sabato 13 ottobre 2018

il manifesto 13.10.18
Corleone: «I malati psichici in carcere dimenticati dal governo»
Intervista. Digiuno di protesta del garante dei detenuti della Toscana, ex commissario per la chiusura degli Opg
di Rachele Gonnelli


Ha appena terminato tre giorni di digiuno di protesta e si appresta a ricominciare lunedì, Franco Corleone, garante dei detenuti della Toscana, già commissario del ministero che due anni fa ha dismesso gli ex Opg, i vecchi residui manicomiali giudiziari.
Ci spiega il perché di questa sua estrema protesta?
Sono molto preoccupato della situazione che si sta creando, non solo di sovraffollamento, in particolare per quanto riguarda il problema del disagio psichico in carcere. Un problema che spesso viene evocato, anche drammaticamente – come nel caso della donna che ha gettato dalle scale i suoi due figli, uccidendoli, a Rebibbia e che personalmente penso non sarebbe proprio dovuta andare in carcere – ma nell’evocarlo viene spesso anche strumentalizzato. Sento in giro una gran voglia di tornare ai manicomi.
È vero che gli istituti penitenziari sono di nuovo congestionati come prima del decreto Svuotacarceri?
Sì, siamo tornati a una popolazione carceraria vicina ai 60 mila detenuti e Ristretti orizzonti denuncia un forte incremento dei suicidi in cella. Non è solo una questione di sovraffollamento, è che è venuta meno la speranza verso una grande riforma dell’ istituto carcerario che era stata impostata e prevedeva dalle misure per garantire l’affettività alle caduta della preclusione delle misure alternative per chi manifesta disagio psichico. L’articolo 147 del codice penale prevede infatti misure alternative al carcere in presenza di gravi patologie fisiche. La legge finora non contemplava l’esistenza della psiche. Così, con un decreto, era stata aggiunta la dizione «e mentali». Due paroline che avrebbero risolto il problema di dover gestire la malattia mentale all’interno di una istituzione totale che per sua natura non è proprio il luogo adatto. Altrettanto fondamentale sarebbe stata l’abrogazione dell’articolo 148 del codice penale, che avrebbe risolto il problema della permanenza in carcere delle persone che nel corso della detenzione manifestano malattie psichiche.
Dove devono scontare la loro pena?
Dalla chiusura degli ex Opg due anni fa esistono le Rems – le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – ma non sono quelle che devono assorbire tutto il disagio mentale. I magistrati dicono «chi ha un grave disturbo psichico non può stare in carcere» e cercano di mandarli nelle Rems perché non sono stati ancora istituite le strutture apposite – chiamate articolazioni psichiatriche in carcere – che devono essere a esclusiva o prevalente gestione sanitaria, quindi con personale medico e infermieristico dipendente dalle Regioni.
Nelle Rems sono stati trasferiti i detenuti che prima stavano negli ex Opg?
Sì, non tutti fortunatamente, ma soprattutto le 31 Rems esistenti sono concepite per persone considerate incapaci di intendere e di volere quando hanno commesso il reato e che comunque non possono stare in libertà e sono organizzate sulla base di alcuni principi: la territorialità, il numero chiuso, il rifiuto della contenzione e la permanenza non più a vita ma legata alla pena per il reato compiuto. Con la pressione dovuta al sovraffollamento e alle pur buone intenzioni dei magistrati, ma si sa che lastricano il pavimento dell’inferno, anche la riforma della chiusura degli ex manicomi giudiziari, che insieme alla legge Basaglia ci pone all’avanguardia in Europa, viene messa a rischio.
Quale atto ha fatto l’attuale governo per mettere a rischio la chiusura degli ex Opg e per svuotare la speranza della riforma carceraria?
Lo scorso 2 ottobre ha fatto scadere i termini della legge delega, ha bloccato tre decreti: sull’ordinamento minorile, sui lavori in carcere e sull’ordinamento penitenziale. Così come ha cancellato il decreto sulla giustizia riparativa. Tutte le norme fondamentali per evitare l’esplosione del disagio psichico e invece per gestirlo fuori e dentro il carcere.
Il suo digiuno di protesta ha ottenuto qualcosa finora?
L’obiettivo è quello di attirare l’attenzione su un problema enorme, di sollecitare altre adesioni, oltre a quelle che già ci sono state a iniziare dal parroco di Sollicciano, e poi non voglio essere corresponsabile dei disastri. Ho anche scritto ai ministri Grillo e Bonafede. La ministra mi ha mandato una risposta garbata dicendo che stanno valutando, da Bonafede niente. Certo, anche le Regioni, tutte, sono responsabili dei ritardi per la mancata apertura delle articolazioni psichiatriche nele carceri e da questo punto di vista il governatore della Toscana Enrico Rossi si è reso disponibile a un sopralluogo a Sollicciano a novembre. Importanti sono però le caratteristiche terapeutiche dei reparti penitenziari, non dare un’imbiancata alle celle.

Coscienza e responsabilità
Corriere 13.10.18
Vernon il condannato a morte che non ricorda di avere ucciso
Ha la demenza: esecuzione sospesa in attesa della Corte suprema
di Michele Farina


Aspetta la visita della madre, senza ricordare che è morta molti anni fa. Si lamenta per la mancanza del bagno, senza sapere che ce l’ha in cella. Parla a fatica, ci vede poco, è incontinente, non è più in grado di camminare.
Eppure non c’è motivo di simpatizzare per Vernon Madison, 68 anni, uno dei 5 milioni di americani che soffrono di Alzheimer o di altre forme di demenza. Da 33 anni Madison è nel braccio della morte in un carcere dell’Alabama, per un crimine che non ha mai riconosciuto. Nell’aprile 1985 uccise con due colpi di pistola l’agente Julius Schulte, dopo un litigio nel corso del quale la sua compagna aveva chiamato la polizia. L’uomo ferì la donna, che proteggeva con il proprio corpo la loro figlia undicenne. Anche volendo, per quel Vernon Madison non si potrebbe provare simpatia, perché l’uomo stranito che aspetta la madre nel braccio della morte non è più lui. È uno che ha smarrito la sua identità, a causa della demenza vascolare insorta dopo due ictus (nel 2015 e nel 2016). Una persona che ha perso la cognizione del passato, compreso il motivo per cui si trova in carcere, può essere messa a morte in base alla Costituzione americana?
È quanto dovrà stabilire in via definitiva la Corte Suprema, che pochi giorni fa ha ascoltato le parti. Lo Stato dell’Alabama ritiene che la demenza di Madison non sia motivo sufficiente per risparmiare a lui il boia, e alla società la lezione su che cosa accade a chi uccide. I suoi avvocati invocano l’Ottavo Emendamento, che vieta «il ricorso a pene crudeli e inusitate». L’anno prossimo i giudici annunceranno la decisione su una vicenda già passata una volta sotto i loro occhi.
Il 25 gennaio 2018, mezz’ora prima dell’iniezione letale, un tribunale dell’Alabama bloccò l’esecuzione di Madison. Lo Stato fece appello e la questione finì davanti alla Corte Suprema, che nel 2007 aveva stabilito che gli imputati non possono essere giustiziati se non sono in grado di comprenderne il motivo. Ma, nel caso di Madison, i giudici si schierarono in prima istanza contro la sospensione dell’esecuzione, basandosi su una sottile distinzione: c’è differenza tra chi non ricorda il crimine commesso e chi non è in grado di comprendere i concetti di delitto e pena. In occasione della sentenza, però, i tre magistrati più liberal — Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer e Sonia Sotomayor — si dissero pronti ad approfondire in futuro la questione del degrado cognitivo del condannato.
Il futuro è arrivato veloce, in concomitanza con l’aggiunta del nono giudice, Brett Kavanaugh, fresco di tortuosa nomina. Il collega Breyer in una nota ha sottolineato il tema dell’invecchiamento dei detenuti. Nel 1987 la detenzione prima dell’esecuzione era in media di 7 anni; oggi di 19. I condannati invecchiano, cambiano. E poiché l’età è un fattore di rischio, ci si può aspettare che Alzheimer e affini siano in aumento anche fra le celle del «miglio verde».
Vernon Madison probabilmente non sa nulla di tutto questo. All’ultimo check-up, un perito ha confermato la demenza vascolare. La perdita di memoria di chi soffre per patologie simili non è legata a una forma di amnesia, quanto a un degrado cognitivo che coinvolge progressivamente le capacità di ragionamento, la coscienza di sé. L’assassino dell’agente Schulte al primo processo nel 1985 si difese dicendo di essere malato di mente e al secondo, qualche anno più tardi, parlò di legittima difesa. Un essere abominevole, sfuggito alla pena che qualcuno oggi gli vorrebbe affibbiare. Perché purtroppo o per fortuna l’uomo che ogni mattina si sveglia nel braccio della morte aspettando la visita della madre, anche se conserva il suo nome, non è più Vernon Madison.

Il Fatto 13.10.18
Parte da Verona la nuova crociata
“Bisogna impedire alla donna di abortire per farle scoprire la sua vocazione: la maternità. Si deve abolire la legge 194 sull’aborto.
Ancelle di tutto il mondo Unitevi!
Dagli Stati Uniti al Costa Rica (a cui è dedicato il reportage), passando dall’Italia, i movimenti femministi che si rifanno al mondo della serie tv “Handmaid’s tale” tornano in piazza
di Martina Castigliani


