il manifesto 24.10.18
Un intellettuale della classe operaia, lucido e ironico
Il
ricordo. Aris Accornero, scomparso nella notte tra domenica e lunedì a
87 anni, nelle parole di chi fu suo «compagno di lotta e di pensiero».
«Faceva vera ricerca sul campo. Seguiva con passione le trasformazioni
del mondo del lavoro. Ma mai dimenticava di guardarle dal punto di vista
di classe, di parte»
di Mario Tronti
Aris
Accornero è stato, per me, un compagno di lotta e di pensiero. Due
dimensioni che conosceva bene, naturalmente e umanamente. Operaio,
figlio di operaio, della Riv, sperimenta presto quella condizione, che
ci consegna un tempo andato, di contrasti politici veri e di conflitti
centrali: la condizione di licenziato per rappresaglia. Proprio così:
rappresaglia. Non si poteva essere, negli anni Cinquanta, operaio e
comunista in fabbrica, tanto più come membro di commissione interna. I
capitalisti conoscono l’arte di produrre i loro nemici, con soprusi,
malversazioni, prepotenze. Poi, contano sul fatto che questi nemici
raramente riconoscono se stessi come tali. Con Aris Accornero gli è
andata male: cacciato dalla fabbrica, ha avuto modo di meglio
riconoscersi in conflitto con il capitale e ha cominciato ad attrezzare
le proprie armi per la lunga battaglia. E non ha più smesso, finché
l’altra notte non lo ha abbattuto «l’ultimo nemico», l’unico che vince
sempre, inesorabilmente.
SINDACALISTA, GIORNALISTA, cronista delle
condizioni di lavoro, che aveva conosciuto sulla propria pelle, e
oltre, ricercatore e analista, scienziato, con la testa applicata a
sviscerare le complesse questioni che il rapporto di produzione impone
dentro e fuori il processo lavorativo. Fatico a vedere Aris, come viene
definito in questi giorni, sociologo del lavoro. Era veramente un
intellettuale della classe operaia, è questa la definizione giusta, un
militante del movimento operaio, non testimone né solo indagatore, ma
combattente della lotta di classe. Una figura originalissima, non so
quante figure del genere si possano contare, a livello mondiale: da
operaio di fabbrica direttamente, senza laurea, a ordinario di
sociologia industriale, per di più alla Sapienza di Roma. Un salto
rivoluzionario, tipo la conquista del Palazzo d’Inverno. Corremmo tutti a
divertirci quel giorno a Ferrara, quando quella Università gli conferì
la laurea ad honorem. Era un orgoglio di classe vedere l’operaio in
cattedra, curiosamente vestito con i panni accademici dell’occasione.
Una casamatta conquistata, quando c’erano ancora le casematte e
soprattutto la volontà di conquistarle.
Era la stessa persona che
aveva scritto, opera prima, Reparto Confino, sull’Officina Stella rossa,
Fiat. Sì, perché come la dittatura mandava al confino gli antifascisti,
la rinata democrazia mandava al confino gli operai. Non si deve
dimenticare che Accornero partecipò da protagonista all’esperienza
dell’operaismo nei primi anni Sessanta.
Giornalista dell’Unità che
non poteva firmarsi con il suo nome, scriveva su Classe operaia
inventandosi fantasiosi pseudonimi, che traeva dai suoi antenati
piemontesi. Ed era un collaboratore essenziale, per la conoscenza
diretta dei problemi. L’operaio, licenziato per rappresaglia, è stato
uno studioso rigorosissimo. La cattedra se l’era meritata con i suoi
titoli. Le sue bibliografie erano corpose.
ERA UN TEMPERAMENTO
pignolo, preciso, lavorava sui fatti, i dati, i numeri. Faceva vera
ricerca sul campo. Seguiva con passione le immense trasformazioni che
investivano il mondo dell’impresa e del lavoro. Le conosceva tutte. Ma
mai dimenticava di guardarle e giudicarle dal punto di vista di classe e
quindi di parte. Quante volte sono andato a farmi spiegare le cose che
non capivo! Quante volte a farmi partecipe delle sue letture, che io non
conoscevo! Quante volte, a pranzo, a via Bormida, con Rita per
chiarirci le idee, su Italia, Europa, mondo, politica, partito!
Ci
sono due qualità, che tornavano sempre in evidenza, a frequentarlo:
lucidità e ironia. Era lucido, perché il suo approccio era empirico,
realistico, anti-ideologico. Apprezzava e nello stesso tempo correggeva
il mio pensare intuitivo. Ti richiamava a terra, anche se non
disprezzava affatto il platonico mondo delle idee. Tra l’altro era un
lettore di ottima letteratura, un ascoltatore di ottima musica.
ECCO,
SE DOVESSI DEFINIRLO fino in fondo, direi che era un rivoluzionario,
che sapeva essere riformista, quando le circostanze lo richiedevano.
Come penso debba essere, sempre, un vero rivoluzionario. E la sua ironia
era tagliente, spiccava, nella conversazione, delle frasette secche,
che colpivano dure, ma sempre con dietro il sorriso. Era elegante,
vestiva con cura, tipico dell’uomo del popolo che, quando si eleva, lo
fa con stile, al contrario del borghese, che quando si abbassa lo fa
rozzamente. Conosceva l’essere umano, disposizione indispensabile per
chi vuole produrre cultura. Mi colpì una volta una definizione che diede
di me, come una persona di poca dimestichezza con le posate per il
pesce. Una metafora, appunto sorridente, che coglieva e descriveva in
fondo le mie difficoltà di stare al mondo, in questo mondo.
C’ERA
UN’AMICIZIA POLITICA, questa strana profonda idea dell’amicizia. La sola
che riesce a dire qualcosa di più dell’umano. Quando Aris era giovane,
non ancora in compagnia, della sua, e nostra, Rita, veniva a passare il
Ferragosto a Ferentillo, accolto con immenso piacere nella mia numerosa e
rumorosa famiglia romana. Lui, piemontese, anzi astigiano, non proprio
in sintonia con la cucina romanesca, partecipava con gioia ai lunghi
pranzi, a base di tagliatelle al ragù, pollo coi peperoni, e finale
cocomerata, tra risa e lazzi. Il giorno prima ci ricordavamo di fornirci
di birra, perché Aris non beveva vino, nemmeno il leggero vinello dei
contadini umbri. Ma il pranzo veniva anticipato da camminate e soste e
chiacchierate sulle rive del fiume Nera. Aris era un provetto fotografo,
naturalmente con netta preferenza per il bianco e nero. Curava le foto,
inquadratura, luci, taglio, con la stessa perizia e precisione con cui
maneggiava una bibliografia sui temi del lavoro. Ho non so quanti album
di foto con i miei figli, i miei genitori, i miei parenti e con gli
amici di sempre, Aberto Asor Rosa, Umberto Coldagelli, Mauro Calise, e
relative famiglie, una piccola comunità che ha resistito alle intemperie
del tempo.
E A PROPOSITO DEL TEMPO. Voglio ricordare, tra i tanti
libri di Accornero che in questi giorni vengono richiamati, due titoli
emblematici, Era il secolo del lavoro e Quando c’era la classe operaia.
Penso proprio che nei prossimi decenni e per le prossime generazioni,
quando si parlerà di lavoro, comunque sarà tecnologicamente organizzato,
delle sue condizioni, delle sue prospettive, e forse di nuovo della sua
liberazione, si sarà costretti a dire anche: quando c’era Aris
Accornero….