Il Fatto 24.10.18
Non solo Cucchi: il silenzio è di Stato
di Gian Giacomo Migone
Ilaria
Cucchi ha reso un ennesimo servizio alla sicurezza democratica del
nostro Paese (in ultima analisi, alla stessa Arma) quando, a conclusione
del loro incontro, ha accusato pubblicamente il comandante generale dei
carabinieri, Giovanni Nistri, di essersi accanito contro coloro che
hanno trovato il coraggio per accusare – in tribunale, Francesco Tedesco
– i responsabili delle violenze mortali subìte da suo fratello, in
stato di arresto. In tal modo si è chiarito come, anche di fronte
all’evidenza dei fatti, successivamente ricostruiti, gli alti comandi
non abbiano rinunciato alla logica corporativa che costituisce purtroppo
una costante che si ripete nella storia degli apparati di sicurezza del
nostro Paese. Sempre secondo una logica, intrinsecamente vile, in cui
il più forte colpisce il più debole, che si tratti della vittima inerme
di violenza o del semplice milite che la rifiuta, obbedendo alla propria
coscienza; con la pretesa di ammantarsi di un male inteso senso dello
Stato che, in democrazia, esigerebbe trasparenza e un senso del dovere
proporzionato ai livelli di comando.
Purtroppo questa sindrome
attraversa tutta la storia del nostro Paese, anche nel mutare dei regimi
che lo hanno governato, con una ricorrenza che non può essere imputata
soltanto agli alti comandi militari. Si tratta, insomma, di un problema
di alta politica che investe le istituzioni in tutte le loro
articolazioni. L’elenco sarebbe lungo, anche se alcuni esempi, lontani
ma purtroppo anche recenti, bastano a confermarlo. Nel corso della Prima
Repubblica sono occorsi decenni d’impegno di storici indipendenti (in
primo luogo Angelo Del Boca) a desecretare gli archivi del ministero
degli Esteri e della Difesa che nascondevano l’uso di gas tossici nella
guerra di conquista dell’Abissinia, stupri e assassini commessi da
formazioni della milizia a seguito dell’attentato a Graziani, la fredda
eliminazione di un migliaio di monaci etiopi da parte dell’esercito.
Quando, nel corso di una missione di peacekeeping in Somalia, negli anni
Novanta, alcuni militari italiani e di altra nazionalità, per loro
ammissione – o, meglio, vanto perché ne diffusero la documentazione
fotografica a mo’ di trofeo di caccia – commisero violenze efferate nei
confronti di presunti ribelli somali, il ministro della Difesa canadese
fu costretto alle dimissioni, mentre un’apposita commissione
d’inchiesta, malgrado gli sforzi isolati di Tullia Zevi che ne fece
parte, fu l’occasione del totale insabbiamento da parte nostra. E dico
nostra, anche perché vivo tuttora con senso di colpa di non avere avuto
la capacità di ottenere un diverso risultato nella posizione di
responsabilità istituzionale che allora occupavo.
Del G8, della
Diaz e delle torture a Bolzaneto, molto è stato scritto e va
sottolineato che la magistratura genovese ha compiuto un lavoro
encomiabile nello sforzo di sanzionare alcuni diretti colpevoli. Ancora
una volta l’intreccio di poteri omertosi politico-istituzionali è
riuscito a far sì che i livelli superiori di responsabilità governativa e
di comando ne siano usciti non solo esenti, ma addirittura premiati.
Come se il vicequestore La Barbera e altri suoi colleghi presenti sul
campo, di propria iniziativa, senza ordini o gradimento superiore,
avessero aggredito a freddo manifestanti innocui, seminandovi prove
artefatte per poi consegnarli a camere di tortura. Persino l’attuale
capo della polizia, Franco Gabrielli, ha dovuto ammettere che, al posto
del suo predecessore allora in carica (Gianni De Gennaro), avrebbe
sentito il dovere di dimettersi e, aggiungo io, piuttosto che procedere
nella propria carriera, a capo dei Servizi segreti e, a oggi, presidente
di Leonardo. Ma ciò che più colpisce, anche a distanza di tempo, oltre
all’inconcludenza della stessa opposizione parlamentare dell’epoca, è il
fatto che, in quelle tragiche giornate di Genova, le forze d’ordine
abbiano lasciato il campo libero ai black bloc, armati di tutto punto,
che hanno messo a soqquadro la città, consentendo loro una comoda
ritirata.
Resterebbe da affrontare il tema connesso del ripetuto
abuso della ragion di Stato – com’è avvenuto in occasione del caso Abu
Omar, conclusosi con sole condanne in contumacia, peraltro non
perseguite – la cui storia richiede un attenzione specifica. Qui basta
richiamare il fatto che, ancora una volta, alcuni responsabili
funzionali di un atto di violenza, a cui è seguita una vicenda di
tortura, sono stati protetti ai più alti livelli dello Stato. Lo stesso
dicasi per quanto è avvenuto e sta avvenendo il Libia, sotto la
responsabilità di due ministri dell’Interno di diversa collocazione
(Marco Minniti e Matteo Salvini). Ancora una volta la repressione,
protetta nella sua irresponsabilità violenta, risulta venata da una
viltà sia morale che fisica. È scontato concludere che, per assicurare
al Paese una sicurezza conforme alla Costituzione, occorre una
rieducazione profonda sia nei ranghi di chi deve assicurarla sul campo
sia di buona parte di una classe dirigente, politica e istituzionale.