“La verità cammina al di là delle persone”, dice uscendo di corsa dalla canonica. Don Adriano Avesani scandisce le parole come fosse sul pulpito, mentre in piedi occupa l’ingresso. Si intravede la perpetua, che ora sbarazza la tavola del pranzo come niente fosse. “Ce la facciamo”, dice don Avesani. “Siamo quasi alla verità”. La verità, la realtà, la legge di Dio. È una lezione. Due del pomeriggio, chiesa di Santa Toscana, Verona. Santa Toscana non è un posto qualunque: è una piccola chiesa nel quartiere Veronetta, quello multietnico dove convivono (male) CasaPound e Anpi. Su questo altare ogni domenica alle 11 si celebra la messa in latino, punto di ritrovo dei cattolici più conservatori. E qui – la chiesa è pure sede dell’Ordine dei Cavalieri di Malta – prestava servizio don Vilmar Pavesi, il prete iper tradizionalista vicino al ministro leghista della Famiglia Lorenzo Fontana, che a Verona è nato. Le femministe, che oggi manifestano in città, termineranno il corteo proprio davanti a questa chiesa. È passata una settimana da quando il Comune ha votato la mozione contro l’aborto. E ancora in città si parla solo di quello. “Dobbiamo salvare la famiglia e la vita. A tutti i costi”, ribadisce don Avesani. “Bisogna impedire alla donna di abortire per farle scoprire la sua vocazione: la maternità. Si deve abolire la legge 194 sull’aborto. Ora se ne vada”.
Verona è stizzita e stanca che si parli di lei, ma ancora una volta la storia ha voluto che sia qui il laboratorio delle destre, luogo di elaborazione di un modello di donna da estendere a tutta l’Italia. Ma se si vuole capirne qualche cosa di più, bisogna prendere la macchina fino alle porte di Verona, ad Arbizzano. Qui vive Matteo Castagna, giornalista e direttore del circolo “Christus rex-traditio”, uno che si definisce “cattolico integrale” e pure “all’estrema destra del Padre”. Non riconosce la chiesa e la chiesa non riconosce i suoi, ma è amico personale del ministro Fontana: “Abbiamo iniziato insieme a militare nella Lega. Poi io sono uscito dal partito, ma rimane uno dei nostri interlocutori”. Un interlocutore è Fontana come pure Andrea Bacciga, consigliere comunale per la lista identitaria “Battiti per Verona”, considerata vicina agli estremisti di Fortezza Europa, un nome che riecheggia direttamente il Terzo Reich. Hanno sostenuto il sindaco Federico Sboarina e ora hanno otto consiglieri. “Siamo simpatizzanti di Fortezza Europa, una forza politica populista e sovranista. Non è fascista, quella è una categoria superata”.
Nel salotto di casa Castagna: “Dobbiamo distinguere le femmine dalle femministe che vogliono sovvertire il diritto naturale”
C’è una bandiera gialla sulla parete, quella del Sacro Romano Impero: “Perché a quell’epoca ci fu l’apogeo della Civitas Christiana”, dice mentre si mette in posa con le braccia incrociate. Vuole una foto con lo stemma. “Si vede?”. Castagna ha 40 anni e di politica che conta ne ha vista già tanta: è stato a fianco di Flavio Tosi “prima che tradisse i suoi ideali” e pure con Borghezio in Europa. E ora è ottimista: “Dietro ogni grande politico c’è un grande tradizionalista. Dopo 60 anni di politica sovversiva dell’ordine naturale si sta assistendo al fallimento. C’è un risveglio nel mondo: penso a Trump, Orbán, ma anche al nostro governo. Non a caso a Verona ci sarà il World Congress of Families l’anno prossimo”.
“Noi siamo per la tutela della vita e riteniamo pericoloso il calo demografico in Italia che favorisce popoli che ci vorrebbero sostituire”. Castagna quando parla si sistema gli occhiali come per mettere a fuoco: dosa ogni parola. “L’aborto è una forma di omicidio. Nessuno che abbia buon senso può contravvenire al comandamento ‘non uccidere’. Noi siamo contrari a ogni forma di contraccezione. Il piacere non è contemplato, non lo neghiamo, ma è finalizzato alla riproduzione”. E le donne? “Dobbiamo distinguere le femmine dalle femministe che vogliono sovvertire il diritto naturale. La donna è un essere meraviglioso che Dio ha creato come compagna dell’uomo. Prima di tutto è moglie e madre. Ci sono donne che si rivolgono a noi in lacrime perché la società dei consumi le costringe a lavorare”.
Dalle “testarde” alla cattoliche: sono tutte contro il nuovo (o meglio antico) modello femminile
Verona è la terra dove le destre e la Cesa, la Chiesa come la chiamano qui, comandano da sempre. Ma qualcosa sembra essersi incrinato dopo il voto sull’aborto. La foto delle femministe di “Non una di meno” vestite da ancelle che osservano come statue il consiglio comunale è entrata nella storia. E ora le attiviste sentono la forza di chi ha fatto partire una scintilla. Martedì scorso hanno organizzato un’assemblea pubblica e oggi si trovano davanti alla stazione per una manifestazione nazionale. “È un risultato enorme”, dice Laura, seduta sugli scalini del Comune. Da quelle parti ora le chiamano “le testarde”. Quelle matte che sono state così irriverenti da andare “mascherate” a un consiglio comunale e che hanno macchiato il buon nome della città mostrando quella che semplicemente era la realtà. “Sono due anni che siamo attive – continua Giulia –. Ci battiamo per riprenderci uno spazio. L’antifemminismo ora ha una sponda nel governo e il corpo della donna è tornato a essere un campo di battaglia”.
Tra loro c’è anche Laurella, attivista trans dagli anni 70: “Da sempre a Verona le destre sperimentano quello che poi vogliono fare a livello nazionale. Qui era terra della Repubblica di Salò e qui ci sono le origini dello stragismo italiano. Nel 1995 la giunta approvò una delibera contro la parità dei diritti degli omosessuali. Non è mai stata cancellata. I dieci anni di amministrazione Tosi sono stati fondamentali per preparare il campo”. Rispetto al passato però c’è “Non una di meno” che, a un anno dal #MeToo, vuole far invertire una rotta. “Siamo pronte a uno stato di mobilitazione permanente”, dice Anna. “La mozione sull’aborto è una prima tappa. Poi ci sarà il ddl Pillon e le politiche di Matteo Salvini contro le donne migranti. Non staremo a guardare”.
Verona non è solo culla di integralismi. È anche terra di pensiero e filosofia, pure in campo femminista. La comunità di Diotima, quella a cui fanno riferimento le filosofe del pensiero della differenza Luisa Muraro e Chiara Zamboni, è nata qui. E sempre qui, all’università, si tengono seminari aperti alla cittadinanza. Alcune di loro saranno in piazza oggi: “È necessario esserci nelle urgenze del momento – spiega Sara Bigardi – che richiedono presa di coscienza e capacità di leggere ciò che accade. È il momento di interrogare i nostri privilegi di occidentali e proporre delle pratiche di pensiero e delle esperienze che possano essere positivamente contagiose”.
Nell’ultimo libro curato proprio da Diotima, parla anche Ida Dominijanni che ricorda come sia “il conflitto con l’esterno, e dall’interno, a mantenere in vita il femminismo”. E questo è quello che dicono le attiviste a Verona: “Il femminismo è vivo”.
Il Centro Aiuto alla Vita Diocesano, una delle associazioni che dovranno ricevere finanziamenti dal Comune dopo la mozione sull’aborto. Si trova a pochi minuti a piedi dalla chiesa di Santa Toscana. Quina, nigeriana, aspetta fuori dalla porta che inizi la distribuzione delle medicine. Le sue due bimbe giocano con una bambola sedute sul marciapiede. “Qui sono cattolici? Non lo so, a me non hanno mai chiesto niente della religione. Solo se avessi bisogno d’aiuto”. In portineria due signore che fanno le volontarie, nella sala d’attesa il poster di un bambino con la scritta “Io sono unico e irripetibile”. La direttrice Maria Paola Cinquetti ci pensa un po’, poi accetta di parlare. È tesa. “I più integralisti tra i cattolici dicono che non mi batto abbastanza contro l’aborto; gli altri, sul versante opposto, che costringo le mamme a partorire. Ma qui semplicemente ascoltiamo e offriamo alternative. Abbiamo visto e ascoltato troppe storie per essere contro le donne che abortiscono. Noi non colpevolizziamo nessuno”.
Il centro solo nel 2017 ha aiutato 586 donne, e i progetti vanno dall’accoglienza di mamme e bambini in strutture all’inserimento lavorativo. “Mi accusano di prendere soldi pubblici. Ma lo sanno che forniamo servizi gratuiti dove lo Stato laico non arriva?”. Lei, donna cattolica e a guida di un centro per la vita, sul modello femminile però non si trattiene: “Non possiamo tornare alla famiglia patriarcale. La maternità è un valore in più, ma garantendo la libertà di scelta”.
Due sere fa, un’altra seduta del Consiglio comunale
Sui banchi della maggioranza i consiglieri parlottano. I fotografi cercano Carla Padovani, l’eletta Pd che ha votato contro l’aborto ed è stata sfiduciata. Lei cammina avanti e indietro. Un ragazzo che viene da un circolo democratico la insegue per chiarire. Lei lo gela: “È tardi”. È giovedì scorso, sei giorni dopo il voto sull’aborto, il Consiglio comunale si riunisce per votare la presa di distanza dal leghista Alberto Zelger. Il problema, dicono, non è stata la sua mozione sulla 194, ma le dichiarazioni omofobe che ha rilasciato nei giorni successivi. “I gay sono una sciagura per la riproduzione e la conservazione della specie”, ha detto alla Zanzara su Radio 24. E pure: “L’aborto non è un diritto, ma un abominevole delitto”.
Si aprono i lavori e Zelger prende la parola: “Mi scuso se vi siete sentiti offesi”, dice ai colleghi in aula. “Le mie frasi esprimevano una posizione personale”. Dalla tribuna arriva un grido: “Vergogna”. Sono Angelo e Andrea, coppia omosessuale che un mese fa è stata aggredita davanti a casa con della benzina: un uomo incappucciato ha tirato il liquido in faccia ad Andrea che ha rischiato di perdere l’occhio. Sul pianerottolo sono state disegnate due svastiche ed è comparsa la scritta. “Vi metteremo tutti nelle camere a gas”. Angelo grida contro Zelger: “Sono queste le scuse? È colpa di voi politici se poi vengono ad attaccarci sotto casa”. L’Aula finge di non sentire e il consiglio viene sospeso per quasi due ore per riscrivere la presa di distanza da Zelger: si è scusato e la maggioranza spera che possa bastare così. Quando i consiglieri tornano, il testo è epurato: sono state tolte tutte le frasi choc, che così non rimarranno mai agli atti. Il documento passa con i voti di tutti tranne uno (Michele Bertucco di “Sinistra in Comune”). Il sindaco, assente. Aveva un altro impegno: la sagra della polenta.

La Stampa 13.12.18
“Vergini fino al matrimonio”
Il giuramento davanti ai padri
di Francesco Semprini


«Purity movement»: quando una teenager promette a suo padre di rimanere casta sino al matrimonio. E non lo fa nella privacy di casa propria, ma nel corso di un ballo a tema con tanto di vestito scuro per gli uomini e abito bianco per le aspiranti illibate. Una tendenza che, dopo aver preso piede in alcune realtà dell’America più profonda, si sta ora diffondendo nei quattro angoli del Paese col nome di movimento «Purity».
Il suo fondamento è nell’impegno da parte di adolescenti di non avere rapporti sessuali completi con uomini sino a quando non troveranno quello della loro vita, ovvero il futuro marito. Un impegno preso davanti ai loro padri che diventa promessa nel corso del «Purity Ball», cena e ballo con cui le ragazzine fanno coppia proprio con il loro genitore. Ai papà viene consegnata una chiave che simboleggia la castità della loro figlia e di cui diventano custodi. La chiave sarà quindi ceduta solo al futuro genero. Alle aspiranti illibate viene invece consegnato in dote un anello che devono portare sempre all’anulare sinistro ovvero al dito dove poi troverà posto la fede nuziale.
Le ragazzine devono inoltre firmare un contratto di «castità», ovvero un impegno scritto a mantenere la verginità. «La Bibbia dice che il sesso prima del matrimonio è un peccato ed io ci credo», racconta Hannah Lee Powers, 17enne della Louisiana che ha fatto di recente voto di castità pro-tempore durante un «Purity ball». «Partecipo a questo ballo - prosegue - perché ha un valore simbolico e divulgativo, come dire questo è quello che voglio fare io perché è quello in cui credo, che voi lo accettiate o no». Il movimento della purezza professa il sesso prima dell’unione matrimoniale come un peccato e per indirizzare i giovanissimi all’astinenza diffonde storie intimidatorie sulle malattie trasmissibili sessualmente e sulle gravidanze al di fuori del matrimonio. «Il sesso sicuro è un solo un mito - tuona Deb Brittan, uno degli organizzatori del ballo di Hannah - Non esiste una cosa chiamata sesso sicuro, se io ho un herpes genitale oggi è proprio perché qualcuno mi ha raggirato raccontandomi che c’era una cosa che si chiamava sesso sicuro».
La scelta di Hannah e delle altre colleghe del movimento comporta senza dubbio sacrifici data l’età e gli impulsi giovanili. «Per questo devo fissare delle regole, ad esempio mi sono imposta di non ritrovarmi mai da sola con un ragazzo a meno che non sia presente la sua famiglia - spiega -. In quel caso potrebbero nascere tentazioni pericolose».

il manifesto 13.10.18
I contenuti, non il metodo. Nel nome di Trentin
Congresso Cgil. Bruno Trentin è richiamato oggi con molta enfasi perché a differenza dell’attuale segretaria generale Susanna Camusso, non propose il suo successore ma mise in moto una consultazione vincolante di tutti i membri del direttivo. Sarebbe forse più opportuno che fosse evocato per i messaggi che lanciò con forza all’Assemblea di Chianciano del 1989 nella quale, con molto anticipo su tutti, pose il tema di come fare sindacato in un mondo del lavoro che si frammentava e si personalizzava
di Andrea Ranieri


