mercoledì 24 ottobre 2018

ariecco sempre gli stramaledetti «cattocomunisti»... !!!

il manifesto 24.10.18
Un intellettuale della classe operaia, lucido e ironico
Il ricordo. Aris Accornero, scomparso nella notte tra domenica e lunedì a 87 anni, nelle parole di chi fu suo «compagno di lotta e di pensiero». «Faceva vera ricerca sul campo. Seguiva con passione le trasformazioni del mondo del lavoro. Ma mai dimenticava di guardarle dal punto di vista di classe, di parte»
di Mario Tronti


Aris Accornero è stato, per me, un compagno di lotta e di pensiero. Due dimensioni che conosceva bene, naturalmente e umanamente. Operaio, figlio di operaio, della Riv, sperimenta presto quella condizione, che ci consegna un tempo andato, di contrasti politici veri e di conflitti centrali: la condizione di licenziato per rappresaglia. Proprio così: rappresaglia. Non si poteva essere, negli anni Cinquanta, operaio e comunista in fabbrica, tanto più come membro di commissione interna. I capitalisti conoscono l’arte di produrre i loro nemici, con soprusi, malversazioni, prepotenze. Poi, contano sul fatto che questi nemici raramente riconoscono se stessi come tali. Con Aris Accornero gli è andata male: cacciato dalla fabbrica, ha avuto modo di meglio riconoscersi in conflitto con il capitale e ha cominciato ad attrezzare le proprie armi per la lunga battaglia. E non ha più smesso, finché l’altra notte non lo ha abbattuto «l’ultimo nemico», l’unico che vince sempre, inesorabilmente.
SINDACALISTA, GIORNALISTA, cronista delle condizioni di lavoro, che aveva conosciuto sulla propria pelle, e oltre, ricercatore e analista, scienziato, con la testa applicata a sviscerare le complesse questioni che il rapporto di produzione impone dentro e fuori il processo lavorativo. Fatico a vedere Aris, come viene definito in questi giorni, sociologo del lavoro. Era veramente un intellettuale della classe operaia, è questa la definizione giusta, un militante del movimento operaio, non testimone né solo indagatore, ma combattente della lotta di classe. Una figura originalissima, non so quante figure del genere si possano contare, a livello mondiale: da operaio di fabbrica direttamente, senza laurea, a ordinario di sociologia industriale, per di più alla Sapienza di Roma. Un salto rivoluzionario, tipo la conquista del Palazzo d’Inverno. Corremmo tutti a divertirci quel giorno a Ferrara, quando quella Università gli conferì la laurea ad honorem. Era un orgoglio di classe vedere l’operaio in cattedra, curiosamente vestito con i panni accademici dell’occasione. Una casamatta conquistata, quando c’erano ancora le casematte e soprattutto la volontà di conquistarle.
Era la stessa persona che aveva scritto, opera prima, Reparto Confino, sull’Officina Stella rossa, Fiat. Sì, perché come la dittatura mandava al confino gli antifascisti, la rinata democrazia mandava al confino gli operai. Non si deve dimenticare che Accornero partecipò da protagonista all’esperienza dell’operaismo nei primi anni Sessanta.
Giornalista dell’Unità che non poteva firmarsi con il suo nome, scriveva su Classe operaia inventandosi fantasiosi pseudonimi, che traeva dai suoi antenati piemontesi. Ed era un collaboratore essenziale, per la conoscenza diretta dei problemi. L’operaio, licenziato per rappresaglia, è stato uno studioso rigorosissimo. La cattedra se l’era meritata con i suoi titoli. Le sue bibliografie erano corpose.
ERA UN TEMPERAMENTO pignolo, preciso, lavorava sui fatti, i dati, i numeri. Faceva vera ricerca sul campo. Seguiva con passione le immense trasformazioni che investivano il mondo dell’impresa e del lavoro. Le conosceva tutte. Ma mai dimenticava di guardarle e giudicarle dal punto di vista di classe e quindi di parte. Quante volte sono andato a farmi spiegare le cose che non capivo! Quante volte a farmi partecipe delle sue letture, che io non conoscevo! Quante volte, a pranzo, a via Bormida, con Rita per chiarirci le idee, su Italia, Europa, mondo, politica, partito!
Ci sono due qualità, che tornavano sempre in evidenza, a frequentarlo: lucidità e ironia. Era lucido, perché il suo approccio era empirico, realistico, anti-ideologico. Apprezzava e nello stesso tempo correggeva il mio pensare intuitivo. Ti richiamava a terra, anche se non disprezzava affatto il platonico mondo delle idee. Tra l’altro era un lettore di ottima letteratura, un ascoltatore di ottima musica.
ECCO, SE DOVESSI DEFINIRLO fino in fondo, direi che era un rivoluzionario, che sapeva essere riformista, quando le circostanze lo richiedevano. Come penso debba essere, sempre, un vero rivoluzionario. E la sua ironia era tagliente, spiccava, nella conversazione, delle frasette secche, che colpivano dure, ma sempre con dietro il sorriso. Era elegante, vestiva con cura, tipico dell’uomo del popolo che, quando si eleva, lo fa con stile, al contrario del borghese, che quando si abbassa lo fa rozzamente. Conosceva l’essere umano, disposizione indispensabile per chi vuole produrre cultura. Mi colpì una volta una definizione che diede di me, come una persona di poca dimestichezza con le posate per il pesce. Una metafora, appunto sorridente, che coglieva e descriveva in fondo le mie difficoltà di stare al mondo, in questo mondo.
C’ERA UN’AMICIZIA POLITICA, questa strana profonda idea dell’amicizia. La sola che riesce a dire qualcosa di più dell’umano. Quando Aris era giovane, non ancora in compagnia, della sua, e nostra, Rita, veniva a passare il Ferragosto a Ferentillo, accolto con immenso piacere nella mia numerosa e rumorosa famiglia romana. Lui, piemontese, anzi astigiano, non proprio in sintonia con la cucina romanesca, partecipava con gioia ai lunghi pranzi, a base di tagliatelle al ragù, pollo coi peperoni, e finale cocomerata, tra risa e lazzi. Il giorno prima ci ricordavamo di fornirci di birra, perché Aris non beveva vino, nemmeno il leggero vinello dei contadini umbri. Ma il pranzo veniva anticipato da camminate e soste e chiacchierate sulle rive del fiume Nera. Aris era un provetto fotografo, naturalmente con netta preferenza per il bianco e nero. Curava le foto, inquadratura, luci, taglio, con la stessa perizia e precisione con cui maneggiava una bibliografia sui temi del lavoro. Ho non so quanti album di foto con i miei figli, i miei genitori, i miei parenti e con gli amici di sempre, Aberto Asor Rosa, Umberto Coldagelli, Mauro Calise, e relative famiglie, una piccola comunità che ha resistito alle intemperie del tempo.
E A PROPOSITO DEL TEMPO. Voglio ricordare, tra i tanti libri di Accornero che in questi giorni vengono richiamati, due titoli emblematici, Era il secolo del lavoro e Quando c’era la classe operaia. Penso proprio che nei prossimi decenni e per le prossime generazioni, quando si parlerà di lavoro, comunque sarà tecnologicamente organizzato, delle sue condizioni, delle sue prospettive, e forse di nuovo della sua liberazione, si sarà costretti a dire anche: quando c’era Aris Accornero….

il manifesto 24.10.18
Aris Accornero
L’icona della sinistra mi accolse con un sorriso dolcissimo
L'incontro con Aris Accornero. Ragazzo appena post-sessantottino, lo ricordo così, la prima volta, sul divano di via Bormida 5. Intimorito da quell’incontro con un’icona del movimento operaio, mi accolse con un sorriso
di Mauro Calise


Ci sono – un regalo della Storia – biografie simbolo. Che racchiudono lo spirito di un’epoca, di un mondo vitale, e ideale.
Aris Accornero ha incarnato – sul piano intellettuale e culturale – il contributo più duraturo del movimento operaio all’Italia. Quella tensione al riscatto sociale unita all’etica della responsabilità che ha formato la parte migliore della classe dirigente a sinistra. Con un plus, l’apertura mentale e la passione per la ricerca scientifica che hanno fatto dell’operaio Fiat licenziato per rappresaglia sindacale uno dei più autorevoli – e amati – sociologi del lavoro.
In Aris, la militanza politica è stata sempre – inestricabilmente – certosina vivisezione analitica. Indagini pionieristiche sul campo da cui nascevano le idee più fertili di una nuova stagione di pensiero. Spesso, anzi quasi sempre, eterodosse. Fin dagli esordi in quel think-tank straordinario dell’operaismo, i Quaderni rossi raccolti intorno a Raniero Panzieri. Nella Torino che sarebbe stata il crogiuolo del futuro italiano. E il tratto formativo distintivo della personalità e del carattere di Aris.
Risalgono a quegli anni i servizi fotografici a Palmiro Togliatti per conto dell’Unità, l’inizio di una sterminata e preziosissima raccolta di diapositive cult, oggi gelosamente archiviate nel computer di cui Accornero era stato un precursore. A Torino sono anche i prodromi di quel sodalizio culturale che legherà Accornero a MarioTronti, Alberto Asor Rosa, Umberto Coldagelli. E a Rita di Leo, la compagna simbiotica con cui ha condiviso ogni battito della sua mente.
Ciascuno con una identità spiccatissima sul palcoscenico della sinistra più influente e irriverente, eppure stretti in un indissolubile legame nella medesima sfida teorica. Decostruire e ricostruire gli orizzonti del movimento operaio.
Da Contropiano a Laboratorio politico sarà questa la mission impossible cui dedicheranno la vita. Senza perdere, però, mai il contatto quotidiano con il rapporto umano.
Ragazzo appena post-sessantottino, lo ricordo così, la prima volta, sul divano di via Bormida 5, lo stesso dove ho incrociato il suo sguardo appena qualche giorno fa. Intimorito da quell’incontro con un’icona del movimento operaio, mi accolse con un sorriso dolcissimo. Avevo ancora nelle orecchie la musica e le parole di Paolo Pietrangeli, «Io cerco l’uomo nuovo, l’hai incontrato?». Mi bastarono poche battute, per capire che era proprio così.

