il manifesto 21.10.18
Scrivere è proiettare la follia dell’Io nell’altro
Scrittori
anericani. «Patrimonio», «Operazione Shylock», «Il teatro di Sabbath»,
«Pastorale americana»: quattro prelievi dalla parabola narrativa di
Philip Roth
di Francesca Borrelli
Non al talento
ma alla «ostinazione», non a una supposta dote naturale bensì a un
elevato quoziente di «autortura» Philip Roth riteneva di dovere
l’esistenza dei suoi libri, prima ancora del loro successo. Quando
all’età di settantasette anni, con trentuno volumi alle spalle e un
posto di primo piano nel canone occidentale, decise di mettere fine alla
sua attività di scrittore, una motivata incredulità accolse la sua
dichiarazione di cedimento alla stanchezza, la sua resa alle
«frustrazioni quotidiane» non più sorrette dalla «vitalità
intellettuale», dalla «energia verbale e dalla forma fisica necessarie
per sferrare e condurre a termine un attacco creativo su larga scala a
una struttura complessa ed esigente come quella del romanzo».
Ora,
queste parole si trovano nella raccolta dei meravigliosi scritti di
nonfiction (alcuni inediti in italiano, altri già antologizzati in due
libretti einaudiani del 2004, Chiacchiere di bottega e del 2011, Ho
sempre voluto che ammiraste il mio digiuno ovvero, guardando Kafka) nel
volume titolato Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti
1960-2013 (traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, pp. 451, euro 22,00),
che esce in contemporanea con il secondo Meridiano delle opere di Roth,
a cura di Paolo Simonetti (traduzioni di Vincenzo Mantovani e Stefania
Bertola, Mondadori, pp. 1888, euro 80,00), una occasione per rileggere,
a distanza di decenni, alcune delle opere più amate dello scrittore
americano: Patrimonio, Operazione Shylock, Il teatro di Sabbath,
Pastorale americana, corredate da note ai testi redatte con grande
accuratezza, e la bibliografia (di Elèna Mortara) che permette di
tallonare la vita di Roth, confrontandone i passaggi con quelli
stravolti dalla inventiva dei suoi romanzi.
Proprio la rilettura
(a oltre vent’anni dall’uscita) di Pastorale americana, emancipati dallo
stupore iniziale, consente di immergersi in quella che deve essere
stata la speciale sofferenza di Roth nell’intonare la voce di un
personaggio che, diversamente da tanti altri e soprattutto dai suoi
alter ego, nulla condivideva della sua biografia, aspirazioni, stati
d’animo, acrobazie lessicali, fantasie, spirito di dissacrazione, nulla:
quel Seymour Levov detto lo Svedese, che era stato una mitica
apparizione della giovinezza di Nathan Zuckerman.
A cinquant’anni
di distanza, quando dietro sollecitazione dello Svedese i due si
rincontrano, Zuckerman – dopo essersi invano aspettato una rivelazione
che motivi quella richiesta di parlarsi, riflette sulla affabilità
dell’altro, frutto evidente di un baratto con la sua anima inesistente:
«Quest’uomo – si dice – non può essere incrinato dal pensiero. Ecco il
mistero del suo mistero».
Frutto della ruminazione di un
ventennio, questo romanzo concepito e abbandonato più volte, è forse il
più amato di Roth sebbene non altrettanto letterariamente virtuosistico
di altri (per esempio La controvita) ma soprattutto esemplifica al
meglio ciò che l’autore ebbe a dire in una intervista allo «Svenska
Dagbaladet», ora raccolta nel volume einuadiano: non nelle opinioni dei
personaggi vanno ricercate le idee dell’autore bensì «nella situazione
che ha inventato per loro». E così, la genialità di Roth in Pastorale si
estrinseca appunto nella cornice in cui situa i diversi caratteri: lo
Svedese è l’orgoglioso, bellissimo, integerrimo ex marine innamorato
della sua America, che ha raccolto degnamente l’eredità del laborioso
genitore guantaio, proprietario di una fabbrica di eccellenza da cui
deriva la recente prosperità della famiglia Levov. Tutto nella sua vita,
compresa la moglie, ex Miss New Jersey pudicamente riluttante nel
vantare quella datata celebrazione della propria bellezza, sembra
aderire alla fede dell’uomo probo che crede nella perfezione, non fosse
per Merry, la figlia balbuziente che all’età di sedici anni sparirà
dalla vita pubblica, dopo avere piazzato una bomba nell’ufficio postale
cittadino, uccidendo una persona.
