il manifesto 23.10.18
«Era meglio tenerci Martina». E fra i renziani spunta la fronda anti Minniti
Democrack/Congresso
Pd. Sì solo da da quelli della «realpolitik», per togliere voti a
Zingaretti. Ma 'mister Daspo urbano' parte male sul tema alleanze con
l'associazionismo cattolico e la sinistra
di Daniela Preziosi
Alla
Leopolda l’accoglienza è stata fredda. Sabato a Firenze l’ex ministro
dell’interno Marco Minniti, candidato in pectore al congresso Pd, è
stato in prima fila a lungo, solitario e poco incline alla chiacchiera.
In una pausa dei lavori ha avuto un colloquio con l’ex segretario che
gli ha assicurato il suo appoggio, ma promettendo di non infliggergli lo
stigma del candidato renziano. Dal palco, poi, Renzi l’ha messa così:
«Non abbiamo parlato del congresso, abbiamo partecipato per due volte e
per due volte abbiamo vinto con il 70 per cento e per due volte ci hanno
fatto bersaglio di fuoco amico. Noi daremo a chi vincerà il congresso
del Pd la collaborazione che noi non abbiamo ricevuto».
Nel
congresso Renzi si ritaglierà un ruolo non di prima fila, puntando
invece sui comitati civici che guardano fuori dal Pd. La sua cautela non
è dovuta solo al timore di doversi accollare l’eventuale sconfitta
dell’ex ministro. Il fatto è che fra i renziani, specie nell’area Lotti,
di ora in ora cresce la fronda anti-Minniti. Non sono pochi quelli che a
Firenze gli hanno ripetuto che «era meglio tenersi Martina», uno che
avrebbe garantito la pacifica coabitazione nel partito. Le dichiarazioni
ufficiali vanno in tutt’altro senso. Ma più degli endorsement per ora
contano i silenzi. Una volta rimbalzato il suo nome sui giornali,
Minniti si aspettava più incoraggiamenti. A un certo punto è girata
anche la voce che l’ex ministro Delrio preferisse appoggiare Richetti,
piuttosto che l’ex collega del quale non ha condiviso la politica sui
migranti. Voce subito smentita, ma emblematica del disagio fra quelle
file.
Certo, fra i renziani c’è chi lo considera un ottimo
candidato, come Lorenzo Guerini. Chi come Emanuele Fiano ne loda «l’idea
della politica molto seria». Chi invece per realpolitik spiega che «non
è il candidato ideale ma dopo Renzi abbiamo bisogno di radicalità e lui
la rappresenta. Chi vede Minniti sa dove trova il Pd», mentre
Zingaretti «è inafferrabile, è veltronismo senza Veltroni, non è neanche
la svolta corbyniana. E non è cresciuto neppure in queste settimane che
era l’unico candidato». In più Minniti, ex dalemiano, «rimescola le
carte trasversalmente», ovvero intercetta il voto ex pci. La ’giovane
turca’ Katiuscia Marini, per esempio, potrebbe appoggiarlo, e sarebbe un
colpo basso a Zingaretti da quel che resta dell’Umbria rossa.
Eppure
Minniti parte con alcune penalità. Con oigni probabilità presenterà la
sua candidatura il 6 novembre, al lancio del suo libro Sicurezza è
libertà (Rizzoli), con Monsignor Becciu, Gianni Letta e Walter Veltroni.
Ma fatalmente la carta che i renziani reputano vincente in prospettiva
potrebbe essere un handicap.
A sinistra, dentro e fuori dal Pd,
non gli viene perdonato di aver iniziato il ridimensionamento della
presenza delle Ong nel Mediterraneo, oggi portata alle estreme
conseguenze dal successore Salvini. Né gli sono perdonati i decreti
’sicurezza’ e ’migranti’ che nell’aprile del 2017 introdussero il «daspo
urbano» e velocizzarono le espulsioni degli irregolari, poco apprezzate
dall’associazionismo cattolico. Non è un buon viatico per le future
alleanze, quelle su cui invece Zingaretti prova a costruire la
narrazione del suo nuovo Pd «rigenerato», aperto al centro e a sinistra.
«La parola alleanza è una bella parola e non un insulto», ha ribadito
Zingaretti ieri da Terni, annunciando la costituzione del 260esimo
comitato Piazza Grande. «Bisogna smetterla di pensare che tutti coloro
che non sono del Pd siano nemici del Pd».