hanno deciso di fare tappa a
Huixtla, nel Chiapas, a 70 km dal confine. «Oggi (ieri, ndr) riposano
tutto il giorno e la notte, le loro forze sono esaurite», dice Rodrigo
Abeja della Ong Pueblos sin Fronteras che accompagna la carovana.
Grazie
alla solidarietà della gente e ad alcune strutture preposte dalle
autorità, i migranti hanno potuto lavarsi e rifocillarsi prima di
passare la notte in rifugi temporanei e in accampamenti improvvisati
nelle piazze del centro. Mentre si preparano per altri 2000 km di
cammino, arriva la notizia di una seconda carovana di 1.500 persone
partita domenica, che sta attraversando il Guatemala.
LA PRESENZA
DI GIORNALISTI, Ong e attivisti gli sta fornendo quella protezione che,
normalmente, manca totalmente in Messico, paese che è diventato il
filtro migratorio degli Usa, un luogo di abusi terribili e violenze
contro le persone in transito da parte delle autorità migratorie e della
criminalità organizzata.
La carovana migrante, composta per oltre
la metà da donne e bambini, ha fatto ingresso domenica in Messico non
senza difficoltà. Minacciati da Trump, che vuole militarizzare la
frontiera statunitense e cancellare gli aiuti economici ai paesi
centroamericani, e osteggiati dalle polizie messicane, del Guatemala e
dell’Honduras, in tanti hanno scelto di entrare senza un visto
umanitario che, comunque, non è concesso facilmente.
Dunque solo
pochi sono passati dai filtri dell’Istituto nazionale della migrazione
messicana lungo il ponte sul fiume Suchiate, al confine col Guatemala:
le file erano lunghissime e gli scaglionamenti imposti dalle autorità
servivano più che altro a rallentare gli ingressi e ad estenuare chi era
in attesa sul ponte. La maggior parte ha attraversato il fiume a nuoto o
su zattere precarie rischiando la pelle.
CIRCA MILLE HONDUREGNI
sono stati convinti dalle autorità messicane a salire su autobus che li
ha portati in un vero e proprio centro di reclusione e Tapachula, 37 km a
nord dell’ingresso di frontiera. Per loro la carovana è finita, restano
privi di comunicazione con l’esterno e dovranno attendere da 45 a 90
giorni per sapere se verranno deportati o se otterranno l’asilo. Varie
associazioni per la difesa dei migranti, come American Friends Service
Committee e Servizi gesuiti ai rifugiati, hanno emesso un comunicato in
cui denunciano questi arresti arbitrari e deportazioni di massa, il
rifiuto di avviare speditamente le pratiche per l’asilo, l’insufficienza
di aiuti umanitari e i respingimenti, anche violenti, alla frontiera.
«Stiamo
scappando dal nostro paese per le gang maras, la violenza, la povertà,
ma ne vale la pena, alla fine arriva la ricompensa, una vita migliore,
dobbiamo andare avanti», dice una donna. «Ringrazio che il Guatemala e
il Messico per ora ci hanno trattato bene, ma la mia meta finale è negli
Stati Uniti», conclude.
Non tutti sono stati, però, fortunati.
Lunedì il 25enne honduregno Melvin Josué è morto dopo essere scivolato
da un camion in movimento e aver battuto la testa sull’asfalto. A un
altro suo concittadino è toccata la stessa sorte per via del calore
estremo e della mancanza di energie. «Non possiamo tornare indietro, ci
ammazzerebbero», commentano alcuni compagni di viaggio.
«NON SIAMO
TERRORISTI, né delinquenti, vogliamo solo guadagnarci la vita», spiega
un uomo alle telecamere in risposta a Trump che, in piena campagna
elettorale per le mid-term, non ha esitato a denunciare presunte
infiltrazioni di «terroristi mediorientali».
Il presidente
messicano Peña li ha invitati «a non uscire dalla legalità» e a chiedere
l’asilo, ma i rifugiati di questo nuovo esodo centroamericano hanno
capito che si tratta di strategie dilatorie per compiacere Trump e
continuano il loro viaggio perché ormai non hanno più niente da perdere.