Una lunga gestazione
Non
allo Svedese, tuttavia, Roth affida il racconto del suo dramma, e non
quando ci si sarebbe aspettati di ascoltarlo, bensì al fratello,
l’arrogante cardiochirurgo Jerry, traboccante disprezzo per la sua
famiglia di provenienza, che ne parla a Zuckerman in occasione di un
ritrovo di ex allievi della scuola che entrambi hanno frequentato a
Newark. Lo Svedese è ormai morto, la sua immagine imbozzolata nella
malintesa considerazione di Nathan si impossessa della sua fantasia e
comincia a parlare per lui: «Sognai una cronaca realistica». E parte la
storia.
Ogni singolo dettaglio, nell’evoluzione di questo romanzo
datato 1997 ma le cui prime settanta pagine manoscritte risalgono al
1972, porta i segni di una elaborazione che si indovina, anche grazie
alle poche parole spese in proposito da Roth, persino persecutoria nella
sua ricerca di perfezione. «Cominciare un libro è sgradevole» – ha
detto nella intervista alla «Paris Review» raccolta in Perché scrivere?
«Batto a macchina degli incipit e sono orrendi, sembrano
un’inconsapevole parodia del mio libro precedente, più che l’imbocco di
una nuova direzione, che è quello che vorrei… Spesso devo scrivere un
centinaio di pagine, o anche di più, prima che venga fuori un paragrafo
che sia vivo».
In realtà, stando a un altro sketch biografico
raccolto nella antologia einaudiana, «Sugo o salsa?» – sul quale anche
Paolo Simonetti richiama l’attenzione nel suo saggio introduttivo al
Meridiano («una pietra miliare imprescindibile – scrive – … sulla quale
convergono tutti i motivi centrali della sua narrativa») Roth avrebbe
trovato sul tavolo della caffetteria che frequentava abitualmente nella
Chicago del ’56, un foglietto di carta con una sequenza di frasi senza
nesso, frasi che tuttavia lo irretirono al punto da trasformarsi,
ognuna, nell’incipit dei suoi diciannove romanzi a venire: «mentre finge
di interpretare retrospettivamente la propria opera – commenta
Simonetti – Roth getta i semi della sua decostruzione critica».
Era
la tarda primavera del 1993 ed era appena uscito uno dei suoi romanzi
più godibili, Operazione Shylock, il cui sottotitolo è Una confessione,
preteso resoconto di fatti realmente accaduti, come lo stesso Roth si
premura di assicurare nella sua Prefazione, dove spiega come tutto
derivi dall’essere stato assoldato dal Mossad per una operazione di
controspionaggio.
L’anno in cui ambienta la trama, il 1988, è –
probabilmente non a caso – lo stesso in cui scrisse in forma di lettera a
Zuckerman la sua romanzesca biografia titolata I fatti, e di due anni
prima è l’intervista a Primo Levi, ennesimo tassello di quel suo
interesse per la causa ebraica trasformato in motore di pagine
sarcastiche, tra le più memorabili di Roth. Qui, in Operazione Shlylock,
quasi interamente ambientato a Gerusalemme, sono in scena due
personaggi con lo stesso nome, Philip Roth, il secondo dei quali è un
impostore che ha fatto propri i successi editoriali del primo allo scopo
di accreditare la causa del «diasporismo», un programma politico
finalizzato a riportare gli ebrei israeliani nei paesi europei dai quali
erano emigrati, per scongiurare la minaccia araba di un secondo
Olocausto.
Come ricorda Paolo Simonetti nella sua nota al romanzo,
Operazione Shylock ebbe una accoglienza controversa: John Updike lo
considerò datato e, per quanto spumeggiante, troppo carico di monologhi e
interviste affastellate su un impianto debole, mentre Cynthia Ozick e
Harold Bloom lo recensirono entusiasticamente e Saul Bellow lo inserì
nel corso sugli scrittori contemporanei che teneva alla Boston
University.