Da vecchio trentiniano non posso che essere contento che la memoria di Bruno Trentin entri nel dibattito congressuale della Cgil.
Bruno Trentin è richiamato infatti con molta enfasi dal membro della segreteria confederale Vincenzo Colla (v. la Repubblica dell’11 ottobre scorso) perché a differenza dell’attuale segretaria generale Susanna Camusso, non propose il suo successore ma mise in moto una consultazione vincolante di tutti i membri del direttivo.
Sarebbe forse più opportuno che Trentin fosse evocato per i messaggi che lanciò con forza all’Assemblea di Chianciano del 1989 nella quale, con molto anticipo su tutti, pose il tema di come fare sindacato in un mondo del lavoro che si frammentava e si personalizzava. E magari fare i conti con la sua angoscia, testimoniata dai diari recentemente pubblicati, nel constatare come fosse difficile cambiare la Cgil per metterla in grado di affrontare c on decisione i compiti nuovi che il mutamento politico e sociale poneva al sindacato. In una situazione in cui la sinistra politica stava perdendo ogni capacità di leggere le dinamiche sociali, e faceva della modernizzazione e della innovazione senza aggettivi, della «governabilità», la sua fondamentale ragion d’essere.
Trentin aveva chiaro che di fronte alla frammentazione sociale che attraversava il mondo del lavoro e la società intera non era possibile limitarsi a difendere il fortino,
ma occorreva senza remore aprirsi alle nuove soggettività lontane dai modi tradizionali in cui il sindacato pensava se stesso e le sue regole di rappresentanza. Aprirsi al lavoro precario e instabile, fare i conti con la cultura del femminismo e dell’ambientalismo, fino a stringere coi nuovi movimenti forme di consultazione e di co-decisione permanente, ogni volta che la contrattazione affrontava problemi che avevano una ricaduta sulla vita quotidiana delle persone, dentro e fuori dei luoghi di lavoro.
Nella intervista di Colla, Trentin diventa una questione di metodo. E in maniera a dire il vero un po’ astratta. Bruno Trentin lasciò la segreteria della Cgil a metà del suo mandato, molto prima del Congresso. Nella Cgil era in corso un dibattito con due visioni esplicitamente diverse del sindacato. Da un lato Sergio Cofferati, dall’altra Alfiero Grandi come referenti fondamentali. C’era una esplicita differenza di linea. Trentin, che non amava le correnti né le cordate decise di risolvere la questione prima del Congresso, perché la sua idea di sindacato richiedeva militanti capaci di partecipare
all’elaborazione politica con le proprie idee e le proprie esperienze, e non invece un Congresso in cui le persone fossero invitate a schierarsi. Designò così una Commissione di saggi per individuare il suo successore, che doveva gestire il Congresso, proprio per evitare che diventasse alla fine una conta fra correnti «personalizzate».
Fu scelto, dalla maggioranza del Direttivo, Sergio Cofferati e fu Cofferati a gestire il Congresso.
Luciano Lama, la cui scadenza dalla carica di segretario generale avveniva contestualmente alla scadenza congressuale, indicò Antonio Pizzinato come suo successore prima del Congresso, che ratificò quella scelta. Come del resto ha fatto Susana Camusso, che dopo un giro di consultazioni si è resa conto di quello che è immediatamente percepibile da chiunque: che la maggioranza degli iscritti della Cgil, e ancora di più i nuovi lavoratori che la Cgil deve provare a rappresentare, vedono in Landini la persona più adatta a guidare la Cgil in questo momento difficile, che mette alla prova l’autonomia e la tenuta stessa del maggior sindacato italiano. Ma la scelta è impropria, dice Colla, perché sono gli organismi, l’Assemblea che uscirà dal Congresso, a scegliere il segretario, e quindi nessuna indicazione andava fatta prima del Congresso, ma la segretaria generale uscente avrebbe dovuto restare invece in rispettosa attesa della nuova Assemblea.
Dal momento che quello che si contesta non è la linea politica e nemmeno la persona ma il metodo, e che Vincenzo Colla ha comunque avanzato la sua candidatura, se la Camusso non si fosse espressa avremmo assistito ad un Congresso caratterizzato dalla caccia ai delegati disposti a sostenere questo o quello.
Chi è contrario a Landini dovrebbe spiegare le ragioni politiche della sua contrarietà. Susanna Camusso ha dato le motivazioni della sua proposta. Chi è contrario argomenti con altrettanta chiarezza. Non è proprio trentiniano occultare le differenze politiche sotto una questione di metodo.

Corriere 13.10.18
La sfida della Cgil
Il dopo Camusso e il populismo
di Dario Di Vico


Si è aperta nei giorni scorsi quella che si presenta come la competizione per il dopo-Camusso tra Maurizio Landini e Vincenzo Colla. La Cgil deve scegliere il nuovo segretario generale e la procedura è iniziata con qualche strappo e ampie recriminazioni. Ma al di là della cronaca spicciola e dei conflitti interni il congresso della maggiore confederazione italiana merita interesse perché nella stagione del populismo di governo è il primo corpo intermedio che, per l’importanza delle scelte da operare, dovrà giocoforza elaborare una strategia capace di fare i conti con una situazione del tutto nuova. Sui corpi intermedi, infatti, incombe come non mai l’incubo della disintermediazione. Il populismo si è insediato non solo elettoralmente nel corpaccione del lavoro dipendente ma ci tiene a una sorta di manutenzione quotidiana del rapporto con «il popolo», giocata sul filo della comunicazione più spregiudicata e demagogica. Per il sindacato è una sfida senza precedenti e tanto più per un’organizzazione come la Cgil giustamente gelosa della propria autonomia. Sia chiaro, in passato anche al Pci capitava spesso di bypassare il sindacato ma i codici erano comuni e si trattava per lo più di conflitti contingenti. Ora le confederazioni devono convivere con un condominio che non hanno scelto, la tuta blu o l’impiegato restano tesserati al sindacato ma le loro istanze in materia di lavoro/retribuzioni/diritti rappresentano la «materia prima» dell’offensiva populista. La disuguaglianza — per dirla con un termine che sintetizza il campo d’azione dei sindacati — non è più monopolio dell’azione dei corpi intermedi (e della sinistra) ma è come se fosse stata scalata e fatta propria dal populismo.
È questa la ragione strutturale della crisi odierna del sindacato che nel day by day si può facilmente constatare nei balbettii sul Def di Salvini-Di Maio o nell’assordante silenzio sul rischio di uscita dall’euro. Il sindacato confederale sa che per riconquistare la propria base deve competere con una politica aggressiva ed è come se non avesse i denti giusti per mordere. Sulle singole vertenze aziendali le categorie hanno ancora peso e incisività, il tesseramento scende ma non tracolla, l’impasse della confederazione si rivela invece proprio nell’incapacità di approcciare la novità populista e di battersi per superare il condominio. La risposta di medio periodo probabilmente sta nell’accettare la sfida sulla democrazia: ampliandola all’interno delle proprie strutture, avvicinando la contrattazione al luogo di lavoro, costruendo una prospettiva «alta» di partecipazione e democrazia economica.
E siccome stiamo parlando della Cgil sarà utile rapportare questa discussione alla storia e agli schemi di quest’organizzazione. E allora va detto che il sindacato ha bisogno sia di un «momento Lama» sia di un «momento Trentin». Nel primo caso la metafora storica serve per indicare come l’azione di sostegno e di miglioramento della condizione di lavoro non debba entrare in contraddizione con la salvaguardia degli equilibri di sistema. Il debito o la permanenza nell’euro non sono materie che vanno «nascoste» al dibattito sindacale, anzi in qualche maniera possono qualificarlo smascherando il populismo di governo. Il momento Trentin indica invece un’attenzione quasi spasmodica da rivolgere ai cambiamenti dell’economia reale e delle imprese. Solo ricostruendo la mappa dell’innovazione con tutte le sue discontinuità e le sue sfide il sindacato può trovare il modo di radicarsi nel presente e di costruire quelle esperienze di contrattazione capaci di concretizzare una proposta di re-intermediazione. Confidiamo che la Cgil discuta di questo e non di sole beghe interne e che il suo dibattito spinga anche gli altri corpi intermedi a fare altrettanto.

La Stampa 13.10.18
Un patto sacro
di Mattia Feltri

La deposizione del carabiniere Francesco Tedesco ha chiarito, forse definitivamente, alcuni punti non ancora così nitidi. Primo, un ragazzo di 31 anni e 36 chili è stato massacrato di botte dallo Stato. Secondo, per nove anni lo Stato ha coperto i responsabili, oppure non ha capito, o non ha voluto capire, attraverso parti delle forze dell’ordine, della magistratura, della politica che credevano o speravano nell’oblio. Terzo, bisogna essere grati al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che si è impegnato in prima persona perché il caso fosse riaperto e venisse restituita una dignità e una credibilità allo Stato medesimo. Quarto, la faccenda è di una tale enormità che non la si può scaricare interamente addosso ai colpevoli: riguarda ognuno di noi, chi si è battuto e poteva battersi di più, chi si è battuto poco, chi non si è battuto affatto, chi si è battuto per infangare la verità e reggere coda a uno Stato che rischiava la bancarotta morale: non uno di noi è estraneo a questa vergogna. Quinto, sarebbe ora che ci ficcassimo in testa una questione facile facile, e cioè che nessuno ha il diritto naturale di prelevare una persona e privarla della libertà; questo diritto è stato consegnato alle forze dell’ordine e alla magistratura da un patto sottoscritto da tutti noi a tutela di tutti, anche da e per Stefano Cucchi, e quel patto dovrebbe essere sacro, un patto secondo il quale chi riceve il diritto di privare della libertà una persona, ha anche il dovere di custodirla come fosse un figlio. Ficchiamocelo bene in testa, anziché infischiarcene del carcere, perché un giorno potrebbe toccarci.

La Stampa 13.10.18
Si indigni per l’omertà
di Mattia Feltri

Signor ministro,
lei disse: «Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello ma mi fa schifo. È un post che fa schifo». La precisazione non supera l’ambiguità e la violenza delle sue parole, ma un ministro va creduto e dunque mi scuso. Lei aggiunse che il carabiniere faceva bene a querelare, e Ilaria doveva vergognarsi e scusarsi. Qui pare che tutti dobbiamo chiedere scusa, tranne qualcuno. In quell’occasione Ilaria accusava un carabiniere ed è lo stesso carabiniere che, dopo nove anni di silenzio, giovedì finalmente ha parlato. Un po’ dell’indignazione che mi riserva, signor ministro, valuti se conservarla per altri, quando avrà capito perché già allora Ilaria sapeva, mentre buona parte delle istituzioni fischiettava. m. f.

il manifesto 13.10.18
Stefano Cucchi, altri carabinieri indagati per il depistaggio
Giustizia. Dopo la denuncia di Tedesco, la procura accusa di falso anche il comandante di Tor Sapienza. Nella lente i vertici dell’Arma
di Eleonora Martini