Il Fatto 24.10.18
La scelta di Sophia e i guai del compagno Mélenchon
Gauche in panne - Chikirou, ex direttrice della campagna elettorale di France Insoumise, accusata di aver gonfiato le fatture per 1,2 milioni di euro
di Luana De Micco


Quando alle 7 del mattino del 16 ottobre gli agenti di polizia sono entrati nell’appartamento di Jean-Luc Mélenchon con un permesso di perquisizione, il leader della France Insoumise non era solo. Con lui c’era una sua stretta collaboratrice, Sophia Chikirou. La notizia non è emersa subito, l’ha rivelata più tardi Mediapart, e del resto chi passa la notte a casa di Mélenchon è una questione che riguarda la pubblica opinione. L’attenzione si è concentrata sugli scatti d’ira del leader della gauche radicale contro i blitz dei poliziotti, anche nella sede del partito. Ma la notizia del giornale online ha senso: l’ex direttrice della campagna elettorale di Mélenchon è infatti al centro dell’inchiesta sui finanziamenti della campagna del 2017.
I giudici sospettano che la Chikirou abbia gonfiato le fatture emesse dalla sua società di comunicazione, Mediascop, circa 1,2 milioni di euro. Avrebbe per esempio fatturato 250 euro per caricare on line ogni discorso di Mélenchon. Una cifra sproporzionata per un’operazione che richiede pochi minuti. Avrebbe anche fatturato 6.000 euro per realizzare dei brevi video di campagna. Gli inquirenti ipotizzano contro di lei i reati di truffa e abuso d’ufficio.
Ma chi è Sophia Chikirou? Fino a qualche mese era la “donna all’ombra” di Mélenchon. I francesi conoscono il suo volto dal settembre 2017, da quando ha co-fondato la web tv, Le Média, di cui si è parlato molto all’epoca. L’esperienza è durata poco. Sei mesi dopo, Chikirou lascia infatti Le Média tra polemiche e litigi, reclamando il rimborso di 120.000 euro. Sophia Chikirou, 39 anni, di padre e madre algerini, cresce in un paesino dell’Alta Savoia. Già a 16 anni si iscrive al partito socialista. A 23, con una laurea di scienze politiche in tasca, si trasferisce a Parigi dove lavora come assistente parlamentare del deputato socialista Michel Charzal. È in questo periodo che incontra Mélenchon, anche lui socialista all’epoca.
Nel 2009 lo segue nella creazione del nuovo Parti de Gauche, diventato La France Insoumise nel 2016. Nel 2011 è promossa addetta stampa. Fonda dunque la sua società, con la quale cura tra l’altro anche l’immagine dell’ex trader Jérôme Kerviel. Nel 2015 parte per gli Stati Uniti per osservare la campagna del democratico Bernie Sanders. Nel 2016, come direttrice di campagna di Mélenchon, svecchia l’immagine del candidato, 67 anni, convincendolo a fare l’elogio della quinoa sulla copertina di Gala. Sua è l’idea dei meeting con l’ologramma. Molti ritengono che se Mélenchon ottiene il 19% dei voti al primo turno delle Presidenziali è anche grazie a lei. Mediapart sostiene che tra i due esiste “una relazione extraprofessionale di lunga data” e l’informazione, se vera, acquista interesse alla luce dell’inchiesta. Mélenchon nega. Ribadisce il suo attaccamento al celibato e fa notare che la camera degli ospiti di casa sua è sempre disponibile per i suoi collaboratori. Nonostante le polemiche, ha già reclutato Sophia Chikirou anche per le europee: “Le professioniste competenti come lei sono poche – ha detto – quando le trovi, te le tieni strette”. Per Mélenchon questa storia è solo un grande complotto contro di lui e accusa tutti, il governo e Macron, i magistrati e pure i giornalisti “bugiardi”.

La Stampa 24.10.18
Il Papa: “Tutti i populismi nascono dall’odio”
L’appello di Francesco ai giovani e il riferimento al nazismo: “Studiate la storia, anche Hitler iniziò così”
Aggressioni odio mancaza di umanità: oggi è in atto la terza guerra mondiale a pezzetti
Il cimitero europeo si chiama Mediterraneo
La chiusura è l’inizio del suicidio
di Andrea Tornielli


«I giovani sappiano come cominciano i populismi: seminando odio. Devono capire come cresce un populismo, ad esempio quello di Hitler…». Francesco, alla presentazione del libro La saggezza del tempo curato da padre Antonio Spadaro risponde alla domanda di una donna di 83 anni che fa scuola ai rifugiati e si dice colpita dalla «durezza e dalla crudeltà» con cui vengono trattati. È l’occasione per il Papa di tornare a parlare dei rischi del populismo e dell’importanza di imparare dal passato. «Non voglio discutere di politica, parlo dell’umanità - gli dice Fiorella Bacherini - Com’è facile far crescere l’odio tra la gente. E mi vengono in mente i momenti e i ricordi di guerra che ho vissuto da bambina».
Francesco invita ad ascoltare gli anziani sopravvissuti. «È importante che i giovani conoscano il risultato delle due guerre del secolo scorso. È un tesoro negativo, ma un tesoro da trasmettere per creare delle coscienze. Che i giovani conoscano questo perché non cadano nello stesso errore». Bergoglio spiega che è importante «capire come cresce un populismo, ad esempio quello di Hitler nel 1922 e 1923». È fondamentale che i giovani «sappiano come cominciano i populismi: seminando odio. Non si può vivere seminando odio».
«Che cosa faccio io - si domanda il Papa - quando vedo che il Mediterraneo è un cimitero? Dico la verità: soffro, prego e parlo. Non dobbiamo accettare questa sofferenza, non dobbiamo limitarci a dire: si soffre dappertutto… Oggi c’è la terza guerra mondiale a pezzetti. Guardate i posti di conflitto: mancanza di umanità, aggressione, odio, fra culture, fra tribù. Anche la religione deformata per poter odiare meglio. La terza guerra mondiale è in corso, credo di non esagerare in questo. Seminare odio è un cammino di distruzione, di suicidio. Questo si può coprire con tanti motivi. Quel ragazzo del secolo scorso (Hitler, ndr) nel 1922 lo copriva con la purezza della razza… Ora con i migranti: accogliere il migrante è un mandato biblico, perché Gesù è stato migrante in Egitto. L’Europa è stata fatta dai migranti. Poi l’Europa ha coscienza che nei momenti brutti, altri Paesi come l’America hanno ricevuto i migranti europei. Prima di dare un giudizio sulle migrazioni, dobbiamo riprendere la nostra storia europea. Io sono figlio di migranti che sono andati in Argentina. In America ci sono tanti che hanno cognome italiano, migranti ricevuti col cuore e la porta aperta. La chiusura è l’inizio del suicidio».
Infine Francesco è tornato a ripetere che i migranti «si devono accogliere e accompagnare, ma si devono soprattutto integrare. Se noi accogliamo così, senza integrazione, non facciamo un buon servizio. Serve l’integrazione. Un governo deve avere il cuore aperto per ricevere, le strutture adatte per compiere il cammino dell’integrazione e anche la prudenza di dire: fino a qui posso, di più non posso». E «bisogna che tutta l’Europa si metta d’accordo, non che tutto il peso sia portato solo da Paesi come l’Italia o la Grecia… Il nuovo cimitero europeo, si chiama Mediterraneo, si chiama Egeo».

il manifesto 24.10.18
Popolo costituente e migrante
Il diritto a emigrare ha radici antiche, teoriche e politiche, che si scontrano con la miseria xenofoba del presente. Uno stralcio tratto dall’ultimo numero di «Critica marxista»
di Luigi Ferrajoli


