il manifesto 21.10.18
Nella letteratura l’inconscio a cielo aperto, nella psiche i procedimenti della narrativa
Saggi. Giancarlo Alfano e Carmelo Colangelo, «Il testo del desiderio», da Carocci
di Federico Leoni
«Tanto
la follia quanto la letteratura giocano con i segni, quei segni che si
prendono gioco di noi». È con queste parole di Michel Foucault che
Giancarlo Alfano e Carmelo Colangelo indicano, verso la fine della loro
esauriente e nitida indagine, il terreno comune alle due discipline, che
convocano a dialogo nel loro libro Il testo del desiderio Letteratura e
psicoanalisi (Carocci, pp. 230, euro 19,00). L’ipotesi foucaultiana è
duplice: sostiene anzitutto che i segni non obbediscono alle nostre
intenzioni, non dicono ciò che vogliamo dire.
Siamo noi a
lasciarci impregnare dai loro significati, sedurre dalla loro
combinatoria cangiante. La psicoanalisi ha chiamato inconscio questo
gioco di linguaggio e da subito ha posto le formazioni dell’inconscio,
cioè i nostri sogni, lapsus, atti mancati, sotto l’egida delle regole
che reggono l’autonoma creatività del gioco linguistico. In altri
termini, ha fatto dell’inconscio una retorica, un mobile esercito di
metafore, diceva Nietzsche. E non solo di metafore, naturalmente.
In
seconda battuta, l’ipotesi di Foucault suggerisce che la follia e la
letteratura siano qualcosa come giochi di secondo grado. Tanto nella
follia quanto nella letteratura, saremmo di fronte a un insieme di
meccanismi retorici che destrutturano o ristrutturano quella prima
officina retorica in cui la nostra soggettività e la nostra esperienza
hanno preso forma. Gioco che diventa sfida tragica nel caso della
follia, e che si fa esperimento vertiginoso nel caso della letteratura.
Non stupisce che alla prospettiva della psicoanalisi si siano ben presto
affacciati sia i letterati che molti critici, indovinandovi una
compagna di cammino preziosa per chi voglia illuminare il funzionamento
di un testo poetico o narrativo. A questo proposito, Alfano e Colangelo
procedono con giusta prudenza, consapevoli di come la psicoanalisi abbia
spesso avvicinato i testi letterari pensandoli come una via per
arrivare agli autori e ai segreti della loro psiche. Un certo
personaggio, un certo intreccio avrebbe espresso in forma più o meno
criptata i conflitti inconsci del poeta o del romanziere.
Lo
stesso Freud si è spinto a un passo da questa tentazione, quando ha
scritto di Leonardo e di Goethe, e non pochi suoi epigoni hanno
imboccato con decisione questa strada, fra le prime la sua influente
discepola francese Marie Bonaparte. Tutt’altra è la direzione in cui si
sono mossi negli ultimi quarant’anni illustri critici letterari, su
tutti Mario Lavagetto, Francesco Orlando, Jean Starobinski, citati a mo’
di stelle polari in questo risvolto della riflessione di Alfano e
Colangelo.
La formula di Francesco Orlando, secondo cui la
letteratura costituirebbe il luogo del ritorno non del rimosso, ma del
represso, indica forse nel modo più chiaro la posta in gioco di questo
genere di avvicinamento della psicoanalisi al testo narrativo o alla
costruzione poetica. Secondo il grande studioso siciliano, nello spazio
letterario riemergerebbero, traslati e cifrati dalle leggi interne al
procedimento poetico o narrativo, non i contenuti psichici rimossi
dall’autore, non l’inconscio dell’individuo che lo ha scritto, ma
l’insieme delle idee e delle forme di vita che un’epoca ha
silenziosamente accompagnato nell’ombra o recluso nelle segrete
dell’indicibile.
C’è infine un terzo modo di guardare all’incrocio
tra psicoanalisi e letteratura, di cui danno conto brillantemente
Alfano e Colangelo: la psicoanalisi stessa, dicono, ha costruito una
parte molto rilevante del cammino e del suo strumentario concettuale
intorno a figure prese a prestito dalla letteratura. Basterebbe a
sostenerlo il ruolo chiave che Freud assegna a Edipo e al ciclo delle
tragedie sofoclee, alla posizione strategica che egli assegna alla
figura della Gradiva ricavandola da un’opera letteraria tutto sommato
minore come quella di Jensen, o ancora al peso straordinario che nel
Lacan degli anni centrali assume la figura shakespeariana di Amleto.
Non
solo l’inconscio è un laboratorio in cui i procedimenti letterari
funzionano allo stato puro; non solo la letteratura è un inconscio a
cielo aperto, uno spazio in cui una società non cessa di parlare di ciò
che non sa di sé; ma la psicoanalisi stessa è una branca della
letteratura, un geniale procedimento retorico, insomma uno di quei
giochi di segni attraverso cui, diceva Foucault, ci prendiamo gioco di
quei segni che si prendono gioco di noi.