Ci sono altri carabinieri indagati per il depistaggio sulla morte di Stefano Cucchi. Uomini appartenenti all’Arma che potrebbero aver contribuito alla falsificazione e alla scomparsa degli atti relativi a tutte le fasi dell’arresto del giovane geometra romano, arrestato per spaccio la sera del 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo all’ospedale Pertini. O che comunque sapevano del pestaggio a cui è stato sottoposto ed hanno taciuto.
Tra loro, indagati per falso ideologico, oltre a Francesco Di Sano, il carabiniere della stazione di Tor Sapienza, che aveva già ammesso davanti alla Corte d’Assise (nell’udienza del 17 aprile scorso) di aver dovuto ritoccare i verbali per «ordine gerarchico» nascondendo le reali condizioni in cui versava Cucchi, c’è anche il suo comandante, il luogotenente Massimiliano Colombo, allora a capo della stazione di Tor Sapienza dove Stefano trascorse la notte dopo essere stato picchiato nella caserma Casilina. Gli inquirenti, che interrogheranno Colombo la prossima settimana, hanno già perquisito nei giorni scorsi la sua abitazione e gli uffici, alla ricerca di eventuali comunicazioni con i suoi superiori di allora. La procura di Roma, infatti, vuole capire fino a quale livello i vertici dell’Arma fossero a conoscenza del pestaggio subito da Stefano.
I nuovi indagati – e quelli che eventualmente verranno – sono iscritti nel filone di inchiesta integrativa che il pm Giovanni Musarò ha aperto in seguito alla denuncia presentata il 20 giugno scorso da Francesco Tedesco, uno dei cinque carabinieri imputati nel processo bis che dopo nove anni ha deciso di raccontare il pestaggio a cui i suoi due colleghi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, hanno sottoposto Cucchi dopo averlo arrestato (anche se non erano in servizio). Tedesco ha anche denunciato la scomparsa di due sue annotazioni di servizio, redatte non appena appresa la notizia della morte di Cucchi, nelle quali – a suo dire – raccontava la verità, fino ad allora taciuta, su quanto accaduto quella sera. Ecco perché la nuova inchiesta integrativa al processo bis sarebbe composta da due fascicoli: uno per falso ideologico e l’altro per soppressione di documento pubblico.
Il 26 settembre scorso, durante il suo secondo interrogatorio davanti ai pm, a Piazzale Clodio, il vice brigadiere Tedesco riconosce nel «fascicolo delle annotazioni di servizio» che i magistrati gli mostrano quello nel quale inserì i suoi verbali, «anche se – puntualizza – io ricordavo che la copertina era rossa e non grigia, e che le tabelle erano scritte a mano e non con il computer». Ma nella cartellina, come hanno appurato gli stessi inquirenti, i documenti relativi a Stefano Cucchi non ci sono più, e al loro posto compare un foglio bianco con su scritto «occupato», che nel linguaggio burocratico dell’Arma vuol dire «utilizzato temporaneamente per fini di servizio». Tedesco si accorse che erano spariti già qualche giorno dopo, e lì «cominciai ad avere paura». Non sono mai riapparsi.
Ma non è l’unico documento, presumibilmente scomparso o sostituito, che avrebbe potuto comprovare le pessime condizioni di salute di Stefano dopo il pestaggio – o forse i pestaggi – subiti quella notte. Il sospetto degli inquirenti è che siano stati ritoccati anche il verbale di arresto, quello di perquisizione e il registro di fotosegnalamento (nella caserma Casilina), oltre alle due annotazioni di servizio della caserma di Tor Sapienza (secondo Tedesco, fu il maresciallo Mandolini, comandante della caserma Appia oggi imputato per falso e calunnia, a chiederlo esplicitamente con una telefonata). Ma, soprattutto, evidentemente potrebbero essere stati camuffati tutti i protocolli informatici interni dell’Arma, che infatti non riportano notizia delle annotazioni di servizio depositate da Tedesco il 22 ottobre 2009.
Il carabiniere che per la prima volta ha rotto il muro di omertà che da sempre protegge le “mele marce” delle forze dell’ordine, ha raccontato anche di essere sottoposto a un «procedimento di Stato», che è «più grave del procedimento disciplinare e fra le sanzioni prevede anche la destituzione». E di averne ricevuto notizia nello stesso giorno in cui si è presentato a Piazzale Clodio per essere interrogato dai pm. Il suo avvocato, Eugenio Pini, ha chiesto all’Arma di «sospendere il procedimento in attesa che la Corte d’Assisi si pronunci». «Ora non mi interessa nulla se sarò condannato o destituito dall’Arma – ha però affermato lo stesso Tedesco – Ho fatto il mio dovere, quello che volevo fare fin dall’inizio e che mi è stato impedito. Sono rinato».
E a rinascere ora dovrebbe essere l’intero corpo dei carabinieri. Occorre però che lo Stato, e soprattutto chi ha sempre negato l’uso della tortura nelle nostre caserme e carceri, chieda scusa. «Il giorno in cui il Ministro dell’Interno chiederà scusa a me, alla mia famiglia e a Stefano – ha precisato ieri Ilaria Cucchi rispondendo all’inveto di Matteo Salvini – allora potrò pensare di andarci, prima di allora non credo proprio».
L’irruzione degli studenti: c’è vita fuori dalla bolla
Comincia la scuola. In settantamila sfilano in 50 città: chiedono di rifinanziare scuola e università, grandi assenti sulla scena politica del Def. La scuola, l'università, la cultura sono i grandi assenti nello scontro politico sulla manovra. Anche quest'anno i nove miliardi di euro tagliati nel 2008 da Berlusconi non sono recuperati. A Torino bruciati due manichini di Salvini e Di Maio. Il gioco delle parti politiche tra i vicepremier

Il Fatto 13.10.18
Cucchi, i buchi dell’Arma sul “rapporto Tedesco” mai arrivato in Procura
Il 22 ottobre 2009 una relazione di servizio che segnalava “l’aggressione subita dall’arrestato” nei locali dei carabinieri. Ma non si trova più. Chi la fece sparire?
Militari sotto accusa. Cinque carabinieri sono sotto processo a Roma per la morte di Stefano Cucchi
di Antonio Massari


C’è un fatto certo. Ed è proprio la sua certezza a evidenziare nella gestione della vicenda Cucchi, all’interno dell’Arma dei carabinieri, una lunga scia d’incongruenze. Il fatto certo è che il 22 ottobre 2009 – Stefano Cucchi viene arrestato tra il 15 e il 16 e muore proprio il 22 – il carabiniere Francesco Tedesco redige una relazione di servizio che viene protocollata nella stazione Appia. Il fatto è certo perché, alla riga 79 del fascicolo, è tuttora scritto: “Annotazione del 15 ottobre 2009 – arresto Cucchi”. Un’annotazione c’era. Ed è sparita. A rivelarlo è Tedesco, che finalmente ritrova la memoria, dopo 9 anni, nei quali aveva dunque omesso e mentito. La relazione – dice al pm il carabiniere, anch’egli imputato di omicidio preterintenzionale – segnalava “l’aggressione subìta da Cucchi”. Tedesco “denunciava” i colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessandro Di Bernardo che, durante il pestaggio, aveva cercato di bloccare. Il comandante della stazione avrebbe dovuto trasmettere la relazione “senza ritardo” alla Procura. Ma in Procura non giunse nulla. Ma allora: chi – e perché – fece sparire quella relazione? E com’è possibile che nessuno – all’interno dell’Arma – si sia accorto della manomissione? Analizziamo le incongruenze di questa storia.
Per prassi, le relazioni di servizio, che contengono una notizia di reato, vengono consegnate direttamente al comandante di stazione. Tedesco sostiene di averla depositata in un “fascicolo, conservato in un armadio, posto di fronte all’entrata della caserma e accessibile a tutti”.
Non è esattamente la procedura prevista dal regolamento. Fonti qualificate – che proteggiamo con l’anonimato – assicurano al Fatto che Tedesco la depositò nel fascicolo alla presenza di un piantone. E il piantone potrebbe testimoniare. Anzi due piantoni. Tedesco, giorni dopo, torna a consultare il fascicolo, che è sempre presidiato, scoprendo che “le due annotazioni sono scomparse”. E inizia ad “avere paura”. S’informò – magari proprio con il piantone – per capire se il fascicolo fosse stato consegnato al comandante? Sarebbe una curiosità spontanea. Ma nel suo racconto non v’è traccia né del piantone né di domande. Proseguiamo.
Tedesco dice che, della relazione di servizio, era al corrente il collega Vincenzo Nicolardi che gli “consigliò” di scriverla. Facciamo due conti. Se aggiungiamo la manina che l’ha fatta sparire, i due piantoni e – non potendo escludere che l’abbia ricevuta – il comandante della stazione, nella caserma potrebbero sapere almeno in sei. Quanti carabinieri operano in una stazione di queste dimensioni? Tra i 15 e i 30. In sei, tra loro, se la versione di Tedeschi è vera, potrebbero conoscere la verità. Ma la notizia si ferma lì. Eppure, pochi giorni dopo, nel novembre 2009, secondo gli atti della Procura di Roma, “tutti i carabinieri coinvolti, in qualsiasi modo, nella vicenda Cucchi”, vengono “convocati” al “Comando gruppo carabinieri di Roma” e “sentiti dal comandante provinciale, generale Vittorio Tomasone”. Tutti tranne Tedesco. Strano.
Alla riunione sono presenti il comandante del gruppo, colonnello Alessandro Casarsa, e i comandanti delle compagnie Casilina e Montesacro, i colonnelli Paolo Unari, e Luciano Soligo. Alcuni hanno fatto una brillante carriera: Tomasone è generale di corpo d’Armata e Casarsa, generale di Brigata, oggi comanda i Corazzieri che proteggono il Quirinale. Della relazione, hanno assicurato al Fatto, non seppero mai nulla. Altrimenti avrebbero denunciato. Nella riunione in cui si occuparono della vicenda Cucchi era presente anche il maresciallo Mandolini. Il destinatario, stando alla versione di Tedesco, della relazione fantasma. Mandolini sostiene di non esserne mai stato a conoscenza. E tutta la catena gerarchica, come abbiamo detto, dice di non averne mai saputo nulla. Del resto Tedesco, che pure avrebbe potuto rivelare l’esistenza del documento, non è tra i presenti. L’indagine interna non dà alcun frutto. C’è un’altra occasione per svelare l’esistenza di questa relazione. O meglio: l’inesistenza. La Procura nel 2015 chiede al Comando provinciale dei carabinieri di trasmettere una lunga serie di atti. Tra questi, le “relazioni di servizio sottoscritte dai carabinieri coinvolti nell’arresto di Cucchi”. Tedesco incluso.
Il carabiniere che consulta l’elenco delle annotazioni di servizio, però, è stranamente disattento: gli sfugge che, alla riga 79 del fascicolo, c’è scritto “Annotazione del 15.10.2009 – arresto Cucchi”. Se l’avesse cercata, avrebbe trovato solo un foglio bianco. Niente di più. Avrebbe dovuto segnalarlo ai superiori e alla Procura. Ma anche in questo caso nessuno nota nulla. Anzi. Il maresciallo Emilio Buccieri, comandante della stazione sin dal 2009, dice al pm Musarò di averlo scoperto, sì, ma solo a luglio, dopo la richiesta della Procura. Mai prima. E trasecolando commenta: “È evidente che qualcuno l’ha prelevata”. Ed è evidente che l’Arma non se n’era mai accorta.

Il Fatto 13.10.18
“Finalmente nessuno può accusarmi di aver detto il falso”
Anna Carino. L’ex moglie di Raffaele D’Alessandro fu intercettata mentre parlava con il coniuge del pestaggio: “Mi sono tolta un peso”
di Antonella Mascali


Dicembre 2015, la Squadra mobile di Roma intercetta una lite al telefono tra Raffaele D’Alessandro, uno dei carabinieri accusati di aver ucciso di botte Stefano Cucchi e l’ex moglie Anna Carino. Quell’intercettazione, a 6 anni dalla morte del giovane geometra, fu importante per arrivare al processo, che si sta celebrando a Roma, ai carabinieri imputati a vario titolo di omicidio preterintenzionale e di aver protetto i responsabili. Anna Carino fino a tre anni fa era rimasta in silenzio, ma chiamata dal pm Giovanni Musarò si decide a raccontare quello che l’ex marito, padre dei suoi due figli, le aveva confidato pochi mesi dopo la morte di Cucchi: aveva partecipato al pestaggio mortale dopo l’arresto per droga. “Di fronte ai miei rimproveri, mi rispose: ‘Quello era un drogato di merda’”, ha confermato ai giudici il 12 giugno scorso.
La svolta di mercoledì, con la confessione di uno dei carabinieri coinvolti, Francesco Tedesco, rivelata dal pm Musarò in aula, l’ha sorpresa: “Mai l’avrei potuta immaginare. Finalmente nessuno può più dire che non ho detto la verità”, sospira al telefono. “È stato difficilissimo parlare e ancora adesso non è facile. Mio figlio di 10 anni non sa niente, ma il più grande, di 12, ha capito. Sa, perché ha visto il telegiornale. Ora è sofferente, non vorrebbe credere che suo padre ha fatto realmente una cosa del genere. Non so nemmeno io cosa dire, non è un bel discorso da fare a un figlio, cerco di non parlarne”.
I suoi figli hanno un rapporto con il padre?
Sporadico. Lui vive in provincia di Caserta, li vede un weekend ogni due mesi circa con i suoi genitori. Non è che sia un rapporto… Dovrebbe essere diverso, ma non lo è mai stato.
Lei ha parlato perché chiamata dal pm, lo rifarebbe?
Assolutamente sì, anche perché nascondere la verità è molto brutto, si sta male. Non è facile nascondere una cosa così importante. Mi sono tenuta questo peso per tanti anni, tranne con mia mamma, a lei avevo raccontato tutto.
Come ha reagito sua madre?
Era scioccata per quello che aveva fatto il mio ex marito.
Come si convive con una tragedia così: il padre dei suoi figli aveva picchiato insieme ad altri carabinieri un ragazzo che è morto in seguito a quelle botte….
Già! non è una bella sensazione (piange, ndr). Sono nauseata.
Dopo aver parlato del suo ex marito con il pm come si è sentita?
Da una parte più leggera perché mi sono tolta un peso dicendo la verità e dall’altra parte dispiaciuta perché è il padre dei miei figli. È ovvio che mi dispiace.
Il suo ex marito l’ha sentito?
Non ho rapporti, ho solo contatti al minimo in merito ai figli.
Lei ha voluto incontrare Ilaria Cucchi oltre due anni fa. Com’è andata?
Prima ho parlato con il pm e poi l’ho cercata. L’ho voluta incontrare perché sentivo il bisogno di chiederle scusa di persona per non aver parlato prima.
Ilaria com’è stata nei suoi confronti?
Dolcissima, gentilissima. Mi ha ringraziato, ha capito la mia difficoltà, la motivazione del mio silenzio.