Il principale segno di cambiamento manifestato finora dall’attuale sedicente «governo del cambiamento» è la politica ostentatamente disumana e apertamente illegale da esso adottata nei confronti dei migranti. Di nuovo il veleno razzista dell’intolleranza e del disprezzo per i «diversi» sta diffondendosi non solo in Italia ma in tutto l’Occidente, nell’Unione Europea e negli Stati Uniti, quale veicolo di facile consenso nei confronti degli odierni populismi e delle loro politiche di esclusione.
È SU QUESTO TERRENO che rischia oggi di crollare l’identità civile e democratica dell’Italia e dell’Europa. Le destre protestano contro quelle che chiamano una lesione delle nostre identità culturali da parte delle «invasioni» contaminanti dei migranti. In realtà esse identificano tale identità con la loro identità reazionaria: con la loro falsa cristianità, con la loro intolleranza per i diversi, in breve con il loro più o meno consapevole razzismo. Laddove, al contrario, sono proprio le politiche di chiusura che stanno deformando e deturpando l’immagine dell’Italia e dell’Europa, che sta infatti vivendo una profonda contraddizione: la contraddizione delle pratiche di esclusione dei migranti quali non-persone non soltanto con i valori di uguaglianza e libertà iscritti in tutte le sue carte costituzionali e nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, ma anche con la sua più antica tradizione culturale.
Il diritto di emigrare fu teorizzato dalla filosofia politica occidentale alle origini dell’età moderna. Ben prima del diritto alla vita formulato nel Seicento da Thomas Hobbes, il diritto di emigrare fu configurato dal teologo spagnolo Francisco de Vitoria, nelle sue Relectiones de Indis svolte nel 1539 all’Università di Salamanca, come un diritto naturale universale. Sul piano teorico questa tesi si inseriva in una edificante concezione cosmopolitica dei rapporti tra i popoli informata a una sorta di fratellanza universale. Sul piano pratico essa era chiaramente finalizzata alla legittimazione della conquista spagnola del Nuovo mondo: anche con la guerra, in forza del principio vim vi repellere licet, ove all’esercizio del diritto di emigrare fosse stata opposta illegittima resistenza. Tutta la tradizione liberale classica, del resto, ha sempre considerato lo jus migrandi un diritto fondamentale. John Locke fondò su di esso la garanzia del diritto alla sopravvivenza e la stessa legittimità del capitalismo: giacché il diritto alla vita, egli scrisse, è garantito dal lavoro, e tutti possono lavorare purché lo vogliano, facendo ritorno nelle campagne, o comunque emigrando nelle «terre incolte dell’America», perché «c’è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio dei suoi abitanti».
KANT, a sua volta, enunciò ancor più esplicitamente non solo il «diritto di emigrare», ma anche il diritto di immigrare, che formulò come «terzo articolo definitivo per la pace perpetua» identificandolo con il principio di «una universale ospitalità». E l’articolo 4 dell’Acte constitutionnel allegato alla Costituzione francese del 1793 stabilì che «Ogni straniero di età superiore a ventuno anni che, domiciliato in Francia da un anno, viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà, o sposi una cittadina francese, o adotti un bambino, o mantenga un vecchio, è ammesso all’esercizio dei diritti del cittadino».
Lo ius migrandi è da allora rimasto un principio elementare del diritto internazionale consuetudinario, fino alla sua già ricordata consacrazione nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Fino a che l’asimmetria non si è ribaltata. Oggi sono le popolazioni fino a ieri colonizzate che fuggono dalla miseria provocata dalle nostre politiche. E allora l’esercizio del diritto di emigrare è stato trasformato in delitto.
Siamo perciò di fronte a una contraddizione gravissima, che solo la garanzia del diritto di emigrare varrebbe a rimuovere. Il riconoscimento di questa contraddizione dovrebbe non farci dimenticare quella formulazione classica, cinicamente strumentale, del diritto di emigrare: perché la sua memoria possa quanto meno generare – nel dibattito pubblico, nel confronto politico, nell’insegnamento nelle scuole – una cattiva coscienza sull’illegittimità morale e politica, prima ancora che giuridica, delle nostre politiche e agire da freno sulle odierne pulsioni xenofobe e razziste.
QUESTE POLITICHE crudeli stanno avvelenando e incattivendo la società, in Italia e in Europa. Stanno seminando la paura e l’odio per i diversi. Stanno screditando, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita. Stanno fascistizzando il senso comune. Stanno, in breve, ricostruendo le basi ideologiche del razzismo; il quale, come affermò lucidamente Michel Foucault, non è la causa, bensì l’effetto delle oppressioni e delle violazioni istituzionali dei diritti umani: la «condizione», egli scrisse, che consente l’«accettabilità della messa a morte» di una parte dell’umanità. Che è il medesimo riflesso circolare che ha in passato generato l’immagine sessista della donna e quella classista del proletario come inferiori, perché solo in questo modo se ne poteva giustificare l’oppressione, lo sfruttamento e la mancanza di diritti. Ricchezza, dominio e privilegio non si accontentano di prevaricare. Pretendono anche una qualche legittimazione sostanziale.
Un secondo effetto è non meno grave e distruttivo. Consiste in un mutamento delle soggettività politiche e sociali: non più le vecchie soggettività di classe, basate sull’uguaglianza e sulle lotte comuni per comuni diritti, ma nuove soggettività politiche di tipo identitario basate sull’identificazione delle identità diverse come nemiche e sul capovolgimento delle lotte sociali: non più di chi sta in basso contro chi sta in alto, ma di chi sta in basso contro chi sta ancora più in basso. È un mutamento che sta minando le basi sociali della democrazia. Una politica razionale, oltre che informata alla garanzia dei diritti, dovrebbe muovere, realisticamente, dalla consapevolezza che i flussi migratori sono fenomeni strutturali e irreversibili, frutto della globalizzazione selvaggia promossa dall’attuale capitalismo.
DOVREBBE anzi avere il coraggio di assumere il fenomeno migratorio come l’autentico fatto costituente dell’ordine futuro, destinato, quale istanza e veicolo dell’uguaglianza, a rivoluzionarie i rapporti tra gli uomini e a rifondare, nei tempi lunghi, l’ordinamento internazionale. Il diritto di emigrare equivarrebbe, in questa prospettiva, al potere costituente di questo nuovo ordine globale: giacché l’Occidente non affronterà mai seriamente i problemi che sono all’origine delle migrazioni se non li sentirà come propri. I diritti fondamentali, come l’esperienza insegna, non cadono mai dall’alto, ma si affermano solo allorquando la pressione di chi ne è escluso alle porte di chi ne è incluso diventa irresistibile. Per questo dobbiamo pensare al popolo dei migranti come al popolo costituente di un nuovo ordine mondiale.
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SCHEDA: Una rivista che legge le trasformazioni
Il testo integrale di Luigi Ferrajoli – con il titolo: «La questione migranti: Italia incivile, Europa incivile» – apre dopo l’editoriale di Aldo Tortorella sulla fase politica («San Giorgio, il drago e i mostriciattoli di turno») il n. 5 della rivista «Critica Marxista», dove alcuni temi di attualità sono affrontati da Tiziano Rinaldini («Il “decreto dignità” e i gravi ritardi
della sinistra sul lavoro») Alberto Leiss («Il baratro di Genova»), Francesco Garibaldo («Fca e Fca Italia dopo Marchionne: un’eredità difficile»), Romeo Orlandi (La sinistra, la Cina, la globalizzazione), infine E. Igor Mineo («Le sinistre e la crisi dell’Unione europea»). Il «Laboratorio culturale» è aperto da un saggio di Ida Dominijanni sul dibattito femminista in Occidente («Femminismo in/addomesticabile»), mentre Daniele Caputo scrive su «Il regresso oligarchico». Riccardo Bellofiore ricorda la figura e il pensiero di Lucio Magri («Provarci ancora, fallire di nuovo, ma fallire meglio»

Corriere 24.10.18
Meglio non abusare della parola «popolo»
di Giuseppe De Rita


Coltivo una insofferenza, non so quanto collettivamente condivisa: non ne posso più dell’eccessivo uso che si fa, nella dialettica politica, della parola «popolo». Tutto è del popolo (il governo, il premier, la manovra di bilancio), ma nessuno ha il coraggio di chiedersi cosa ci sia dietro quel generico «popolo». Per carità, il genericismo è obbligato quando si vuole dare valore politico a dinamiche sociali complesse, ma rischia di diventare solo un riferimento retorico (ai poveri, agli esclusi, agli oppressi), magari con una veloce incidenza nell’opinione pubblica, ma destinato ad una decrescente incisività nel medio termine.
Mi permetto allora di sperimentare uno slittamento semantico: cioè di non parlare di popolo, ma di «popolazione italiana adulta», cioè di quella maggioranza attiva (fra i 30 e i 65 anni di età) che manda avanti la ordinaria dinamica dell’economia, che vive più o meno felicemente la quotidianità del sociale, e che peraltro fa maggioranza elettorale. Per questo ultimo motivo è comprensibile che in molti ci si occupi di quanto la popolazione adulta (30-35 milioni di persone) possa ondeggiare verso contrastanti orientamenti politici. Ma comincia anche ad affermarsi una attenzione a quanto possa oggi significare l’aggettivo «adulto» applicato agli atteggiamenti e ai comportamenti di quel maggioritario segmento sociale. In proposito, lontano dai rimbombi della comunicazione di massa, si comincia a sospettare che in tali atteggiamenti e comportamenti non ci sia quella maturità umana che nella storia si è identificata con il temine «adulto».
Per decenni, se non per secoli, si diventava adulto quando si erano terminati gli studi; si cominciava a lavorare; si andava a vivere per proprio conto; si decideva di comprare una casa; si presagiva una prospettiva di matrimonio; si coltivava la possibilità di una carriera professionale e di un avanzamento sociale. Raggiungendo con tutto ciò un equilibrio di vita e di stabilità nel lungo periodo che potevamo chiamare sia maturità che età adulta. Questi tradizionali convincimenti non hanno più riscontro nella realtà dei fatti: il ciclo degli studi non finisce mai; il lavoro non si trova se non in spezzoni piccoli e senza continuità; è sempre più difficile lasciare il grembo sicuro dei genitori; si è sempre più restii a sposarsi ed a fare nuova casa e nuova famiglia (ci si sposa sempre di meno e addirittura ci si sposa solo se si ha la garanzia di poter sciogliere il vincolo); l’avanzamento di carriera è sempre meno possibile, essendosi frenata la mobilità sociale (il cosiddetto ascensore sociale).
Va quindi preso atto che le dinamiche antiche del diventare adulto sono sempre più deboli, così la nostra «popolazione adulta» non ha passato le prove di entrata nella mentalità adulta e matura. Anzi, in ricerche e sondaggi recenti, riscontriamo una soggettività così spinta, quasi adolescenziale, da fomentare il sospetto (almeno in noi più anziani) che ci sia in essa una consistente vena di immaturità, solo che si pensi che in essa ci sono 6 milioni di persone che hanno scelto e deciso di tatuarsi, 4 milioni di persone che consumano cannabis; 3 milioni di persone che usano integratori alimentari, e oltre mezzo milione che sono patologicamente dipendenti dal giuoco e dalle scommesse, sono cioè in piena ludopatia.
Ci troviamo allora in presenza di una figura (la popolazione adulta) che tende a caratterizzarsi in una differenziata esperienzialità dei singoli e che difficilmente non può diventarne caratteristica sociale complessiva, e compattarsi in una netta configurazione di «popolo» sempre meno quindi utilizzabile.
La cosa, mi rendo conto, è complicata, ed anche discutibile, specialmente nel mondo dei social; ma è proprio tale complicazione che ci dovrebbe spingere a un uso non eccessivo del termine «popolo», sostenendo e stravolgendo un concetto che sta perdendo di consistenza chiara e forte. Sono lontani i tempi in cui Moro parlava di un impegno comune di «governo e popolo»; forse non ci tornerebbe sopra, ma sicuramente non andrebbe indietro ad unificare i due termini (governo del popolo), il che andrebbe contro la dignità di due mondi vitali ognuno per proprio conto.

Il Fatto 24.10.18
CasaPound, gli unici neri che Salvini non sgombera
di Antonio Padellaro