«Per me il lavoro, il lavoro della scrittura, consiste
nel trasformare la follia dell’io in follia del lui», aveva detto Roth
dieci anni prima a proposito di un personaggio che compare nella Lezione
di anatomia, e questa considerazione sembra in effetti trovare in
Operazione Shlylock uno dei sui vertici espressivi. Quanto alla sua
personale interpretazione della questione ebraica, con relative accuse
di diffamazione e conseguenti reprimende, più volte Roth si è dato
l’occasione per chiarire le impopolari idee che coltivava al riguardo:
«Per come la vedo io – ha scritto in «Immaginare gli ebrei» (ora nel
volume einaudiano) – l’obiettivo del romanziere ebreo non è forgiare
nella fucina della propria anima la coscienza ancora increata della sua
razza, ma trovare ispirazione in una coscienza che è stata creata e
demolita centinaia di volte solo in questo secolo». È un compito al
quale Roth si è dedicato con effervescente irriverenza, e proprio nella
esuberanza di uno stile che incorporava «i ritmi, le sfumature e
l’enfasi del modo di parlare delle città con le loro folle di
immigrati», ha trovato – a suo dire – il massimo piacere che la
letteratura gli abbia concesso.
Le imprese di un burattinaio
Più
ha calcato la mano, più ha strafatto, più ha sfidato il possibile, e
più stellari sono stati i suoi risultati: solo un controllo spasmodico
degli eccessi, di ogni sillaba della lingua messa in bocca ai suoi
personaggi, gli ha garantito l’immunità da qualsivoglia caduta di stile.
Ne è un esempio folgorante la prosa del Teatro di Sabbath (ora nel
secondo Meridiano), di cui è protagonista un burattinaio messo a riposo
dalla artrite deformante prima e dalla cacciata dal College dove
insegnava poi, a causa delle molestie sessuali perpetrate ai danni di
una studentessa. In lutto per la morte prematura della amante
serbo-croata Drenka Balich, il burattinaio incarna al meglio delle sue
virtualità espressive il Jewish Mischief, ovvero l’arte ebraica del
dispetto, della birichianata, che innalza – scrive Simonetti – a
«modello comportamentale, filosofia di vita, quasi una religione
personale».
Roth si dedica al romanzo in gran parte al ritorno da
un breve ricovero presso l’ospedale psichiatrico di Silver Hill nel
Connecticut, una esperienza che ricorderà come letteralmente
terrificante. Non a caso, quando nel 1995 lo presenterà ai suoi lettori,
prima di leggerne alcuni brani ne parlerà come di «un libro in cui
imperversa lo sfacelo, imperversa il suicidio, imperversa l’odio,
imperversa la lussuria. In cui imperversa la disobbedienza. In cui
imperversa la morte». All’uscita del romanzo, Frank Kermode gli dedicò
una lunga analisi sulla «New York Review of Books» giudicandolo
«straordinario», «un libro splendidamente perverso».
Il memoir dedicato al padre
Di
tutt’altra natura, una natura del tutto eccezionale nella produzione di
Roth, che considerava vantaggioso avere qualcosa o qualcuno da odiare
per fornire combustibile ai suoi libri («uno scrittore deve infuriarsi
per potere vedere») è il commosso memoir dedicato al padre nel 1991,
sotto il titolo Patrimonio, ora anch’esso nel secondo Meridiano. Reduce
da uno dei periodi più difficili della sua vita, lo scrittore americano
segue passo passo la malattia di Herman Roth, il padre assicuratore che
grazie al suo lavoro porta a porta per le strade di Newark aveva
maturato una capillare conoscenza della città, poi raccoglie le sue
considerazioni sottotitolando il libro Una storia vera, e si presta, per
la prima e unica volta nella sua carriera, a condividerle con il
pubblico, impegnandosi in una lunga torunée di reading.
Quale
distanza emotiva, quale radicale straniamento dalla sua condizione di
figlio amorevole, Roth dovesse guadagnare a sé per calarsi nei
godibilissimi passaggi dei romanzi in cui Zuckerman riceve lettere
esilaranti dal padre, o lo Svedese di Pastorale subisce l’indignazione
del genitore ebreo di fronte alle pretese religiose della sua futura
moglie cattolica (a proposito dell’eucaristia, da concedere o meno al
futuro nipote: NON VOGLIO FAR DECIDERE A UN BAMBINO SE VUOLE O NON VUOLE
MANGIARE GESÙ) è una delle implicite rivelazioni di Patrimonio. Più
tardi, in una intervista alla «U.S. News & World Report» dell’11
febbraio 1991 (non contenuta nel volume einaudiano, ma riportata da
Paolo Simonetti nelle sue Notizie sui testi) commenterà, a sigillo delle
tante conversazioni avute con i medici e con il padre: «La sua morte
non è avvenuta nell’universo delle parole». Come a denunciare, proprio
lui, i limiti del linguaggio nel rendere conto dell’esperienza.
Wittgenstein non sarebbe stato d’accordo, ma Roth se ne sarebbe fregato.