il manifesto 13.10.18
L’irruzione degli studenti: c’è vita fuori dalla bolla
Comincia la scuola. In settantamila sfilano in 50 città: chiedono di rifinanziare scuola e università, grandi assenti sulla scena politica del Def. La scuola, l'università, la cultura sono i grandi assenti nello scontro politico sulla manovra. Anche quest'anno i nove miliardi di euro tagliati nel 2008 da Berlusconi non sono recuperati. A Torino bruciati due manichini di Salvini e Di Maio. Il gioco delle parti politiche tra i vicepremier
di Roberto Ciccarelli, Giansandro Merli


ROMA I settantamila studenti che ieri sono scesi in piazza in cinquanta città italiane hanno denunciato il grande assente nel dibattito sul Def e la legge di bilancio: gli otto miliardi tagliati alla scuola (e 1,1 miliardi all’università e alla ricerca) nel 2008 dal governo Berlusconi. Da allora mai più rifinanziati. Questi fondi non ci saranno nella manovra, così come quelli per la cultura. Oltre alla richiesta di rifinanziare tutto quello che è stato eliminato dieci anni fa all’istruzione, gli studenti chiedono il superamento dell’attuale modello di alternanza scuola-lavoro e criticano i controlli antidroga nei dintorni degli istituti scolastici stabiliti dall’operazione «Scuole sicure» voluti dal ministro dell’Interno Salvini. Per gli studenti è necessaria una sicurezza diversa: “studiare di più e in edifici a norma in un paese dove il 70% sono a rischio, non i cani che cercano lo spinelli all’ingresso delle scuole” hanno detto dal camion nel corso del corteo romano che ha sfilato da Piazzale Ostiense al Ministero dell’Istruzione in viale Trastevere.
LA SCUOLA È PRATICAMENTE assente dal contratto tra Lega e Cinque Stelle. Oggi c’è solo la misura attendista del ministro dell’Istruzione Bussetti che ha sospeso per un anno le prove Invalsi e l’alternanza scuola-lavoro per accedere all’esame di maturità. Ancora incerta è l’indizione del concorso atteso da migliaia di potenziali docenti e da quelli precari. É in bozza il decreto che regolerà il concorso per i diplomati magistrali, che hanno ricevuto la cattedra a tempo indeterminato ma con riserva.
L’IRRUZIONE degli studenti medi sulla scena politica ha provocato una contraddizione nel campo populista. L’episodio scatenante è accaduto a Torino dove nel corteo partito da piazza Arbarello verso Porta Nuova sono stati bruciati due manichini raffiguranti Salvini e Di Maio. Sono state identificate e denunciate per vilipendio delle istituzioni due studentesse di 17 e 18 anni. Da una posizione di destra «legge e ordine» Salvini ha detto: «Che schifo: studenti coccolati dai centri a-sociali e da qualche professore». Dalla parte di una sinistra garantista si è schierato Di Maio: «Questa denuncia è un reato di epoca medievale, spero sia archiviata il prima possibile. La repressione non porta mai nulla di buono». Dopo avere ricordato il suo passato di rappresentante studentesco Di Maio ha aggiunto che gli studenti «possono anche andare oltre le righe, un po’ come ha fatto l’M5S a patto di non andare contro la legge e di non usare violenza. Voglio parlare con loro. Le porte dei miei ministeri sono aperte, e le mie orecchie pure: le ho aperte ai riders, ai disoccupati, ai lavoratori, agli imprenditori».
IN CAMPO C’È la polemica su alcuni «tagli» di 100 milioni. Per Di Maio sarebbero i fondi destinati all’alternanza scuola-lavoro che docenti e dirigenti si rifiuterebbero di usare «per mandare gli studenti a friggere le patatine da McDonald’s». «Ne abbiamo preso una parte per scongiurare l’abbassamento degli stipendi agli insegnanti». Argomenti che gli studenti ritengono «inaccettabili»: «I risparmi dovuti alla riduzione delle ore di alternanza – sostiene Giulia Biazzo (Uds) – devono essere destinati a potenziare la didattica, non a coprire la mancanza di finanziamenti adeguati per dare un giusto compenso ai docenti. Deve aumentare gli stanziamenti sull’istruzione e abolire la “Buona scuola” di Renzi».
LA RICHIESTA di abolire una delle più odiate riforme della precedente legislatura è tornata più volte nei cortei. «L’alternanza scuola-lavoro è completamente sbagliata – ha detto Federico, 15 anni, del liceo Tasso a Roma – sia per come è stata applicata, che nella sua ideologia di fondo. La scuola deve per prima cosa insegnare a pensare, non introdurti subito nel mercato del lavoro, abituandoti ad accettare qualsiasi condizione di impiego». In viale Trastevere, sulle scale del ministero, il corteo ha scandito lo slogan: «Siamo tutti Stefano Cucchi» e «Chi non salta è un fascista». «In Italia si è aperta una nuova stagione politica – ha detto Samuele, studente diciottenne del liceo Augusto – Dicono che questo sia il ‘governo del cambiamento’, ma il vero cambiamento siamo noi, il futuro di questo Paese. Rifiutiamo le politiche di questo governo, sia quelle sulla scuola, che tutte le misure razziste che sono state approvate».

La Stampa 13.10.18
Gli studenti in piazza attaccano il governo
Anche Di Maio finisce nel mirino
di Flavia Amabile


«Vedete questo? E’ il muro dell’ignoranza, della paura e del razzismo», spiega uno studente in piena via Marmorata a Roma, indicando una pila di scatole di cartone decorate con le foto dei ministri di governo da Salvini a Bussetti. Fumogeni accesi, quindi parte l’ordine: «E noi adesso lo abbattiamo». Decine di studenti si lanciano sulle scatole, le distruggono e passano oltre. A Torino, più o meno nello stesso momento, due studentesse stanno facendo bruciare i manichini di Salvini e Di Maio.
Sono i momenti più violenti delle manifestazioni che hanno portato in piazza 70mila studenti in più di 50 piazze d’Italia per protestare contro il governo e la sua assenza di politiche sulla scuola e l’università. E l’inizio di un autunno caldo, annunciano. La manifestazione è organizzata dalla Rete della Conoscenza, di cui fanno parte Uds e Link, la Rete degli studenti medi e l’Unione degli Universitari, e a cui ha aderito anche il Fronte della Gioventù Comunista. A Torino erano presenti molti ragazzi dei collettivi e del centro sociale Askatasuna ma in altre città come Roma a protestare sono stati tanti giovani non legati a sigle o raggruppamenti politici.
Lavinia ha 14 anni, non ha mai partecipato a un corteo da sola con i fumogeni e la polizia. Accanto a lei ci sono i suoi compagni di classe. Vengono dal liceo Virgilio di Roma ma insieme a loro ci sono ragazze e ragazzi del liceo Tasso, del Morgagni, del Mamiani,dell’Aristofane, dell’Augusto. «Sono qui perché non ho mai conosciuto una scuola senza problemi – spiega Livia – Il governo ha approvato un provvedimento per rendere sicure le scuole ma non è la sicurezza che volevo. Al ministro Salvini interessano le telecamere e controllarci, a noi interessa avere un tetto sicuro sulla testa. Chi ha ragione?».
Mino, 17 anni, canta e balla sulle note di Bella Ciao: «Sì, è vero, sembriamo dei reduci, ma finché ci sarà del fascismo da combattere, cantare Bella Ciao sarà un dovere». In molti sono bene informati, nonostante siano poco più che adolescenti. Rosanna, 16 anni, del liceo Tasso: «Abbiamo letto la Nota di aggiornamento al Def, approvata dalle Camere che concentra gli investimenti su reddito di cittadinanza e flat tax, dimenticandosi dell’istruzione». Oppure Lucrezia,18 anni, del liceo Augusto: «Ci sono ragazzi nella mia scuola che non si possono permettere tutti i libri di testo. Abbiamo una biblioteca che non può essere usata per le muffe e i cornicioni che cadono. Il governo si dovrebbe occupare di questo». Come riassume Rachele Scarpa, coordinatrice regionale della Rete degli Studenti Medi del Veneto: «In Italia ogni anno 150mila studenti abbandonano gli studi e non si fa nulla per farli restare».
In realtà il ministro Salvini polemizza in diretta con loro. «Questi “democratici” studenti, coccolati dai centri a-sociali e da qualche professore, avrebbero bisogno di molte ore di educazione civica a scuola e magari di più attenzione da parte dei genitori», scrive su Facebook e prevede per tutti quelli che sono scesi in piazza un futuro da disoccupati. La risposta degli studenti è un grido che viene ripetuto più volte in tutta Italia: «Odio la Lega!». E’ il vicepremier Luigi Di Maio a tendere la mano agli studenti: «Vediamoci, venite qui, le porte dei miei ministeri sono sempre aperte». Ma i ragazzi gli ricordano di aver chiesto più volte invano un incontro con il ministro dell’Istruzione. «Il ministro ha preferito unicamente il dialogo con il Movimento Giovanile della Lega», ricorda il coordinatore nazionale della Rete degli Studenti, Giammarco Manfreda. E Giacomo Cossu, coordinatore nazionale della Rete della Conoscenza, annuncia: «Lanceremo occupazioni e autogestioni di scuole e università, finché le nostre richieste non verranno accolte».

Repubblica 13.10.18
La mobilitazione dei giovani antisovranisti in 50 città
Gli studenti scendono in piazza è il primo sciopero anti-governo
A Torino in fiamme i manichini dei leader. Salvini: " Schifoso". Di Maio: " Porte aperte, niente denunce"
di Matteo Pucciarelli


«Apriamo le scuole e le città, contro il governo del cambiamento. La pacchia è finita! » , recitava lo striscione di apertura del corteo giovanile a Torino, ribaltando il famoso slogan del leader della Lega. E così sono stati loro, gli studenti, i primi a interrompere la luna di miele dell’esecutivo con il Paese: almeno 70mila ragazzi di scuole superiori e università sono scesi in una cinquantina di piazze, da Roma a Napoli, da Bari a Catanzaro e Palermo, da nord a sud, per protestare contro la "manovra del popolo". Le organizzazioni studentesche denunciano la mancanza di risorse per l’istruzione nella manovra ma anche di provvedimenti per contrastare la precarietà del lavoro.
A Torino la manifestazione è stata più radicale. Manichini con le sembianze di Salvini e Di Maio sono stati dati alle fiamme davanti alla prefettura. Mentre di fronte al ministero dell’Istruzione i ragazzi hanno bruciato una telecamera di cartone posata sopra mattoni. « I mattoni sono quelli che rischiano di caderci in testa tutti i giorni - la spiegazione - Le telecamere sono quelle che vogliono mettere in ogni scuola per controllarci».
La reazione dei due vicepremier di fronte a queste prime avvisaglie di protesta dimostrano la diversità di approccio ( e di elettorato) di Lega e M5S. « Questi " democratici" studenti, coccolati dai centri sociali e da qualche professore, avrebbero bisogno di molte ore di educazione civica. Forse - ha scritto il ministro dell’Interno su Twitter - capirebbero che bruciare in piazza il manichino di Salvini e di chiunque altro, o appenderne ai lampioni le immagini, è una cosa schifosa » . Molto più dialogante Di Maio: « Ci sono ragazzi che stanno manifestando, vediamoci, le porte del ministero sono aperte. Le manifestazioni si devono fare, andate avanti. Ho fatto il rappresentante degli studenti, so bene il valore di una pressione sociale pacifica. Ma non è vero che tagliamo a scuole e università » . E siccome due ragazze sono state denunciate per i manichini, il vicepremier dei 5S ha detto di sperare che « la denuncia per vilipendio, reato di epoca medievale, venga archiviata il prima possibile. La repressione non porta mai a nulla di buono».
La posizione di comprensione della piazza da parte del Movimento è in qualche modo naturale: tutti gli istituti di sondaggi e ricerca hanno spiegato che lo scorso 4 marzo, ma con tendenze simili anche gli anni precedenti, nella fascia 18-25 anni il M5S stacca nettamente gli altri partiti, con oltre il 40 per cento. Un po’ per il profilo genericamente antisistema e quindi di rottura, un po’ per la promessa del reddito di cittadinanza e di maggiori tutele per i lavoratori precari, il voto giovanile una volta rivolto a sinistra ha premiato i 5Stelle. Se è già in corso un pentimento generazionale è presto per dirlo, ma le piazze di ieri per Di Maio e co. rappresentano una preoccupante avvisaglia, anche perché gli studenti annunciano nuove mobilitazioni.