Leggiamo, con qualche ansia, sul Corriere della Sera, la seguente frase: “Se entrate sarà un bagno di sangue”. Lo avrebbe detto, lunedì pomeriggio, a Roma, un esponente di CasaPound, “quando la Finanza ha bussato al portone di via Napoleone III, in zona Esquilino, nel bellissimo palazzo del ministero dell’Istruzione, che da anni ospita abusivamente famiglie e leader del movimento di estrema destra che ci vivono senza versare alcun canone d’affitto”.
Quando abbiamo appreso che la GdF (guidata da un colonnello) “che chiedeva solo di potere eseguire il mandato della Procura regionale della Corte dei Conti”, per ispezionare l’edificio e “quantificare lo spreco di questi anni”, ha ritenuto di fare dietrofront, il pensiero di questo diario è corso, senza indugio, alla figura del valoroso ministro degli Interni, Matteo Salvini. Un uomo che non deve chiedere mai, come hanno imparato sulla loro pelle (nera) i naufraghi della nave ong Aquarius, a cui fu interdetto l’ingresso nei porti italiani, nel nome di un’apposita disposizione creata sul momento. E che permise loro una gradevole crociera, sotto il sole del Mediterraneo, accolti infine in un sinistrorso approdo spagnolo. Parliamo del ministro tutto d’un pezzo che impedì a un gruppo di pericolosi africani (subdolamente mescolati a donne e bambini) di sbarcare nell’italianissima Catania dal pattugliatore della Marina militare tricolore, “Diciotti”, malgrado le minacciose interferenze della magistratura rossa. Sì, lo stesso vigile guardiano della legge uguale per tutti che salutò l’arresto del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, con un tweet quanto mai arguto e beffardo (“Accidenti, chissà cosa diranno Saviano e tutti i buonisti che vorrebbero riempire l’Italia di immigrati”, ah ah). Alla luce di queste ardimentose azioni, attendiamo con partecipe attesa che il ministro, con apposito messaggio alla nazione, ingiunga ai militanti di CasaPound (neri anch’essi) di lasciare il passo ai rappresentanti dello Stato in divisa, nell’esercizio delle loro funzioni. Vero è che coloro che si definiscono “fascisti del Terzo millennio” non scherzano affatto, addestrati quasi militarmente a difendere ciò che considerano loro (insomma questi menano). Anche se puta caso di proprietà di un ministero, quello dell’Istruzione e dell’Università, il cui poco marziale titolare siede nel governo accanto all’impavida sentinella del Viminale. Vero è che, ancorché pubblico, l’edificio (sei piani per 60 vani) ospita da 15 anni, “diverse famiglie alcune imparentate con i vertici del movimento”, e che dunque il sacrosanto diritto a un tetto non si nega a nessuno. Vero è che, nella Capitale, in altra occasione si è provveduto allo sgombero, con massiccio spiegamento di forze dell’ordine e modi piuttosto spicci: però quel palazzo in via Curtatone era occupato da eritrei, e non aggiungiamo altro. Vero è che i camerati di CasaPound hanno sempre guardato con simpatia la Lega di Salvini, offrendo perfino un sostegno alle ultime elezioni. Insomma, mandare la polizia a casa di personcine sempre così disponibili non sarebbe affatto cortese. Vero è, infine, che oltre al palazzo dell’Esquilino vi sono, nell’elenco della questura di Roma altri 92 immobili occupati abusivamente. Il che, onde evitare il “bagno di sangue”, potrebbe suggerire all’invitto Capitano del Carroccio di posporre la pratica di via Napolenone III. Per esempio, sotto le altre 91, sicuramente più urgenti. Del resto, ben altre emergenze premono sul ministro, costretto com’è a controllare, senza sosta alcuna, che le sacre sponde non vengano violate da certi pericolosi irregolari di pelle scura (e bene in carne) che ne sanno una più del diavolo . Eh sì, la pacchia è finita. Lui tira dritto.

il manifesto 24.10.18
Sgombero rinviato, la finanza grazia Casapound
Esquilino. I militanti dell'estrema destra negano di aver pronunciato la frase «Se entrate sarà un bagno di sangue»
Il palazzo occupato da Casapound in via Napoleone III, a Roma
di Mira Ceccarelli


«Se entrate sarà un bagno di sangue», sono le parole attribuite ai militanti di CasaPound dai cronisti di diversi giornali presenti al blitz della guardia di finanza. I fatti sarebbero avvenuti lunedì pomeriggio a Roma, quando il colonnello Pietro Sorbello ha bussato alle porte dello stabile occupato in via Napoleone III, zona Esquilino. Il colonnello era solo intenzionato a eseguire il mandato della procura regionale della Corte dei Conti, per quantificare il danno erariale dovuto al mancato versamento di canoni d’affitto dal giorno dell’occupazione, ben 15 anni fa. L’inchiesta della Corte parlerebbe di ben 4 milioni di euro.
Le gravi minacce riportate dai giornali sono state poi smentite da Davide Di Stefano, responsabile romano di CasaPound, davanti a tutti i media nel corso della giornata di ieri. Sempre Di Stefano, interpellato sulla possibilità di uno sgombero, dichiara: «Lo sgombero è un’opzione che non prendiamo neanche in considerazione». Eppure la possibilità c’è, come per tutti gli stabili occupati nella Capitale.
Il responsabile romano racconta che all’interno del palazzo ci sono 18 famiglie italiane: chi sono? «Ci sono persone legate al movimento, e altre che non lo sono. Tutti avevano una grave emergenza a livello abitativo». Di Stefano però non ha la certezza di questa emergenza, perché non sono stati richiesti documenti a quegli occupanti che, dice, non sarebbero legati a CasaPound. «Non abbiamo la certezza al 100%: diciamo che se uno ha tre case in Nicaragua non è che faccio un accertamento patrimoniale».
Interpellato sulle parole violente attribuite a CasaPound, Di Stefano nega. Stessa linea negazionista sulle condanne per reati di violenza: «Noi non facciamo aggressioni. Non c’è questa opzione». Eppure, la realtà non è proprio così. Un esempio: l’11 febbraio 2017 un ragazzo, Paolo E., è stato aggredito a pugni e cinghiate da un gruppo di militanti di CasaPound a Vignanello, in provincia di Viterbo, a causa di un semplice post su Facebook. Otto mesi dopo i militanti di casapound sono stati condannati a 2 anni e 8 mesi (pena ridotta grazie al ricorso al rito abbreviato). Tra i condannati spicca il nome di Jacopo Polidori, che nonostante la condanna, il 16 giugno 2018 parlava pubblicamente al congresso nazionale del partito a Roma. «Non siamo il Movimento Cinque Stelle», ha dichiarato sul tema Davide Di Stefano.
Il palazzo a via Napoleone III è stato occupato il 27 dicembre 2003. Sei piani, vista mozzafiato. «Il valore sul mercato degli affitti ammonterebbe a circa 25 mila euro al mese – compresi gli spazi per le iniziative politiche – 300 mila all’anno, più di 4 milioni nei 14 anni di occupazione abusiva», dichiarava un agente immobiliare a L’Espresso il primo marzo di quest’anno.
I dati sembrano accurati, perché anche la Corte dei Conti, nell’ambito della sua inchiesta, parlerebbe proprio di 4 milioni di euro. Il palazzo occupato da CasaPound ha visto in questi quindici anni sorti ben più rosee di molte altre occupazioni; è noto che nel 2010, ai tempi di Alemanno, via Napoleone III è stata esclusa dalla mappatura degli edifici occupati abusivamente stilata ad opera della Commissione sicurezza di Roma Capitale. Sembra che neanche il pugno duro di Salvini tocchi questi occupanti: il tutto, lunedì, si è risolto con un nulla di fatto.
La sindaca Raggi si smarca, via Twitter: «Da sempre contro l’occupazione illegale di #Casapound» e dal Campidoglio si fa notare: «Non spetta a Roma Capitale scegliere quali sgomberi effettuare».

Repubblica 24.10.18
CasaPound, minacce ai militari ed è lite sul blitz mancato
Stop all’ispezione della Finanza nella sede del movimento occupata da anni. Indagano i pm
di Lorenzo D’Albergo

Il palazzo all’Esquilino. La sede romana di CasaPound, un palazzo occupato nel 2003, si trova in via Napoleone III, a due passi dalla stazione Termini

Roma, Nella sede di CasaPound, sei piani per un totale di 60 vani occupati da 15 anni a due passi dalla stazione Termini, da ieri l’aria si è fatta pesante. Ora ogni uscita pubblica va calibrata alla perfezione, perché sulla mancata ispezione della Finanza al quartier generale dei "fascisti del terzo millennio" è scattata una doppia indagine. La procura e la prefettura vogliono vederci chiaro, vogliono capire perché le Fiamme Gialle inviate lunedì pomeriggio in via Napoleone III dalla Corte dei Conti alla fine abbiano dovuto rinunciare alle verifiche richieste dai pm e peraltro concordate da almeno una settimana con gli stessi militanti di ultradestra.
Dovevano ispezionare l’immobile, i suoi spazi comuni, e acquisire le planimetrie per poi determinare l’eventuale danno causato all’erario da chi abita abusivamente nel palazzone di proprietà del Demanio e del Miur. Una missione cancellata sul nascere e terminata con le strette di mano tra gli agenti della Digos, i mediatori, e i militanti di CasaPound: quando gli ispettori sono arrivati sul posto, come raccontano i magistrati contabili, si sono trovati di fronte a «un atteggiamento molto duro di chiusura » . Un «qui non si entra» che, come dovrà stabilire l’informativa richiesta dalla procura, sarebbe stato condito pure da minacce ai militari: « Rischiate un bagno di sangue».
Dall’altra parte c’è la versione del presidente di CasaPound. Gianluca Iannone non ci sta, si autoassolve ( « nessun danno erariale » ) e poi parte all’attacco: « Non ci sono state minacce, nessuno sgombero in vista » . Il numero uno delle " tartarughe", poi, conferma le singolari regole di ingaggio della visita della Finanza: «Ci siamo limitati a concordare le modalità per il controllo nello stabile» . Infine l’accusa ai giornalisti: « Non era possibile garantire minime condizioni di dignità per le 18 famiglie residenti, vista l’inopportuna presenza di una folla di telecamere». Insomma, a sentire Iannone, l’ispezione sarebbe saltata per la presenza in strada di due cronisti e quattro fotografi. A questo punto, per risolvere il caso, si attende che la Finanza metta nero su bianco il suo racconto.
Nel frattempo è la politica a parlare. « Sono antifascista e contro l’occupazione illegale di Casapound » , ha ricordato ieri sera la sindaca Virginia Raggi dopo un bisticcio su Twitter con Davide Di Stefano, fratello di Simone, segretario del partito di estrema destra. La grillina oggi tornerà sul caso nell’incontro con la prefetta Paola Basilone, a sua volta rimasta stupita dal blitz cancellato all’ultimo secondo. Dal Pd e LeU, invece, arrivano attacchi a Matteo Salvini, il vicepremier leghista: « Il ministro — si chiede il deputato Pd Morassut — sgombera solo i poveracci? È il momento di ripristinare la legalità».
Come ricostruito dall’Espresso nell’inchiesta che ha portato all’avvio dell’indagine per danno erariale, l’occupazione del palazzo che in era fascista ospitava l’ente per l’I-struzione media e superiore va avanti dal 27 dicembre 2003. Quindici anni in cui nessuno ha mosso un dito: il Miur presentò subito una denuncia in prefettura. Un esposto vanificato dai rimpalli sulla proprietà dell’immobile. Nel 2009, con Alemanno sindaco, lo stabile era stato incluso in un pacchetto di beni da inserire nel patrimonio capitolino. Ma l’operazione saltò tra le proteste delle opposizioni.
L’ultimo a lavorare sul palazzo nel cuore dell’Esquilino è stato il commissario Francesco Paolo Tronca: inserita nella lista dei 93 edifici occupati a Roma, la sede delle "tartarughe" è però rimasta fuori dall’ultima shortlist. Non è a rischio crollo, non ci sono emergenze sanitarie o decreti di sgombero. Ma già oggi la situazione potrebbe cambiare: la procura vuole sapere, la prefettura ha chiesto informazioni a questura e Finanza, il Comune spinge per lo sfratto e la Corte dei Conti per completare la sua indagine. Stavolta senza preavviso.

