il manifesto 16.10.18
Collegio militare, il luogo della vergogna
16
 ottobre 1943. Il rastrellamento degli ebrei a Roma. Un'intervista con 
lo storico Amedeo Osti Guerrazzi, collaboratore scientifico della 
Fondazione Museo della Shoah
di Lia Tagliacozzo
Nel
 1943, settantacinque anni fa, a Roma era un’alba piovosa. Era sabato e 
c’era la distribuzione delle sigarette – non si trovavano in tempo di 
guerra – per questo qualcuno era uscito presto per mettersi in fila dal 
tabaccaio. Nelle vie della città, di tutta la città, camion tedeschi si 
muovevano indisturbati. Arrivati presso alcune abitazioni, i soldati 
entravano e consegnavano un biglietto: adesso ha il colore giallo della 
carta vecchia, eppure quando lo si vede – esposto per esempio al museo 
ebraico a Roma – fa venire i brividi.
POCHI PUNTI SCRITTI in un 
italiano essenziale: «1) Insieme alla vostra famiglia e con gli altri 
ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti». Seguivano altre 
istruzioni: portare con sé denaro, gioielli, cibo, documenti. Poi il 
punto cinque, la beffa: «Ammalati, anche casi gravissimi, non possono 
per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo».
Non
 sapevano dove li avrebbero portati né cosa sarebbe successo: degli 
ebrei catturati quel giorno 1022 finirono ad Auschwitz. Alla fine della 
guerra sarebbero tornati in 16. A settantacinque anni di distanza fa 
ancora riflettere, almeno alcuni, e le iniziative sono molte. Oggi alla 
Camera dei Deputati e poi alla Festa del Cinema di Roma sarà presentato 
il documentario La razzia – Roma, 16 ottobre 1943 diretto da Ruggero 
Gabbai e scritto da Marcello Pezzetti e Liliana Picciotto.
IERI 
SERA UNA CAMMINATA silenziosa ha percorso le vie del vecchio quartiere 
ebraico e, nel pomeriggio, si è tenuta una cerimonia in uno dei luoghi 
simbolo della deportazione del 16 ottobre: il grande cortile del 
Collegio Militare a Piazza della Rovere, in pieno centro città. È lì che
 vennero condotti i razziati: un luogo che fino allo scorso anno era 
stato dimenticato dalle celebrazioni senza però essere scomparso dalla 
memoria degli ebrei romani. «Il Collegio militare – spiega Amedeo Osti 
Guerrazzi, collaboratore scientifico della Fondazione Museo della Shoah 
di Roma – ha svolto un ruolo fondamentale perché gli ebrei vi rimasero 
prigionieri fino alla mattina del 18 ottobre. Ma, e questo non lo si 
ricorda volentieri, è anche un luogo di vergogna: in quei giorni nessuno
 ha cercato di fare qualcosa per le persone catturate. Chi si salvò 
furono solo i convertiti al cattolicesimo, coloro che vennero catturati 
per errore o le coppie così dette miste. Gli altri rimasero nelle mani 
dei nazisti, senza alcun tentativo da parte di nessuno di liberarli».
MA
 QUAL È IL RUOLO dei luoghi della memoria nell’identità di una città? 
«Sono assolutamente fondamentali. Noi ricordiamo la deportazione del 16 
ottobre come ’la razzia del ghetto’ ma dobbiamo fare attenzione alle 
parole: ghetto significa un luogo chiuso, che non fa parte della città, 
la razzia invece si è svolta in tutta Roma, ben oltre i confini 
dell’antico quartiere ebraico. Quindi ricordare la deportazione usando 
l’espressione ’la razzia del ghetto’ è come cancellare il fatto che 
tutta la città ha assistito e in questo modo assolverla dal non aver 
reagito: perché tutta la città fu indifferente. È anche con le parole 
che si agisce la cancellazione della memoria: è come se Roma, chiudendo 
l’episodio nell’ex ghetto, abbia voluto rimuovere l’avvenimento stesso. 
Come se, in quanto italiani non ebrei, la razzia non ci riguardi».
Eppure
 ci furono anche storie di solidarietà. «Certo, il pericolo della 
rimozione è proprio questo: volendo cancellare ciò che è successo di 
brutto si finisce col dimenticare anche ciò che di straordinariamente 
positivo è avvenuto».
Il rischio di non esercitare una memoria 
consapevole rende uguali pure le scelte: sia di chi si adoperò per la 
salvezza che di coloro che aiutarono la razzia, sia dei Giusti che dei 
delatori. E azzera il valore della responsabilità. «Ci sono stati alcuni
 conventi che hanno accolto gli ebrei in fuga mentre alcuni si sono 
salvati semplicemente salendo sui tram, rimanendovi per ore, se non per 
giorni, coperti dai tramvieri che avevano capito benissimo ciò che stava
 succedendo e che hanno dato una prova straordinaria di solidarietà».
A
 ROMA OGNI SINGOLA famiglia conserva memoria di quel giorno. Chi si 
salvò lo dovette a volte al caso, altre alle conoscenze: qualcuno in 
convento, qualcuno al bordello. Alcuni vicini di casa fecero la spia, 
altri aprirono la porta e aiutarono la fuga. Gli ebrei del 16 ottobre 
del ’43 dopo due giorni vennero condotti alla stazione Tiburtina e 
partirono verso nord. «Io tanti anni fa – racconta ancora Osti Guerrazzi
 – ho parlato con il ’frenatore’ del treno del 18 ottobre e l’unica cosa
 che mi ha saputo dire è stata: ’Che ci potevo fare? C’erano i 
tedeschi’. Me lo disse prima ancora che avessi modo di chiedergli altro:
 chissà quanto ci ha pensato, visto che erano già passati tanti anni».
Allora,
 infatti, «c’erano i tedeschi». «Oggi – ha affermato uno dei familiari 
dei deportati del 16 ottobre alla cerimonia al Collegio militare – non è
 più tempo di lutto, ma di ricordo, commemorazione e, soprattutto, di 
riflessione. Io credo, e mi sento di farlo, di poter chiedere e 
pretendere da tutti voi, qui presenti, proprio perché qui presenti, un 
impegno. Un impegno ad agire, a fare tutto ciò che potete, in futuro, 
nel quadro delle vostre possibilità, delle vostre attività e delle 
vostre responsabilità, in modo che simili abbandoni, come quello dei 
giorni al Collegio militare, non avvengano mai più».
 