La Stampa 13.10.18
Roberto Saviano
Un’idra populista a due teste governa l’Italia
Abbiamo bisogno del coraggio degli scrittori
di Bernard-Henri Levì


Incontro Roberto Saviano, su iniziativa della rivista La Régle du jeu, in un appartamento parigino.
Arriva, come sempre, e come in occasione del nostro ultimo incontro, l’anno scorso, a Milano, circondato dalla squadra di poliziotti che lo protegge dopo la pubblicazione, undici anni fa, di «Gomorra».
E la conversazione, ovviamente, parte da lì.
Quanto coraggio ci vuole per vivere, come già Salman Rushdie, Fernando Savater o Ayaan Hirsi Ali, così, 24 ore su 24, in allerta, con la morte alle calcagna.
Ma parliamo anche di questa «variante» situazionale che sembra una sua esclusiva e che fa sì che, di tutti gli scrittori condannati, uno dagli islamisti, l’altro dai terroristi baschi e lui dalla mafia, sia l’unico a cui il ministro degli Interni del suo stesso Paese minaccia di ritirare la scorta - vale a dire di consegnarlo agli assassini.
Supponiamo, allora.
Se davvero accadesse, se l’idra populista a due teste che governa l’Italia prendesse questa decisione folle e letteralmente criminale, non spetterebbe all’Europa occuparsene?
Questa è la famosa «sussidiarietà» di cui ci hanno riempito le orecchie e che dovrebbe essere un principio fondante dell’Unione.
Questo è ciò che accade quando uno Stato membro consente il deterioramento dei conti delle sue banche o di quelli del Tesoro, e subentra la Banca centrale europea, con Mario Draghi.
Bene, uno scrittore è più prezioso del bilancio di una società o di una valuta.
E, per la salvaguardia di quest’ altro tesoro, non solo nazionale, ma europeo che è Roberto Saviano, in difesa dell’ europeo di cuore, di convinzione e di fatto che si è rivelato attraverso i suoi libri, per proteggere quest’uomo che, da solo, ha fatto quanto tutti i servizi segreti del continente messi insieme per liberarci dalle mafie, propongo che Mario Draghi mobiliti le forze di polizia.
L’inedita alleanza Lega-M5S
Parliamo dell’Italia in generale.
Il cataclisma europeo che incombe, secondo Saviano, non è tanto la Brexit quanto questa secessione non dichiarata che, guidata dall’inedita alleanza tra Lega e 5 Stelle, colpisce, oltre all’economia, alla finanza e altri differenziali dei tassi di interesse tra Roma e Francoforte, il cuore stesso dei valori e dell’anima europea.
Berlusconi, ovviamente, aveva dato il via.
Qui la rottura è totale
Ma qualcosa in lui non era forse rimasto oscuramente legato all’idea di una Repubblica italiana ed europea?
Mentre qui la rottura è totale.
Ingresso delle mafie, anche quando si pretende di combatterle, nel cuore dell’apparato statale.
Odio, nella componente di destra come in quella di sinistra della coalizione, tra i «bruni» della Lega come tra i 5 Stelle rosso pallido, per tutti quelli che da Giotto a Dante a Pasolini hanno reso l’Italia la vera patria dei pensatori, dei poeti e della bellezza.
E poi, la forza del contagio, della corruzione, della contaminazione virale che questo nuovo modello di governo potrebbe avere sui Paesi vicini e sugli alleati.
Perché, durante questa serata, Saviano ci racconta due cose.
Che in questa strana coppia, che in un primo momento sembrava il proverbiale matrimonio tra la carpa e il coniglio, è l’elemento di destra che si sta imponendo, soppiantando e fagocitando l’elemento di sinistra.
E che questa non è un’aberrazione, ma un paradigma che preannuncia un certo futuro: Le Pen e Mélenchon? Le posizioni di quest’ultimo sulla questione dei migranti, per esempio, sono destinate ad allinearsi con quelle della prima? E cosa succederebbe se, un domani, fosse il volto nuovo, Marion Marechal, a trovarsi di fronte a un altro giovanotto, tipo François Ruffin, che oggi è un deputato, ma di cui non si può dimenticare, ai tempi in cui ha diretto il giornale «Fakir», la torbida indulgenza nei confronti di personalità del tutto infrequentabili?
Le eredità letterarie
E poi, naturalmente, ci si è interrogati sulla letteratura.
Perché, ed è un’altra disgrazia dei tempi e di questo stato di emergenza in cui ci hanno sprofondato in tutta Europa, i populisti, tendiamo a dimenticare che, come Savater, come Rushdie, l’autore di «Bacio Feroce» e oggi, di «Piranhas» (ndr, traduzione de «La paranza dei bambini», pubblicato da Gallimard), il suo primo romanzo, è, in primo luogo, uno scrittore.
La sua ammirazione per Malaparte e «La pelle», il suo grande affresco del dopoguerra su Napoli.
La sua rabbiosa passione per le cose e, come diceva Francis Ponge, per il loro «sottobosco tipografico».
Che non c’è poi così gran differenza, nel suo caso, tra saggio e finzione, inchiesta e romanzo, l’eredità di Kapuściński e quella di Norman Mailer.
«La paranza dei bambini»
E poi queste bande di killer ragazzini, che sono gli eroi del libro e che mi ricordano i bambini-soldati incrociati in Angola, ma anche in Sri Lanka, durante le mie inchieste sulle guerre dimenticate.
La loro crudeltà senza freni né limiti.
La loro umanità esemplare e allo stesso tempo folle, è, come ha detto Michel Foucault ciò di cui hanno bisogno i bio-poteri contemporanei per funzionare.
Il modo in cui i capi mafia, sapendo che questi piccoli uomini possono essere addestrati come animali, li mandano allo sbaraglio fino a quando, ubriachi di sangue, posseduti e espropriati, morti viventi, minacceranno di ritornare contro i loro padroni e dovranno essere sterminati.
E poi la strana fascinazione per l’islamismo e per l’Isis, che porta questi bambini disumanizzati, ridotti a macchine, assenti a se stessi, ma tutti cattolici e regolarmente comunicati, andare alla guerra urlando «Allahou Akbar!».
«Piranhas» è assolutamente da leggere, è un capolavoro.
Traduzione di Carla Reschia

Il Fatto 13.10.18
La scomparsa della politica estera
di Mario Giro

*già viceministro degli Esteri 2016-2018

Timothy Garton Ash parla di declino dell’Occidente. E non è certo la prima volta: fu uno dei mantra intellettuali al volgere del secolo scorso che proseguì a ogni fine di guerra mondiale. Oggi va sotto il tema dei “sonnambuli”: governi che andarono verso la Grande Guerra senza accorgersene, storditi dai fasti della Belle Époque. Quel tempo, che alcuni chiamano la “prima globalizzazione economica”, ancora segna chi studia le cose europee.
Oggi “mente svagata” mi pare la sintesi migliore. Uno dei problemi degli Stati “sonnambuli” fu il non parlarsi, non fare politica estera che serve proprio a evitare disastri. Con un po’ di esagerazione (ma solo un briciolo) si potrebbe affermare che con “mente svagata” l’Occidente oggi non si interessa più del mondo esterno. Quasi tutti i Paesi importanti dell’Occidente non fanno più politica estera sottomettendola alle necessità immediate di politica interna.
Non abbiamo posto la dovuta attenzione al fatto che l’Amministrazione Trump non abbia mai completato le nomine al dipartimento di Stato: molte caselle sono rimaste vuote e la politica estera americana è sostanzialmente in mano agli “acting” (interim) senza potere, con tutte le conseguenze del caso. La stessa staffetta tra Tillerson e Pompeo ha mostrato quale sia la direzione presa: America First significa una jacksoniana politica di “rientro” entro i confini nazionali, iniziata da Barack Obama e a cui Donald Trump ha impresso una velocità maggiore.
Guardando al Regno Unito il quadro non cambia: preso in pieno dalla Brexit e dal negoziato con la Ue, il governo britannico si trova isolato e non operante sullo scenario internazionale, malgrado la sua perfetta macchina diplomatica. Le dimissioni di Boris Johnson da ministro degli Esteri sono state emblematiche. In Italia per almeno due anni la politica estera è stata frenata dal ministero dell’Interno con le sue ossessioni migratorie. La decisione di Enzo Moavero Milanesi, ora titolare della Farnesina, di tenere la conferenza politica sulla Libia potrebbe essere un colpo d’ala. La Germania, dal canto suo, è concentrata sui dossier europei e sull’attacco sovranista interno. Le poche iniziative internazionali significative del governo Merkel sono state il parto più del ministero della Cooperazione che di quello degli Esteri. In Francia, tradizionalmente il Paese europeo più attivo sullo scenario mondiale, le preoccupazioni domestiche stanno limitando l’outreach del presidente Macron, che pure ha investito molto in termini di pensiero e proposte globali nella prima fase della sua presidenza, senza tuttavia ricevere risposte sia dall’Europa che da altri possibili partner. La Spagna non fa di meglio, presa in ostaggio dalla questione catalana.
Le crisi siriana e libica stanno lì a dimostrare come l’Occidente non riesca più a fare politica estera, anzi ne sembra disinteressato, senza citare lo Yemen e l’Iraq. Mentre Russia, Turchia, Cina e altri attori (il Golfo, l’Iran, l’India ecc.) stanno facendo molto in termini di presenza e di proposta, l’Occidente tace, ritirato nel suo foro interno e alle prese con le ossessioni della sua opinione pubblica. Siamo schiacciati sul presentismo e sono finiti i dibattiti che avevano appassionato i cittadini occidentali durante le guerre nell’ex Jugoslavia o nel Golfo. Lo stesso movimento per la pace, che nel 2003 aveva provocato la manifestazione globale più imponente della storia (120 milioni di persone in 800 città), oggi è silenzioso. Dominano i temi tutti intestini e di retroguardia sull’identità, la sostituzione etnica, le migrazioni o la sicurezza, che attraversano le società occidentali provocando reazioni emotive di paura e di rabbia. Il mondo sembra una minaccia di cui è meglio non occuparsi. Ma con la geopolitica delle emozioni non si va lontano.