il manifesto 24.10.18
Costituzione e clemenza, idee controcorrente
Fuoriluogo. L’Italia non è affatto il paese delle ricorrenti misure facili “svuotacarceri”. O meglio, non lo è più, come spiega il volume curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto
di Grazia Zuffa


Ooggi su amnistia e indulto, in tempi in cui il carcere, inteso sempre più come il luogo principe per pene lunghe e certe, domina la scena politico mediatica e l’immaginario popolare. E dove la clemenza e i suoi istituti sono vissuti non come strumenti della giustizia, ma come simbolo di iniquo affronto alle vittime. La tematizzazione controcorrente è il primo pregio del volume appena uscito, Costituzione e clemenza. Per un rinnovato statuto di amnistia e indulto, curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto (Ediesse, euro18), che raccoglie gli atti del convegno promosso dalla Società della Ragione nel gennaio scorso. Controcorrente è anche la ricostruzione della storia dell’amnistia e indulto, in opposizione alla percezione dominante: l’Italia non è affatto il paese delle ricorrenti misure facili “svuotacarceri”. O meglio, non lo è più.
Se fino agli anni novanta sono stati frequenti i provvedimenti di amnistia e indulto (ventitré, dal 1948 al 1992), da quell’anno si sono bruscamente interrotti (con la sola esclusione dell’indulto del 2006). E neppure l’amnistia è stata concessa quando sarebbe stata assolutamente necessaria per ripristinare la legalità. È il caso della sentenza della Corte Costituzionale del 2014 sulla legge delle droghe, che ha reso illegittime migliaia di condanne erogate sulla base delle norme abrogate: ciononostante, i condannati sono rimasti in carcere in assenza della misura di clemenza.
Quali le ragioni dell’eclissi degli istituti di clemenza?
L’analisi proposta si snoda attraverso due assi principali. Il primo approfondisce la normativa e gli effetti inibenti della riforma del 1992 dell’art. 79 della Costituzione, che ha affidato unicamente al Parlamento la decisione, pretendendo una maggioranza dei due terzi. Un quorum così alto da consentire paralizzanti veti incrociati e impedire i provvedimenti di clemenza (Pugiotto). Da qui la proposta di modifica costituzionale e il dibattito, di cui il testo dà ampiamente conto.
Il secondo asse di analisi si concentra sul limite politico culturale, più che istituzionale, alla base della “sterilizzazione” degli istituti di clemenza: individuandolo nell’eccesso di penalizzazione del sistema, appesantito dai molti recenti giri di vite (dalla stabilizzazione del regime speciale carcerario del 41bis nell’ordinamento penitenziario, ai tanti “pacchetti sicurezza”, dall’inasprimento delle pene, alla incessante produzione di nuovi reati (Azzariti, Flick). Alla base dell’impasse, «la completa abdicazione da parte degli attori politici del loro ruolo, che non è quello di “seguire” una presunta volontà popolare, bensì quello di assumere su di sé una precisa responsabilità culturale in nome della Costituzione» (Grosso).
Le due letture trovano una convergenza nel giudizio circa la necessità della clemenza come strumento di politica criminale, per bilanciare gli eccessi possibili del principio di legalità penale; evocando perciò una iniziativa a tutto campo, sul piano giuridico e politico culturale. (Anastasia, Corleone).
Oltre alle proposte di modifica delle procedure e del quorum, si delinea il rilancio di una “nuova narrazione” della clemenza: agganciandola strettamente all’art.27 della Costituzione, che vieta trattamenti «contrari al senso di umanità». L’esempio più immediato è quello del sovraffollamento, con gli effetti “degradanti” già denunciati dalla Cedu. In questo caso, l’amnistia riporterebbe la detenzione nell’ambito della legalità.
Come costruire nel senso comune una nuova visione della clemenza? Si può dire che questo testo inaugura il cantiere, per una battaglia culturale controcorrente di lunga lena. Non a caso è richiamato nelle ultime pagine il monito di Pierpaolo Pasolini a «continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso».

Il Fatto 24.10.18
Dl Sicurezza, i ribelli M5S tengono. “Se resta così non lo votiamo”
Braccio di ferro sugli emendamenti


Il decreto Sicurezza arriverà in aula il 5 novembre, ma nella commissione Affari costituzionali del Senato sul provvedimento c’è ancora burrasca. Perché alcuni senatori del M5S insistono nel non ritirare i loro emendamenti al testo, nonostante il pressing del Movimento e l’irritazione di Matteo Salvini contro “gli 81 emendamenti grillini”. Ma al momento, sono stati tolti solo i sei a firma di Bianca Laura Granato. Non è servito neppure l’incontro tra due emissari di Luigi Di Maio, i membri del suo staff Cristina Belotti e Dario De Falco, e i senatori “ribelli”. Paola Nugnes è chiara: “Senza modifiche il decreto non lo votiamo, non siamo al mercato delle vacche”. La stessa linea di Gregorio De Falco: “Alcuni miei emendamenti sono essenziali. Se non fossero approvati, avrei difficoltà a votare il decreto”. E il senatore aggiunge: “Ci sono alcuni principi sui quali non posso deflettere, avendo giurato sulla Costituzione, da militare, e mantengo questo giuramento. Sostanzialmente sto seguendo le indicazioni del presidente Mattarella”. Insomma, gran parte dei 62 emendamenti presentati dagli eletti i “fuori linea”, tra cui Elena Fattori, resteranno.
Ma dal M5S ostentano una certa tranquillità: “Continueremo a discuterne, e comunque non dovrebbe esserci bisogno di un voto di fiducia”. Ossia la maggioranza si prepara a votare contro gli emendamenti sgraditi. Però nel frattempo il Movimento ha ottenuto che proprio De Falco, Nugnes e Fattori ritirassero i loro sette emendamenti al disegno di legge sulla legittima difesa.

Il Fatto 24.10.18
I poveri sul divano: la strana distanza tra dibattito e realtà
di Silvia Truzzi


Ieri l’Istat ha pubblicato un documento sulla “povertà energetica” nel nostro Paese: cresce la quota di popolazione che non riesce a riscaldare l’abitazione. Un fenomeno che, i dati citati sono relativi al 2016, riguarda il 16,5% delle famiglie italiane, poco più di 9 milioni di persone. La settimana scorsa l’allarme lo aveva lanciato la Caritas, nel Rapporto 2018 su povertà e politiche di contrasto: c’è un “esercito di poveri in attesa che non sembra trovare risposte e le cui storie si connotano per un’allarmante cronicizzazione e multidimensionalità dei bisogni”. Il numero degli indigenti assoluti “continua ad aumentare”, superando i 5 milioni. “Dagli anni pre-crisi a oggi il numero dei poveri è aumentato del 182%, un dato che dà il senso dello stravolgimento causato dalla crisi”. L’obiettivo è di dare delle risposte, anche se “come cristiani, abbiamo qualche difficoltà a pensare che si possa abolire la povertà”, ha detto il direttore di Caritas, don Francesco Soddu. “Ma sappiamo che ogni storia riconsegnata alla sua dignità e alla sua libertà rende migliore il nostro Paese, ci rende migliori. La povertà non è solo mancanza di reddito o lavoro: è isolamento, fragilità, paura del futuro. Dare una risposta unidimensionale a un problema multidimensionale, sarebbe una semplificazione”.
Infatti affermare “aboliremo la povertà”, come ha fatto il vicepremier Luigi Di Maio, è più di un’ingenuità (è più grave, più demagogico, più assurdo). E può darsi che sulle misure di contrasto – reddito di cittadinanza, reddito universale, reddito d’inclusione – non ci si trovi d’accordo. Sembra però, guardando questi numeri spaventosi, abbastanza evidente che intervenire è urgente e necessario. Eppure, se ci fate caso, il dibattito si concentra praticamente solo sulle pene da infliggere in caso di eventuali truffe: sempre Di Maio ha garantito sanzioni severissime, fino a sei anni di carcere, per i “furbetti” (roba da allarme sociale, altro che grandi evasori fiscali). Vedremo il testo definitivo della manovra, resta incredibile che sui giornali e nei salotti televisivi si dibatta – con un singolare accanimento – solo attorno a “divanisti” e “furbetti”. I divanisti sono tutti quei ragazzi del Sud – chi di noi non ne conosce intere tribù – che non sognano un futuro normale (un lavoro, una famiglia) ma desiderano passare i loro prossimi lustri spaparanzati sul divano in canottiera, rutto libero a spese dello Stato. Quanto bisogna essere razzisti per formulare un pensiero così gretto? Quanta miseria morale sta dietro l’assunto meridionali-lazzaroni? Già all’indomani del voto, commentando l’exploit dei Cinque Stelle al Sud, non si sentiva altro che dire: per forza, quelli vogliono l’assistenzialismo, parassiti! È incredibile che tanto rigore (e tanto razzismo) arrivi spesso dalle penne più impegnate nella lotta al fascismo di ritorno, dagli alfieri della tolleranza, che giustamente segnalano ogni possibile episodio di razzismo (perfino quando è dubbia la verifica delle fonti). Intanto, mentre sembra incombere con sempre maggiore allarme un nuovo regime, i cittadini sono sempre più poveri e fragili (come ha ben spiegato il direttore della Caritas), il dibattito pubblico si è incartato attorno al dito e alla luna neanche ci pensa più. Ieri il sociologo Domenico De Masi, già collaboratore dei 5 Stelle, ha detto a Radio 2 che “per avere il reddito di cittadinanza come dovrebbe essere ci vorranno due o tre anni” e fino ad allora “il reddito del M5s è pari pari il reddito di inclusione del Pd, esteso a sei milioni di persone a 780 euro”. Pure fosse così, ci permettiamo di dire: che li prendano tutti e, come ebbe a dire un vescovo in una circostanza ben più tragica, dio riconoscerà i suoi.

