il manifesto 17.10.18
Se la narrazione amplifica la violenza dell’altro
«All’ordine del giorno è il terrore», un volume di Daniele Giglioli per il Saggiatore
di Massimiliano Guareschi
Alla
svolta del millennio la parola d’ordine era globalizzazione. Chi ne
magnificava i destini, chi rimpiangeva le rassicuranti striature del
tempo andato, chi ancora rilevava come la realtà contraddicesse gli
assunti della retorica di uno spazio aperto in cui tutto circolava
liberamente. L’11 settembre 2001 apriva una nuova fase, più cupa,
segnata dall’endiadi terrorismo e guerra. A partire dal 2008, con
l’esplosione della bolla dei subprime, il centro della scena era
occupato da una crisi che, lungi dal presentarsi come squilibrio
momentaneo, avrebbe manifestato profondi effetti costituenti accelerando
e sostanzializzando processi in gestazione fin dagli anni 80.
E
COSÌ GIUNGIAMO al tempo dell’oggi. Per qualificarlo si ricorre
all’ennesimo significante fluttuante, ossia «populismo», la cui
indeterminazione rende agevole ogni declinazione.
All’ordine del
giorno è il terrore. I cattivi pensieri della democrazia è un libro di
Daniele Giglioli uscito nel 2007 e riproposto oggi da il Saggiatore (pp.
220, euro 23). Il volume si collocava sulla scia dell’attentato alle
Torri gemelle, a una distanza sufficiente per coglierne le implicazioni
di medio periodo ma ormai sulla soglia della crisi del 2008. Riprenderlo
in mano comporta un immediato effetto di estraniamento, rendendo
tangibile la distanza che ci separa da un tempo tutto sommato prossimo
in cui si leggevano compulsivamente libri sull’Islam e si familiarizzava
con le geografie delle aree di confine fra Pakistan e Afghanistan. A
questa prima impressione, tuttavia, si accompagna, paradossalmente, la
percezione di come in realtà quel tempo sia ancora il nostro, di come
non costituisca un passaggio che ci troviamo alle spalle, di come in
esso si siano depositati «materiali», a livello di strutture e
rappresentazioni, destinati a essere in seguito ricombinati in nuove
configurazioni. Ed è proprio all’insegna di questo mix di distanza e
prossimità che la riproposizione del libro trova il suo significato.
IL
TERRORISMO è una pratica, una tattica. Ogni uso del termine come
definizione di specifici attori risulta abusiva e strumentale. Il
terrorismo, infatti, è sempre la violenza dell’altro. Punto di partenza
della riflessione di Giglioli non può che essere questa. Liquidata la
questione, All’ordine del giorno è il terrore passa ai temi che ne
costituiscono la ragion d’essere. Immediatamente, l’accento cade sulla
modernità del terrorismo jihadista, di contro alle narrazioni che ne
enfatizzavano il carattere di insorgenza del passato.
Si tratta di
una chiave di lettura che avrebbe trovato in seguito ampie conferme,
specie quando ad al Quaeda, come brand, si sarebbe sostituito il
richiamo di Daesh. Una differente prospettiva politica, ma non solo:
all’austero arcaismo ostentato, a livello di immaginario, da Bin Laden e
dai suoi seguaci si sostituisce un’evidente dimensione
«sottoculturale»: suv che corrono nel deserto guidati da combattenti dai
lunghi capelli al vento e un look total black con i nasheed di maggior
successo in sottofondo, schiave sessuali come premio hic et nunc anziché
il rimando alle vergini del paradiso.
Se il terrorismo jihadista
non costituisce l’assoluta alterità, che irrompe da un fuori temporale e
spaziale, allora a porsi è la questione della relazione fra il
terrorismo e democrazia, con il primo considerato come non il contrario
ma il rovescio della seconda.
ALLA RICERCA DI SPUNTI di
riflessione, Giglioli si indirizza soprattutto verso la letteratura, da
quella che raccoglie gli echi degli attentati anarchici e nichilisti di
fine ottocento e inizio novecento, i nomi sono quelli di James, Conrad,
Dostoevskij, Zola, passando per il Lee Oswald di de Lillo o la terribile
figlia dello Svedese nella Pastorale americana di Roth per giungere
fino al Shalimar di Rushdie o al terrorista di Updike. L’itinerario si
arricchisce, con un procedere saggistico a spirale, toccando la
questione del Terrore giacobino, base di legittimazione, in negativo,
delle architetture liberal-costituzionali volte a limitare la «tirannia
della maggioranza» o recensendo le assonanze fra gli attentati anarchici
e le coeve le pratiche delle avanguardie artistiche, nella costante
ricerca di uno choc che, paradossalmente, non può che precipitare nello
«choc atteso».
NELL’ANALISI di Giglioli, è nelle promesse e
premesse tradite della democrazia che il terrorismo si radica,
consumando la propria parabola votata al fallimento. Non a caso i
personaggi letterari passati in rassegna si collocano all’insegna non
dell’eroismo e dell’esotismo del male estremo quanto nella contingenza
dell’accidente che si fa destino o dello scarto infinitesimale che apre
alle biforcazioni più drammatiche.
A fianco del terrorista a
emergere, in controluce, è un’altra figura, quella della vittima, non a
caso centro di gravità di una successiva opera di Giglioli, sempre più
centrale nei processi di autorappresentazione degli attori sociali e
che, in una declinazione basata sul risentimento e sul «desiderio di
protezione, più che dagli altri, a danno degli altri» costituisce la
tonalità emotiva dominante di quello che, in mancanza di meglio, si usa
oggi definire «populismo».