La Stampa TuttoLibri 13.10.18
I muri non servono a niente, è la giovinezza che spinge i migranti
L’Africa è un continente troppo povero e troppo poco vecchio per “trattenere” i suoi abitanti due studiosi spiegano che cosa sta succedendo in Europa: con i numeri (e senza slogan elettorali)
di Marco Aime


In un’epoca in cui le migrazioni sembrano divenute l’unico problema che assilla il genere umano, e ne assilla la parte più sedentaria, in cui le parole si sprecano in una cacofonia di opinioni spacciate per verità, leggere due libri come quelli di Stephen Smith e Patrick Chamoiseau, è una sorta di terapia, magari non indolore, ma che serve davvero a comprendere cosa accade sotto i nostri cieli. Giornalista di
Libération, Smith nel suo Fuga in Europa compie una dettagliata analisi dei movimenti tra quella che lui chiama l’isola-continente di Peter Pan e l’Europa, basandosi essenzialmente sui dati e in particolare quelli demografici. Bastano poche cifre per comprendere quanto siano vaghi e vani i proclami di certi leader che promettono muri e blocchi.
In un continente la cui popolazione è di circa un miliardo, solo il 5% degli abitanti supera i sessant’anni, mentre il 40% ha meno di 15 anni. Per fare un rapporto, in Francia, paese particolarmente prolifico, la percentuale dei giovani è la metà. Di quel miliardo di africani solo 150 milioni hanno un reddito giornaliero che va dai 5 ai 20 dollari e costituiscono il bacino di coloro che vogliono emigrare. Secondo un sondaggio fatto da Gallup il 42% degli africani tra i 15 e i 24 anni vogliono emigrare dal loro continente. Una base giovane così ampia è peraltro esclusa dal voto, portato a 18 anni in quasi tutto il continente, e quindi impotente a cambiare le cose nel proprio paese. La popolazione africana, peraltro, continuerà a crescere tra il 2,5 e il 3% sino al 2050 molto di più della media della popolazione mondiale. Se tale tendenza si conferma, nel 2100 quando il pianeta sarà abitato da 11 miliardi di persone, il 40 per cento di esse saranno africane.
Di fronte a un continente giovane e con gravi difficoltà ad assicurare istruzione e lavoro a una così ingente massa di adolescenti, l’Europa sta invece seguendo un andamento opposto, quello dell’invecchiamento. Per fare l’esempio italiano, nel 1951 c’erano 31,4 ultra sessantacinquenni ogni 100 under 15; nel 2015 ci sono 157,3 «anziani» over 65 ogni 100 ragazzi sotto i 15 anni. Si prevede che nell’arco di un decennio l’incidenza degli under 15 scenderà ancora passando dall’attuale 13,7% a meno del 12%. Secondo le Nazioni Unite nei prossimi decenni l’Europa dovrà accogliere 50 milioni di migranti per mantenere il suo numero di abitanti e se vorrà stabilizzare la sua popolazione attiva si dovrebbero raggiungere gli 80 milioni. Abbiamo bisogno di giovani e non potranno che venire dall’Africa. Che piaccia o meno, molto probabilmente nel 2050 avremo tra i 150 e i 200 milioni di afroeuropei.
Se il libro di Smith ci mette di fronte a una realtà statistica e demografica ineluttabile, con cui bisognerebbe davvero fare i conti, avviando politiche lungimiranti, Fratelli migranti dello scrittore martinicano Patrick Chamoiseau, affronta la questione dal punto di vista della civiltà dell’umanità perduta, della barbarie, che individua nelle pieghe della cosiddetta società avanzata. Con un linguaggio che evoca la poesia evoca i drammi e le tragedie dei viaggi della speranza, ma con lucidità tagliente l’autore riesce anche a individuare le cause di così tante diseguaglianze che sfregiano il genere umano. Tra preghiera e denuncia Chamoiseau ci porta in un viaggio che pur facendo leva sul lato emotivo delle coscienze non scorda come la pace neo-liberale, il dominio del Grande Mercato sia alla base di tanto male. Questo libro traduce in emozione i dati e i concetti espressi nel testo di Smith: non siamo arrivati a tutto questo per caso. Politiche miopi e dissennate hanno causato un dissesto di cui ora paghiamo le conseguenze e poco senso ha erigere muri e barriere contro la storia. Una storia, quella del genere umano, che peraltro è storia di migrazioni, di cammini, fin da quando i nostri più lontani antenati lasciarono l’Africa orientale. Si tratta di scegliere, sembra dirci Chamoiseau, se rispondere dimostrando che ciò che abbiamo voluto chiamare «civiltà» è davvero espressione di una comprensione diversa oppure se è solo un modo per celare una barbarie vestita in modo elegante.
«Barbaro è colui che crede alla barbarie» scriveva Claude Lévi-Strauss; «La barbarie lega tutte le nostre disgrazie e ci costringe a considerare insieme tutte le nostre sfide» gli fa eco Chamoiseau.

Il Fatto 13.10.18
La verità, vi prego, su Benigni (e l’amore)
di Nanni Delbecchi


Lo diceva già Rossano Brazzi: “Nella vita l’unica cosa vera è l’amore, l’amore, l’amore…”. Roberto Benigni ne conviene: “L’amore è un discorso politico molto forte, è rivoluzionario”. Ci pareva di aver già sentito qualcosa del genere duemila anni fa, ma non sottilizziamo. Dopo La Divina Commedia e i Dieci Comandamenti, Robertino pane e vino si candida a successore di Papa Francesco? Per ora no, si accontenta di annunciare il ritorno a teatro e in Tv con “una specie di atlante intorno a questo sentimento, qualcosa come parlare dell’infinito, dell’oceano”. Il titolo perfetto sembrerebbe Brevi cenni sull’universo, ma lui ne ha scelto un altro: La verità, vi prego sull’amore.
Già che c’era, poteva aggiungere che lo ha copiato dalla celebre raccolta di poesie pubblicata da Wystan Auden nel 1939. Niente di grave, ma sarebbe bello che Benigni andasse fino in fondo, misurandosi con quelle ballate dove l’amore si rivela una serie inesauribile di interrogativi, l’esatto contrario di ogni stucchevole certezza. “Assomiglia a una coppia di pigiami/ O al salame dove non c’è da bere?/ È pungente a toccarlo come un pruno/ o lieve come morbido piumino?/ È un buon patriota o mica tanto?/ Ne racconta di allegre, anche se spinte?…”
Caro Benignuccio benedicente urbi et orbi (specialmente orbi): l’amore assomiglia più al Cioni Mario o a Pier Ferdinando Casini? All’Inno del corpo sciolto o alla sfilata del Family Day? A Televacca o a Che tempo che fa? La verità, vi prego, sulla verità.

La Stampa TuttoLibri 13.10.18
Aspettando le avanguardie la creatività si tinge di occulto
A Palazzo Roverella una mostra ripercorre la fascinazione per l’esoterismo che ha coinvolto l’Europa a cavallo tra l’800 romantico e la modernità del ’900
di Marco Vallora


Questa su Arte e Magia è la classica mostra, che se ti capitasse di vedere al Musée d’Orsay o in qualche rara istituzione belga, saccenza ti suggerirebbe di maledire: «Ma possibile che mostre così, noi, in Italia, ce le dobbiamo sognare?!». E invece no, basta prendersi il treno per Rovigo, ed ecco la buona sorpresa. Che poi non è così integrale, perché da tempo Palazzo Roverella ci ha abituato a mostre di tutto rilievo, grazie anche allo scrupoloso e dotto studioso Francesco Parisi e preziosi cataloghi Silvana. Che per fortuna, portandoci via dall’ormai uggioso e setacciato terreno dell’Impressionismo, grazie a sondaggi preziosi negli ambiti delle Secessioni nazionali e di quel fertile periodo simbolista, tra Ottocento post-romantico e Novecento pre-avanguardie, promette e mantiene, non poche e poco sospettate golosità espressive. Certo, l’ambito del cerchio magico ed artistico, intorno a quella singolarissima figura del nobile Péladan, che si ribattezza Sâr come un satrapo assiro, e fonda la scuola mistica (e cattolica) dei Rosacroce (coinvolge anche l’eccentrico Satie, che gli compone una marcetta personale) è già stata toccato da una recente mostra alla Fondazione Guggenheim. Ma qui il campo, che pure lo sfiora (visto che molti degli artisti presenti si rifanno al suo precetto: «Osare, volere, sapere, tacere») è molto amplificato. Infatti uno dei temi nevralgici della mostra è proprio quello dell’iniziazione, del silenzio programmatico, per non svelare arcani appresi in segreti consessi. E potremmo infatti partire proprio dalla sculturina in grès, La pleureuse, del poco frequentato Charles Gréber (in stile Minne) che rappresenta una sorta di panneggiata figura, senza volto, incappucciata, quasi una colonna piangente. Col velo che pare una cascata di dolore, e sforma ogni possibile fisionomia.
Il grès è un materiale invetriato, che moltiplica trasparenze e lascia sospettare una materia mobile, spiritica, sotto la madreperlacea superficie riflettente. «Sotto»: il gusto che andiamo a incontrare è proprio questo, ambiguo, anfibio. Diviso, schizofrenicamente, tra un bisogno intrinseco di silenzio arcano e confessionalmente enigmatico, omertà idealizzata, e simultaneamente l’esigenza di ostendere questi messaggi segreti ed iniziatici, inconfessabili (ma qui tutto si fa «in»: indicibile, invisibile, inspiegabile, e mettiamoci pure l’in-conscio). Omaggiato da gestualità che tornano, quasi ricorrenti (nei più diversi paesi toccati, e sono molti, Cecoslovacchia compresa). Ma modulati da una fantasia araldica e grafica, che è prodigiosa (splendida sezione curata da Emanuele Bardazzi). Il segno confessionale del dito avanti alla bocca, che richiama il celebre gesto del Dio Horus, che proibisce confidenze ai non-iniziati. E che passa dal belga Khnopff (con quelle figure sfibbrate in un pulviscolo di luce) al nostro toscano Kienerk, allievo macchiaiolo di Cecioni (che colpevole s’abbevera alla cultura esoterica). Da Carlos Schwabe, il grafico titolato del Sâr Péladan a Pierre-Félix Fix-Masson, uno dei classici aristocratici con nome multiplo, che tradisce il suo lignaggio, per meritarsi altri titoli virtuali: babilonesi od egizi. Perché in quegli anni, in cui l’archeologia in crescita scientifica, ha liberato la Sfinge di Giza, dalla polvere del deserto che la nascondeva agli sguardi, tutto riverbera quest’aura recondita. E la scienza positivista dei Raggi X, cerca di rincorrere simili fenomeni medianici (telecinesi, «piante mesmeriche», apporti), introdotte dalle «cattive scienze». Una nuova egittomania, nutrita soprattutto di mistica sapienziale orientale (Eliphas Lévy e la riscoperta di Ermete Trimegisto, ma c’è anche il mago Crowley).
L’idea (e l’ideale) di un’arte dell’invisibile, che cova sotto la pelle della realtà (in odio con il realismo alla Zola). La scoperta di mondi «altri», rispetto al gusto classico e al dogma della riproduzione fedele. Qui, in questo universo incarnato dalle teorie di Schuré (sui Grandi Iniziati: equiparando Gesù a Buddah, Abramo ai Veda, e ad altri profeti artistici, come Wagner, Moreau e Odilon Redon) è tutta una festa, liturgica e talvolta turgida, di cuori fiammanti e palpebre socchiuse, di estasi carnalissime e astri raggianti, di gigli, bafometti, circi con maiali succubi e vampiri-camaleonti, androgini, calici sanguinanti, mani che ghermiscono teschi e serpenti dal volto umano. Melanconico od estatico. Perché uno dei temi, che transitano attraverso questa funerea e voluttuosa kermesse di teosofia ed occultismo, satanismo e spiritismo (ovviamente con la figura dubbia di Eusapia Palladino, che attrae persino Bergson e i Curie) stregoneria a parte, è proprio quella dell’automatismo medianico. Che ha impressionanti analogie con le pratiche surrealiste (e le streghe di Grasset, che filtrano frammentate, attraverso tronchi di foreste, sono già puro Magritte simbolista). Così, accanto a nomi celeberrimi, che non potevano mancare, da Rops a Ensor, da Kupka a Delville, da Moreau a Martini(collezione Magritte!) si scoprono curiosi connazionali segreti. Come il suicida ventiquattrenne Gabrielli, «amico degli scheletri», che ritrae Oriani, mentre Romani si fa rifiutare il ritratto di Dina Galli, perché si trova troppo ectoplasma. Geniale Corinto Corinti, che come un nostrano Achilles Rizzoli, prepara per Vittorio Emanuele II un monumento, che sta tra la torre e lo stupa.

il manifesto 13.10.18
Sogni, immagini e parole. Il ’68 a Milano
Eventi. Un'esposizione - dove scorrono le immagini di Uliano Lucas - che è narrazione di quell’anno attraverso le forme di comunicazione utilizzate dai movimenti
di Antonello Catacchio