Il Fatto 24.10.18
Non solo Cucchi: il silenzio è di Stato
di Gian Giacomo Migone

Ilaria Cucchi ha reso un ennesimo servizio alla sicurezza democratica del nostro Paese (in ultima analisi, alla stessa Arma) quando, a conclusione del loro incontro, ha accusato pubblicamente il comandante generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, di essersi accanito contro coloro che hanno trovato il coraggio per accusare – in tribunale, Francesco Tedesco – i responsabili delle violenze mortali subìte da suo fratello, in stato di arresto. In tal modo si è chiarito come, anche di fronte all’evidenza dei fatti, successivamente ricostruiti, gli alti comandi non abbiano rinunciato alla logica corporativa che costituisce purtroppo una costante che si ripete nella storia degli apparati di sicurezza del nostro Paese. Sempre secondo una logica, intrinsecamente vile, in cui il più forte colpisce il più debole, che si tratti della vittima inerme di violenza o del semplice milite che la rifiuta, obbedendo alla propria coscienza; con la pretesa di ammantarsi di un male inteso senso dello Stato che, in democrazia, esigerebbe trasparenza e un senso del dovere proporzionato ai livelli di comando.
Purtroppo questa sindrome attraversa tutta la storia del nostro Paese, anche nel mutare dei regimi che lo hanno governato, con una ricorrenza che non può essere imputata soltanto agli alti comandi militari. Si tratta, insomma, di un problema di alta politica che investe le istituzioni in tutte le loro articolazioni. L’elenco sarebbe lungo, anche se alcuni esempi, lontani ma purtroppo anche recenti, bastano a confermarlo. Nel corso della Prima Repubblica sono occorsi decenni d’impegno di storici indipendenti (in primo luogo Angelo Del Boca) a desecretare gli archivi del ministero degli Esteri e della Difesa che nascondevano l’uso di gas tossici nella guerra di conquista dell’Abissinia, stupri e assassini commessi da formazioni della milizia a seguito dell’attentato a Graziani, la fredda eliminazione di un migliaio di monaci etiopi da parte dell’esercito. Quando, nel corso di una missione di peacekeeping in Somalia, negli anni Novanta, alcuni militari italiani e di altra nazionalità, per loro ammissione – o, meglio, vanto perché ne diffusero la documentazione fotografica a mo’ di trofeo di caccia – commisero violenze efferate nei confronti di presunti ribelli somali, il ministro della Difesa canadese fu costretto alle dimissioni, mentre un’apposita commissione d’inchiesta, malgrado gli sforzi isolati di Tullia Zevi che ne fece parte, fu l’occasione del totale insabbiamento da parte nostra. E dico nostra, anche perché vivo tuttora con senso di colpa di non avere avuto la capacità di ottenere un diverso risultato nella posizione di responsabilità istituzionale che allora occupavo.
Del G8, della Diaz e delle torture a Bolzaneto, molto è stato scritto e va sottolineato che la magistratura genovese ha compiuto un lavoro encomiabile nello sforzo di sanzionare alcuni diretti colpevoli. Ancora una volta l’intreccio di poteri omertosi politico-istituzionali è riuscito a far sì che i livelli superiori di responsabilità governativa e di comando ne siano usciti non solo esenti, ma addirittura premiati. Come se il vicequestore La Barbera e altri suoi colleghi presenti sul campo, di propria iniziativa, senza ordini o gradimento superiore, avessero aggredito a freddo manifestanti innocui, seminandovi prove artefatte per poi consegnarli a camere di tortura. Persino l’attuale capo della polizia, Franco Gabrielli, ha dovuto ammettere che, al posto del suo predecessore allora in carica (Gianni De Gennaro), avrebbe sentito il dovere di dimettersi e, aggiungo io, piuttosto che procedere nella propria carriera, a capo dei Servizi segreti e, a oggi, presidente di Leonardo. Ma ciò che più colpisce, anche a distanza di tempo, oltre all’inconcludenza della stessa opposizione parlamentare dell’epoca, è il fatto che, in quelle tragiche giornate di Genova, le forze d’ordine abbiano lasciato il campo libero ai black bloc, armati di tutto punto, che hanno messo a soqquadro la città, consentendo loro una comoda ritirata.
Resterebbe da affrontare il tema connesso del ripetuto abuso della ragion di Stato – com’è avvenuto in occasione del caso Abu Omar, conclusosi con sole condanne in contumacia, peraltro non perseguite – la cui storia richiede un attenzione specifica. Qui basta richiamare il fatto che, ancora una volta, alcuni responsabili funzionali di un atto di violenza, a cui è seguita una vicenda di tortura, sono stati protetti ai più alti livelli dello Stato. Lo stesso dicasi per quanto è avvenuto e sta avvenendo il Libia, sotto la responsabilità di due ministri dell’Interno di diversa collocazione (Marco Minniti e Matteo Salvini). Ancora una volta la repressione, protetta nella sua irresponsabilità violenta, risulta venata da una viltà sia morale che fisica. È scontato concludere che, per assicurare al Paese una sicurezza conforme alla Costituzione, occorre una rieducazione profonda sia nei ranghi di chi deve assicurarla sul campo sia di buona parte di una classe dirigente, politica e istituzionale.

il manifesto 24.10.18
Migranti d’America, la carica dei 7.500 sfida quattro governi
La ultima frontera. La carovana degli honduregni in Messico dopo 10 giorni di marcia. Destinazione Usa. Trump: «Emergenza». E c’è una seconda carovana in arrivo. La presenza dei media offre la protezione che di solito qui manca. Ma molti finiscono comunque in arresto
di Fabrizio Lorusso


León (Messico). È UN ESODO INEDITO per la quantità di persone che si sono unite per inseguire il “sogno americano” e, dopo dieci giorni consecutivi di marcia, gli ultimi tre in Messico tra Ciudad Hidalgo e Tapachula, gli integranti della carovana hanno deciso di fare tappa a Huixtla, nel Chiapas, a 70 km dal confine. «Oggi (ieri, ndr) riposano tutto il giorno e la notte, le loro forze sono esaurite», dice Rodrigo Abeja della Ong Pueblos sin Fronteras che accompagna la carovana.
Grazie alla solidarietà della gente e ad alcune strutture preposte dalle autorità, i migranti hanno potuto lavarsi e rifocillarsi prima di passare la notte in rifugi temporanei e in accampamenti improvvisati nelle piazze del centro. Mentre si preparano per altri 2000 km di cammino, arriva la notizia di una seconda carovana di 1.500 persone partita domenica, che sta attraversando il Guatemala.
LA PRESENZA DI GIORNALISTI, Ong e attivisti gli sta fornendo quella protezione che, normalmente, manca totalmente in Messico, paese che è diventato il filtro migratorio degli Usa, un luogo di abusi terribili e violenze contro le persone in transito da parte delle autorità migratorie e della criminalità organizzata.
La carovana migrante, composta per oltre la metà da donne e bambini, ha fatto ingresso domenica in Messico non senza difficoltà. Minacciati da Trump, che vuole militarizzare la frontiera statunitense e cancellare gli aiuti economici ai paesi centroamericani, e osteggiati dalle polizie messicane, del Guatemala e dell’Honduras, in tanti hanno scelto di entrare senza un visto umanitario che, comunque, non è concesso facilmente.
Dunque solo pochi sono passati dai filtri dell’Istituto nazionale della migrazione messicana lungo il ponte sul fiume Suchiate, al confine col Guatemala: le file erano lunghissime e gli scaglionamenti imposti dalle autorità servivano più che altro a rallentare gli ingressi e ad estenuare chi era in attesa sul ponte. La maggior parte ha attraversato il fiume a nuoto o su zattere precarie rischiando la pelle.
CIRCA MILLE HONDUREGNI sono stati convinti dalle autorità messicane a salire su autobus che li ha portati in un vero e proprio centro di reclusione e Tapachula, 37 km a nord dell’ingresso di frontiera. Per loro la carovana è finita, restano privi di comunicazione con l’esterno e dovranno attendere da 45 a 90 giorni per sapere se verranno deportati o se otterranno l’asilo. Varie associazioni per la difesa dei migranti, come American Friends Service Committee e Servizi gesuiti ai rifugiati, hanno emesso un comunicato in cui denunciano questi arresti arbitrari e deportazioni di massa, il rifiuto di avviare speditamente le pratiche per l’asilo, l’insufficienza di aiuti umanitari e i respingimenti, anche violenti, alla frontiera.
«Stiamo scappando dal nostro paese per le gang maras, la violenza, la povertà, ma ne vale la pena, alla fine arriva la ricompensa, una vita migliore, dobbiamo andare avanti», dice una donna. «Ringrazio che il Guatemala e il Messico per ora ci hanno trattato bene, ma la mia meta finale è negli Stati Uniti», conclude.
Non tutti sono stati, però, fortunati. Lunedì il 25enne honduregno Melvin Josué è morto dopo essere scivolato da un camion in movimento e aver battuto la testa sull’asfalto. A un altro suo concittadino è toccata la stessa sorte per via del calore estremo e della mancanza di energie. «Non possiamo tornare indietro, ci ammazzerebbero», commentano alcuni compagni di viaggio.
«NON SIAMO TERRORISTI, né delinquenti, vogliamo solo guadagnarci la vita», spiega un uomo alle telecamere in risposta a Trump che, in piena campagna elettorale per le mid-term, non ha esitato a denunciare presunte infiltrazioni di «terroristi mediorientali».
Il presidente messicano Peña li ha invitati «a non uscire dalla legalità» e a chiedere l’asilo, ma i rifugiati di questo nuovo esodo centroamericano hanno capito che si tratta di strategie dilatorie per compiacere Trump e continuano il loro viaggio perché ormai non hanno più niente da perdere.

il manifesto 24.10.18
Abbandonati da tutti, via dall’Honduras di Joh
La ultima frontera. Da cosa fugge la carovana dei migranti partita il 13 ottobre da San Pedro Sula, in Honduras, e arrivata domenica nel Chiapas, in Messico
di Claudia Fanti