MILANO Forse è l’ultima delle tante mostre che hanno celebrato i 50 anni dopo. Ma solo in ordine di tempo. Si tratta infatti di Un grande numero. Segni immagini parole del 1968 a Milano, al Base di vie Bergognone 34, che chiuderà lunedì 22 alle 18,30 quando Uliano Lucas dialogherà a proposito del suo volume Sognatori e ribelli (Bompiani 2018). Perché Lucas? Perché le sue immagini scorrono a corredo dell’intera mostra, partendo ovviamente da qualche anno prima, come il concerto dei Beatles, il Piper (dove nel ’68 suona Hendrix), l’immigrazione per arrivare a Licia Pinelli in tribunale, a quell’insieme di pochi metri in cui molto è successo: la morte del poliziotto Annarumma, la strage della Banca dell’agricoltura, la statale assediata, occupata, sgomberata, la morte di Saltarelli che l’anno dopo la strage manifestava e veniva colpito da un lacrimogeno sparato come un proiettile.
La mostra nel suo insieme, pur essendo focalizzata su Milano, deve però aprirsi con uno sguardo sul mondo come premessa per far comprendere. Ecco allora scritte, manifesti, foto, documenti sul terribile ’68 statunitense con gli assassinii di Bob Kennedy Martin Luther King, la mattanza della convention democratica a Chicago, ma anche la nascita del Black Panther. Poi Parigi e la Francia, la Germania, Praga invasa dai carri armati del patto di Varsavia (quindi la rottura tra il partito comunista che difendeva l’intervento e i gruppi nascenti alla sua sinistra), l’Africa, L’America Latina (con il Che da poco assassinato) e soprattutto il Vietnam con la sua guerra di liberazione contro l’imperialismo americano. A Milano invece i primi fermenti erano stati La zanzara, la protesta all’Università Cattolica, i beat e Barbonia City. Si manifestava dissenso, critica e speranza, anche i provos in piazza contro i colonnelli greci, piuttosto che contro Franco in Spagna che ancora garrotava. All’inaugurazione della Scala si tiravano le uova ma perché la polizia aveva sparato a Avola. I giovani volevano prendere in mano il loro destino: i ragazzi allungavano i capelli, le ragazze accorciavano le gonne.
L’autoritarismo sino allora dominante veniva messo in discussione, non esistevano più tabu, il piacere del sesso irrompeva, l’esplosione della musica dirompeva, il potere e i benpensanti rompevano. E manganellavano. Un manifesto francese in mostra gioca sulle parole grève e crève (sciopero e crepa) seguito da generale, già perché in Francia al potere c’era proprio un generale che aveva combattuto i nazisti, ma, da conservatore nazionalista, anche gli algerini che volevano affrancarsi dal colonialismo. C’era un gran fermento, le scuole venivano occupate una dopo l’altra, anche nelle fabbriche ci si muoveva, ma ancora con educazione: una foto, presa presumibilmente davanti alla fabbrica OM, mostra una persona che parla al megafono, per farsi vedere è salito a cavalcioni tra due auto, ma poggia i piedi su dei fogli di carta per non rovinare l’auto.
Di lì a poco le cose cambieranno non poco. Polizia, bombe, servizi, eroina faranno il loro sporco lavoro. Ma non hanno potuto cancellare quella voglia di cambiamento, quelle assemblee infinite, quella ricerca di futuro diverso e migliore che la mostra sottolinea e racconta (anche con filmati d’epoca), quel tentativo che ha scosso il mondo intero provocando un terremoto politico e sociale che oggi sembra appartenere alla preistoria. Per fortuna qualcuno, compresi gli studenti dell’Università IUAV di Venezia, tra i curatori della mostra, sa ancora fare i conti: 68 meno 50 fa 18, l’età in cui, come scrive uno studente IUAV «ho imparato a viaggiare con la mente nelle epoche storiche, ma osservando con 2018 occhi. Ora si comincia a suonare». Speriamo.

La Stampa 13.10.18
1938, lo Stato italiano contro gli ebrei
Non solo Mussolini, il parlamento e il re ma anche i volenterosi carnefici del regime
di Vladimiro Zagrebelsky


La responsabilità delle leggi razziali antiebraiche introdotte a partire dal 1938 è certo di Mussolini, del parlamento fascista (alla Camera dei Deputati 340 voti favorevoli, 0 contrari) e di Vittorio Emanuele III; quest’ultimo successore sul trono di Carlo Alberto, che novant’anni prima aveva dato lo Statuto (tutti i regnicoli sono eguali dinanzi alla legge) e riconosciuto a ebrei e valdesi i diritti civili. Tra leggi e circolari l’espulsione degli ebrei dalla vita sociale fu progressiva e alla fine completa. L’impulso politico che aveva prodotto le leggi e le circolari ministeriali richiese atti di esecuzione.
La macchina della vergogna
In particolare, per l’espulsione degli ebrei dai posti che occupavano nelle professioni liberali e nella pubblica amministrazione, furono necessari atti amministrativi individuali per ciascuno dei colpiti. Molti organismi, molte persone furono quindi coinvolti e parteciparono all’opera.
Alla ricostruzione dell’esecuzione delle leggi razziali e all’identificazione di coloro che ne furono vittime si sono dedicati gli autori di due recenti studi. Il Consiglio Superiore della Magistratura e il Consiglio Nazionale Forense hanno da poco pubblicato un volume sull’allontanamento di magistrati e avvocati ebrei. Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, per Il Mulino, pubblicano ora Il Registro - La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti, 1938-1943 (pp. 344, € 26). Questo volume raccoglie le informazioni derivanti dalla documentazione della Corte dei Conti, chiamata a registrare la maggior parte dei provvedimenti di esclusione dai posti nella Pubblica Amministrazione.
Il censimento
Si tratta di circa 720 funzionari ebrei (56 dei quali sarebbero poi finiti nei campi di concentramento nazisti). Vi fu un censimento innanzitutto, con richiesta a centinaia di migliaia di dipendenti pubblici di fornire indicazioni sulla loro razza, discendenza, religione. Tutti dovettero rispondere (e risposero) e quindi, applicando complessi criteri, fu compilato l’elenco di coloro che dovevano ritenersi ebrei. Prima di essere cacciati, molti dipendenti pubblici, magistrati, avvocati ebrei scelsero di dimettersi o di cancellarsi dagli albi degli avvocati. Furono 14 i magistrati esclusi dall’Ordine giudiziario. Ogni posto «liberato» fu occupato da un dipendente non ebreo.
Si tratta di volumi che non solo coltivano il ricordo di chi fu colpito e la memoria dell’infamia dello Stato, ma anche consentono di non limitare e, per così dire, esaurire l’esecrazione con la condanna dei massimi responsabili politici. È infatti necessario allargare lo sguardo e chiedersi come fu possibile la rapida, solerte esecuzione di simili leggi, nella sostanziale indifferenza della società e dei colleghi delle vittime. E poi chiedersi come reagirebbero oggi la società italiana e le sue varie istituzioni, dovesse mai riprodursi una situazione di tanto grave ingiustizia delle leggi.
Una prima risposta richiama il peso schiacciante della dittatura e l’eliminazione dell’indipendenza della magistratura e dell’autonomia dell’avvocatura. I Consigli dell’Ordine degli avvocati erano stati progressivamente privati di competenze e sostituiti dal Sindacato fascista.
Una formula brutale
Ma a quel contesto istituzionale, da cui oggi siamo tanto lontani, va aggiunta la posizione della legge nel diritto e nella cultura giuridica di quel tempo: la legge indiscutibile, nessuna istanza superiore alla legge, cui richiamarsi per metterla in discussione. L’unica alternativa alla applicazione della legge era la sua violazione, oppure, sporadicamente, sforzi interpretativi e limitativi di cui in qualche caso fece uso la magistratura.
Quelle leggi e quelle introdotte nella Germania nazista e in altri Stati europei, poi concluse con la Shoah, hanno messo in crisi nel dopoguerra la pretesa di indiscutibilità delle leggi. Dopo l’esperienza nazista vi fu chi come Gustav Radbruck, il filosofo del diritto tedesco, riprese l’idea di un diritto al di sopra delle leggi, rispetto al quale le leggi positive possono tradursi in torto legale e quindi da non applicare. La riflessione filosofica è poi divenuta una realtà normativa, quando in Italia e in gran parte d’Europa si affermò la superiorità della Costituzione sulle leggi. Venne poi resa concreta la responsabilità degli Stati rispetto ai diritti fondamentali, con le Carte internazionali e particolarmente, in Europa, con la Convenzione europea dei diritti umani e la sua Corte.
Il criterio che si riassume nella brutale formula dura lex sed lex è oggi inammissibile. Non è più necessario il coraggio di rifiutare l’applicazione di una legge ingiusta, incompatibile con i diritti fondamentali dell’uomo. Ora, qualunque sia la forza del legislatore, qualunque sia l’atteggiamento dell’opinione pubblica, per tutti e in primo luogo per i giudici sarebbe un dovere sottoporre una simile legge a uno scrutinio superiore, quello fondamentale della giustizia.

il manifesto 13.10.18
Le gesta e il pensiero di Xi in un quiz in prima serata
Cina. Il nuovo programma televisivo «Studiare Xi nella Nuova Era»: un quiz tutto incentrato sulla figura del leader
di Alessandra Colarizi


Piena Rivoluzione Culturale. Il presidente cinese Xi Jinping, allora sedicenne, lascia Pechino alla volta di Liangjiahe per sottoporsi, come molti coetanei, alla rieducazione rurale. Ma il leader in erba era talmente assetato di conoscenza da essere disposto anche a camminare 15 chilometri solo per prendere segretamente in prestito un libro. «Quale libro ha preso in prestito Xi?» Il robot non fa in tempo a terminare la domanda che uno dei concorrenti schiaccia il pulsante e risponde con prontezza: «Faust di Johann Wolfgang Von Goethe». «Risposta esatta, complimenti!», esclama la conduttrice scatenando gli applausi del pubblico.
Siamo negli studi della Hunan Tv, il secondo canale più seguito in Cina, dove una scenografia futuristica fa da cornice all’ultimo gioiello della propaganda Made in China: Studiare Xi nella Nuova Era, gioco di parole basato sulla ricorrenza dell’ideogramma xi tanto nel nome del leader quanto nella parola studiare (xuexi). Lo show trasmesso in prima serata – che incarna perfettamente le due anime della Cina odierna, avveniristica e nostalgicamente patriottica -ha come tema centrale Xi Jinping, le sue gesta, i suoi gusti letterari e ovviamente il suo pensiero.
Il format si sviluppa più o meno così: tre concorrenti mettono alla prova le proprie conoscenze politiche sottoponendosi a due round di quiz e una breve esposizione sulle teorie del Partito. Una giuria composta da docenti universitari esperti di marxismo ne valuta la preparazione. In palio non c’è nulla, a parte il riconoscimento urbi et orbi della propria integrità ideologica. Lanciato lo scorso 30 settembre, il programma arriva a quasi un anno dal 19° Congresso del Partito, che ha sancito l’inserimento del nucleo dottrinale di Xi nella costituzione del Partito, prima volta dai tempi di Mao che un leader vede consacrare il proprio contributo teorico mentre ancora in vita. Da allora il «Xi pensiero» è diventato oggetto di studio tanto da ispirare l’apertura di circa una dozzina di centri di ricerca universitari.
Poi lo scorso agosto Xi ha sottolineato la necessità di sperimentare metodi creativi per rendere le questioni ideologiche più accessibili e alla portata di tutti. L’intervento pubblico ha insistito sulla funzionalità e «completa affidabilità» della strategia comunicativa inaugurata con il passaggio dalla vecchia alla nuova leadership nel 2012. Segno che, nonostante i diffusi malumori per un rinnovato culto della personalità d’ispirazione maoista, il protagonismo mediatico del leader non è vicino al tramonto.
Studiare Xi è solo l’ultima delle manifestazioni pop della propaganda pechinese, sempre più incline ad attingere a un variegato repertorio di espressioni artistiche, dal rap ai cartoni animati, pur di raggiungere i millennials, i più esposti al fascino dei temuti valori occidentali, nonostante i filtri della censura. Lo show arriva sul piccolo schermo proprio mentre lontano dalle telecamere è in corso una campagna di arresti contro un nuovo movimento intellettuale, nato nei campus universitari in sostegno del ceto operaio, che coniuga i precetti marxisti ai valori universali delle democrazie occidentali. Un’eresia per l’establishment cinese, ossessionato dal pericolo di una «rivoluzione colorata». Ecco che per correggere i pensieri errati non resta che un unico modo: studiare, studiare e studiare.