Ha percorso già più di 700 km a piedi la carovana dei migranti partita il 13 ottobre da San Pedro Sula, in Honduras, e arrivata domenica nel Chiapas, in Messico, dove si trova da un paio di giorni, in attesa di capire se proseguire per altri 1.800 chilometri fino al confine con gli Stati uniti.
In ogni caso, quale che sia la destinazione finale, l’impresa a cui ha dato vita la carovana dei migranti aggiunge una nuova pagina all’eroica lotta del popolo honduregno. Di fronte agli abusi di un regime che, dal colpo di Stato del 2009 contro Manuel Zelaya, si è tenuto stretto il potere con ogni mezzo possibile, quel popolo aveva già dato vita lo scorso anno a una protesta senza precedenti: per circa due mesi – in risposta alla spudorata frode elettorale orchestrata, alle presidenziali del 26 novembre 2017, contro il candidato dell’Alleanza di opposizione alla dittatura Salvador Nasralla – la gente si era riversata in strada per mandare a casa il presidente golpista Juan Orlando Hernández, detto Joh, senza lasciarsi scoraggiare da repressione, arresti e neppure dagli omicidi (almeno una quarantina).
Una lotta in difesa della democrazia in cui, tanto per cambiare, il popolo era rimasto solo, dal momento che l’Organizzazione degli Stati americani si era ben guardata dall’adottare misure drastiche contro il governo illegittimo, tanto più dopo il riconoscimento della «vittoria» di Hernández da parte degli Stati uniti. E neppure aveva potuto contare su dirigenti dell’opposizione dotati di altrettanto coraggio e disposti a guidare l’insurrezione contro la dittatura: nel pieno della lotta, Nasralla si era arreso e lo stesso Zelaya aveva finito per retrocedere. Con le conseguenze più ovvie: la criminalizzazione di ogni protesta e il neoliberismo più selvaggio.
Non sorprende allora che, quando la notizia della carovana si era diffusa via whatsapp, l’iniziale gruppo di 160 persone era cresciuto di circa dieci volte in un lampo: erano in 1600, tra uomini, donne, giovani, vecchi, bambini e addirittura persone sulla sedia a rotelle, a partire a piedi dal terminal degli autobus di San Pedro Sula, alle cinque e mezza del mattino del 13 ottobre. Per poi diventare più di 7000, con aggiunte provenienti anche da El Salvador e dal Guatemala, all’arrivo nella città di Tapachula.
Quello che ora chiedono i migranti è il riconoscimento del loro status di rifugiati, in fuga dalla catastrofe economica e sociale provocata dal criminale regime di Joh. Quello che intanto hanno ottenuto è di sferrare, ancora una volta, un enorme colpo alla credibilità del suo governo, ancor più indebolito dall’infuriata reazione di Trump. Il quale, dopo averlo mantenuto al potere malgrado le frodi, potrebbe ora decidere anche di scaricarlo, annunciando nel frattempo il taglio degli aiuti a Honduras, Guatemala ed El Salvador, colpevoli di non essere riusciti a impedire la partenza dei migranti. E questa, per il popolo honduregno, potrebbe essere, chissà, una buona occasione per rilanciare la lotta sociale e politica.

Il Fatto 24.10.18
Paesi Baltici col fiato russo addosso, la Nato replica con i giochi di guerra
Trident Junction 18 - In Norvegia la simulazione di una invasione
di Giampiero Gramaglia


Entra domani nella sua ‘fase calda’ Trident Juncture 18, l’esercitazione militare Nato più grande dalla Guerra Fredda: sono giochi di guerra che non migliorano certo le relazioni tra Washington e Mosca, già tese e ormai critiche dopo l’annuncio dell’intenzione del presidente Usa Donald Trump di uscire dal Trattato Inf, i cosiddetti euro-missili.
Trident Juncture è, in realtà, una risposta della Nato, in scala un ottavo, alle colossali manovre congiunte russo-cinesi Vostock 18, che in settembre videro la partecipazione di circa 300 mila militari (fra cui 3.000 cinesi, con mezzi ed aerei, e un contingente mongolo) nella Siberia orientale: l’ultima esercitazione simile nelle dimensioni (ma più piccola) risaliva al 1981, quando c’erano ancora l’Urss e la Guerra Fredda. Il rimbalzo dalla Siberia alla Norvegia di manovre record è un segno delle tensioni tra Usa e Russia e, quindi, tra Nato e Russia: l’annessione della Crimea e la guerra nell’Ucraina orientale del 2014 sono ferite mai rimarginate e che stanno anzi andando in cancrena, complice anche il ruolo giocato da Mosca nell’elezione di Trump nel 2016.
I preliminari di Trident Juncture iniziarono ai primi di ottobre e l’esercitazione finirà il 7 novembre. Le manovre coinvolgono complessivamente 45mila militari di 31 Paesi (i 29 dell’Alleanza più Svezia e Finlandia), 150 aerei, 60 unità navali di 14 Paesi, 10mila veicoli, coordinati dal comando della Nato di Napoli. Vi saranno osservatori russi, come da intese sulle forze convenzionali. Lo scenario delle operazioni è quello previsto dall’articolo 5 del Patto atlantico: la difesa collettiva da una minaccia – con la simulazione di un attacco nemico –. Ma in realtà l’esercitazione risponde alle preoccupazioni di Paesi della Nato già membri del Patto di Varsavia – i tre Baltici, la Polonia, l’Ungheria –, che avvertono come una minaccia la vicinanza della Russia e l’attivismo diplomatico e militare di Vladimir Putin. La Nato ha già schierato avamposti difensivi nei loro territori (anche l’Italia vi è presente).
La Russia ha già denunciato “l’escalation delle attività militari e politiche Nato nella regione artica, nelle immediate vicinanze della Russia sul territorio della Norvegia settentrionale”. Il ministero degli Esteri di Mosca accusa Oslo “d’avere aperto la strada a una militarizzazione senza precedenti delle sue latitudine nordiche in violazione di tutte le consolidate tradizioni di buon vicinato”. La sfida di Trump alla Russia non è solo economica e commerciale, ma anche militare, come quella di Reagan all’Urss, e passa pure attraverso la creazione di una forza armata spaziale. Mosca non è meno attiva: un contingente dell’esercito russo è in Pakistan, alleato degli Usa, e partecipa a un’esercitazione militare congiunta.

il manifesto 24.10.18
Pechino sta finanziando la medicina del futuro
Intelligenza Artificiale. La Cina usa i Big Data per esportare «robot chirurghi» e software capaci di modelli predittivi per diabete e malattie cardiovascolari
di Simone Pieranni


Si dice che lo Sputnik moment della Cina sia arrivato quando AlphaGo – un software sviluppato da Google DeepMind – ha battuto il campione mondiale, umano, di «Go», il celebre gioco di strategia.
Immaginiamo cosa possa aver voluto dire questo evento per un cinese: un prodotto occidentale che per la prima volta batte un asiatico in un gioco cinese, la cui complessità di mosse – benché le regole possano essere riassunte in poche frasi – ha sempre fatto ritenere impossibile la vittoria di un computer a scapito di un umano. In quel momento la dirigenza cinese avrebbe capito la strada: non a caso da lì a poco avrebbe lanciato gli investimenti e il piano per lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale; primo step da concludersi il 2030, per un giro d’affari previsto di 150 miliardi di dollari.
LO SVILUPPO DELL’AI è trasversale al progetto Made in China 2025, il cui scopo principale prevede una trasformazione totale del gigante cinese, specie in dieci settori chiave, affinché diventi una potenza tecnologica. L’obiettivo è fare sì che lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale, sulla base della grande quantità di dati cinesi, spinga il comparto tecnologico cinese a produrre app o tecnologie capaci di imporsi sul mercato e divenire il fulcro delle esportazioni cinesi. Il salto, se ci pensiamo, è impressionante: da paese che fino a qualche anno fa era noto per l’esportazione di prodotti del comparti manifatturiero a basso costo e di bassa qualità, la Cina punta a esportare tecnologia ad alta innovazione. La speranza è di imbroccare una killer application capace di segnare il passo del mercato di riferimento. La corsa all’Ai e al 5G puntano proprio in quella direzione.
Se la Cina, ad esempio, fosse in grado di esportare per prima un modello di auto senza guida, irromperebbe sul mercato con un vantaggio competitivo non da poco. Ma il futuro del mercato tecnologico, delle app o degli strumenti basati sull’Ai non si muove solo sui canali più classici e identificati come fulcri del prossimo futuro.
C’è un mondo – fatto di startup, raccolta fondi e quotazioni miliardarie sulle borse mondiali – che impatta in modo determinante sull’industria della farmaceutica e dell’universo medico.
Si tratta di applicazioni o strumenti – chirurgici ad esempio – che potrebbero rivoluzionare il mondo della medicina: per la Cina si tratterebbe di ottenere due risultati fondamentali: ridurre le importazioni di tecnologie e conoscenze dai paesi esteri, primi fra tutti gli Stati uniti, e aumentare le esportazioni di prodotti che fino a poco tempo fa erano per lo più importati.
A questo proposito va specificato che in alcuni settori questo sta già avvenendo, ad esempio nell’industria della robotica: un’azienda cinese produce un robot utilizzato nelle scuole già esportato in tutto il mondo e già oggetto di copie da parte di altri paesi stranieri Si tratta di Makeblock, una startup basata a Shenzhen che di recente ha aperto uffici in Giappone e Amsterdam e la cui richiesta di robot nelle scuole sta superando ogni più rosea aspettativa. Tornando alla medicina, inoltre, il piano Made in China 2025 consentirebbe alla popolazione cinese di accedere a servizi a costi più bassi di quelli attuali in materia di medicinali e cure mediche.
SULLO SFONDO DI QUESTA CORSA cinese c’è naturalmente un intoppo causato dal recente scontro commerciale con gli Usa, capace di minare la cooperazione tra i due paesi, portando così a un confronto sempre più diretto. Per quanto riguarda la medicina, il progetto Made in China 2025 riserva alcuni obiettivi specifici: Pechino vuole che l’industria cinese sviluppi da 10 a 20 farmaci innovativi entro il 2020 e che ne siano commercializzati da 20 a 30 entro il 2025. Un altro obiettivo, ambizioso, vorrebbe che almeno 100 aziende farmaceutiche ottenessero la certificazione dell’Organizzazione mondiale della sanità.
ECONOMICAMENTE SI TRATTA di un piano che mira a produrre dispositivi medici per raggiungere 1,2 trilioni di yuan di giro d’affari entro il 2030, puntando tutto sulla commercializzazione di prodotti innovativi e nuovi farmaci.
Ma in questo mondo a farla da padrone sono due tipologie di posizionamento: quello delle app basate su Ai e quello di aziende che forniscono prodotti innovativi in campo medico. Un primo esempio è senza dubbio 4Paradigm. Fondata dal giovane Dai Wenyuan, già a capo del team It di Baidu, incarico abbandonato a soli 28 anni, vincitore, da studente, delle «Olimpiadi» del mondo legato alla computer science, questa startup ha saputo raccogliere fin dalla sua nascita 4 milioni da Sequoia Capital China – filiale dell’impresa di venture capital californiana – diventando una sorta di guru dei Big Data in Cina. Lo slogan di Dai Wenyuan è «intelligenza artificiale per tutti». Il principale prodotto dell’azienda, infatti, è Prophet, una piattaforma basata sull’intelligenza artificiale, «per aiutare le persone e le organizzazioni ad analizzare comodamente una quantità esplosiva di dati che è di crescente importanza».
4Paradigm – il cui nome si rifà al «quarto paradigma» nella storia della scienza teorizzato per primo da Jim Gray, già informatico di Microsoft e vincitore del premio Turing – è considerata la principale competitor dell’americana Palantir (il cui nome si rifa a Tolkien), creata 15 anni fa. Lo scopo è chiaro: raffinare l’elaborazione di dati, sfruttando l’immensa mole di Big Data forniti dal «mondo» cinese, rilasciando output capaci di creare dei veri e propri «sistemi», come possono essere OS e Windows, in grado di consentire a privati e aziende di sviluppare i propri sistemi di AI e analisi dei dati.
IN PRATICA DAI RACCOGLIE su di sé il mondo dell’impresa cinese, caratterizzata da una lotta serrata verso l’innovazione, anche quando ispirata a prodotti già esistenti, e quella della app di maggior successo, WeChat, capace di raccogliere al proprio interno tutte le funzioni di cui l’utente ha bisogno, senza mai uscire dalla app. Prophet mira allo stesso scopo. Ma 4Paradigm di recente si è fatta notare anche per un altro prodotto, sperimentato insieme a uno dei più prestigiosi ospedali cinesi.
    Come riportato dalla stampa cinese, «4Paradigm, la principale start-up cinese di Ai, ha annunciato una partnership strategica con l’ospedale di Shanghai Ruijin sull’applicazione dell’Ai nell’assistenza sanitaria, in particolare sulle condizioni di salute croniche. I due hanno presentato il loro primo prodotto di gestione del diabete, che predice il rischio di complicanze cardiovascolari e diabetiche e fornisce valutazioni e soluzioni personalizzate per la prevenzione e il controllo delle malattie».
La probabilità di previsione della malattia sarebbe, secondo ospedale e 4Paradigm, dell’88%. La chiave di questo successo, come riporta Asia Nikkei Review, «è l’accesso ai dati dei pazienti». Il software Ai di 4Paradigm può scansionare «le informazioni mediche – inclusi sesso, livelli di zucchero nel sangue e peso – raccolti da 170.000 pazienti da ricercatori dell’ospedale Ruijin di Shanghai. Da lì, ha utilizzato l’apprendimento automatico per prevedere quali pazienti erano maggiormente a rischio di sviluppare la malattia».
Secondo Dai – mentre la società affina la sua metodologia – «le tecniche possono essere applicate ad altre malattie, dalle malattie cardiache alle malattie renali». Pechino sta poi concentrando le proprie attenzioni anche sulla produzione di robot utili negli ospedali per le fasi chirurgiche.
NEL CAMPO DELLA ROBOTICA applicata alla chirurgia, il leader del mercato è il Da Vinci Surgical System, un apparato robotico realizzato da Intuitive Surgical di Sunnyvale, in California e già ampiamente utilizzato in interventi alla prostata, alla valvola cardiaca e in ambito ginecologico.
Il sistema è utilizzato anche in Cina: adottato nel 2006, sarebbe già stato utilizzato in più di 60mila interventi. Anche in questo ambito la Cina punta a colmare il gap con gli Usa: almeno 30 aziende cinesi sono interamente dedicate allo sviluppo di robot medici, attingendo dalle migliore università cinesi e da fondi statali o di venture capital da tutto il mondo.
LA SCOMMESSA di Made in China 2025 e il supporto totale dello stato consentono a fondi di investire con un certo ottimismo su tutto quanto si sta muovendo in Cina.  Ma – secondo gli esperti – c’è ancora un abisso benché un prodotto chirurgico robotizzato cinese sia considerato uno dei fiori all’occhiello di questo settore. Parte «del programma 863, noto anche come Piano di sviluppo hi-tech statale nel 2016 ha ottenuto una licenza per attrezzature mediche dalla Cina Food and Drug Administration. Il suo produttore, Tinavi, è una società quotata a Shenzhen, ha ottenuto 400 milioni di yuan (58,2 milioni di dollari) di investimenti da Pechino». Il sistema è stato venduto in 41 ospedali e utilizzato in più di 4.000 operazioni riguardanti cranio e colonna vertebrale.

Corriere 24.10.18
Gli ultimi giorni del ribelle Jan Palach
di Paolo Mereghetti


Lo studente di Praga che nel ‘69 si diede fuoco contro i sovietici: un film interroga la Storia
Fin dal titolo, Jan Palach, il film prodotto dalla tv ceca sullo studente che il 16 gennaio 1969 si diede fuoco in piazza San Venceslao a Praga, vuole interrogare la Storia. Non ci sono mediazioni di tipo narrativo o romanzesco. L’operazione va dritta al cuore del personaggio.
Dopo un doppio prologo che dovrebbe servire a sottolinearne l’indipendenza, il film di Robert Sedlácek arriva al 1968, quando sulla spinta anche degli studenti, il governo Dubcek abolì la censura. Tra chi frequenta quell’ambiente c’è anche Palach (interpretato da Victor Zavadil) che aspetta di essere ammesso all’università e aiuta la fidanzata Eva a riprendere l’uso delle gambe dopo la poliomielite.
È una delle tante trovate della sceneggiatrice Eva Kanturková per trasmettere quella voglia di libertà (dalla malattia e dall’oppressione politica) che si faceva largo tra i giovani e sfruttava anche il rock’n’roll per veicolare l’insofferenza verso l’oppressiva ideologia sovietica. E che poi il film declina nei tanti discorsi che animavano le assemblee studentesche e gli incontri con i professori e i politici che condividevano quelle aspirazioni e cercavano una sponda per le loro prese di posizione politiche.
A fare un po’ da contraltare c’è la figura della madre (Zuzana Bydzovská), iscritta al partito comunista per convenienza (dopo che il marito era stato privato dal regime della sua attività commerciale e ne era morto di crepacuore) e incarnazione di quel buon senso popolare che sa distinguere i «buoni» dai «cattivi» ma cerca anche di preoccuparsi per il futuro del figlio, orgogliosa di vederlo iscritto all’università.
Tra questi due poli, il film racconta la maturazione politica di Jan, l’esperienza dell’invasione sovietica nell’agosto del 1968, la riflessione sui «gesti esemplari» che in altri Paesi — Polonia, Vietnam — erano stati compiuti da chi si era dato fuoco per protesta, il confronto con chi predica prudenza e chi invece vorrebbe bruciare le tappe. Persino un’avventura sessuale con una piacente e disinibita compagna di studi serve per sottolineare l’orgoglio e l’indipendenza di Jan. Anche se alla fine il film sembra dare un peso determinante alla motivazione religiosa, mostrando Palach per la prima volta commosso fedele alle celebrazioni natalizie in chiesa. Ci si avvicina così alla data del sacrificio, in vista del quale praticamente spariscono tutti i personaggi di contorno per lasciare spazio a una delle missive che Jan scrisse, una specie di testamento-manifesto dove spiegava il suo gesto col bisogno di «scuotere la coscienza del popolo» e parlava di un «gruppo di volontari» su cui non si seppe mai la verità.
Il film si chiude con le immagini di Jan Palach agonizzante dopo essere stato straziato dal fuoco, cui seguono alcuni interminabili secondi di schermo nero prima dei titoli di coda. Un piccolo artificio che dovrebbe spingere lo spettatore a interrogarsi su quello che ha appena visto ma che rischia di ottenere l’effetto contrario. Quello cioè di «smascherare» la pretesa didascalica (e propagandistica) dell’operazione: gli unici «veri» fotogrammi di cinema finiscono per far cadere il castello di carte di una ricostruzione che si ferma al verosimile.
Tutto in questo sontuoso tv-movie assomiglia alla realtà ma è sprovvisto delle sue contraddizioni, delle sue complessità, delle sue zone d’ombra. Tutto è perfettamente definito per guidare senza intoppi lo spettatore fino in fondo. Dove forse troverà la verità storica ma non certo quella cinematografica.

Repubblica 24.10.18
Il combattente contro l’Asse
Addio a Rønneberg il partigiano norvegese che fermò l’atomica d’Hitler
Kirk Douglas lo impersonò nel film "Gli eroi di Telemark" Sabotò un impianto idroelettrico. È morto all’età di 99 anni
di Andrea Tarquini


BERLINO Kirk Douglas lo impersonò nel celebre film di guerra Gli eroi di Telemark con anche Richard Harris, storici ed esperti militari di tutto il mondo lo consultarono per decenni per imparare da lui. Ora è morto, lui Joachim Rønneberg, comandante partigiano norvegese addestrato dai britannici, lui massimo eroe della Resistenza nordica contro l’occupazione nazista. Si è spento sereno a 99 anni, lui che nel 1943 con commando di partigiani riuscì ad attaccare e distruggere a Telemark, appunto nella Norvegia occupata, l’impianto supersegreto in cui il Terzo Reich produceva l’acqua pesante, componente indispensabile alla bomba nucleare. In altre parole, il mondo ha detto addio all’eroe taciturno che fermò la costruzione dell’atomica di Hitler e quindi ebbe un ruolo decisivo nella vittoria finale degli Alleati contro l’Asse nella seconda guerra mondiale.
«Abbiamo perso uno tra i nostri patrioti ed eroi più valorosi, che egli resti nella Memoria dei giovani del mondo», ha detto commossa questo lunedì la prima ministra norvegese, la leader conservatrice Erna Solberg, nella solenne cerimonia di commemorazione, che ha proclamato il lutto nazionale.
Rønneberg aveva allora appena 23 anni. L’efficiente resistenza norvegese aveva scoperto che i nazisti lavoravano all’atomica usando materie prime reperibili per loro solo nel Paese scandinavo occupato. Allora si fece portare a Londra, ricevette un addestramento di prima classe dallo Special operations executive, il servizio segreto militare per le azioni di sabotaggio dietro le linee dell’Asse, insieme a un commando di altri partigiani norvegesi. Un aereo della Royal Air Force li paracadutò nella notte presso Telemark, dove li attendevano altri reparti speciali della resistenza. «Andò tutto liscio, benissimo, fu un sogno», disse decenni dopo Rønneberg in una lunga intervista televisiva. Lui e i suoi commando riuscirono velocissimi a entrare nell’impianto nazista, posero le potenti cariche esplosive. E lui all’ultimo decise di accorciare la miccia da una durata di minuti a pochi secondi: rischiò la vita perché voleva essere sicuro che l’operazione avesse successo.
Poi riuscì a fuggire in sci fino al territorio della Svezia neutrale salvandosi dalla rabbiosa vendetta hitleriana.
I nazisti non si ripresero mai dal colpo: nel 1943, già a mal partito sul fronte russo e in Africa, mancavano loro soldi e uomini per ricostruire l’impianto. Nel dopoguerra Rønneberg visse tranquillo e appartato, e a chi gli offriva (come Hollywood) ingaggi e ricompense, forniva solo informazioni per i film. «Ho solo fatto il mio dovere», fu il suo motto fino all’ultimo. Addio, eroe di Telemark.